Sara Benaglia e Mauro Zanchi hanno intervistato Martina Corà —
Sara Benaglia / Mauro Zanchi: In Quadri Cinesi che si muovono (2016) usi delle GIF di paesaggio installandole all’interno di (brutte) cornici dorate. Perché hai scelto di interpretare visioni naturali stereotipate con delle GIF animate? Che cosa accade quando porti internet dentro una galleria?
Martina Corà: Quadri Cinesi Che Si Muovono è forse il mio primo tentativo, più o meno consapevole, di avvicinamento al video. Ripensandolo ora a distanza di anni mi pare evidente come in quel momento fossi satura di immagini statiche e cercassi vie alternative, sempre giocando all’interno delle regole della fotografia. In quel caso decisi prima di tutto di non rendermi autrice delle immagini, andando in opposizione all’approccio fotografico standard e appropriandomi delle foto più stereotipate e anonime per eccellenza: i wallpaper per sfondi del computer. La prima azione che ho deciso di porre su queste immagini è stata la creazione di un punctum, da me stabilito, sotto forma di selezione tramite il tool “lazo” di Photoshop. Questo loop in movimento mi ha sempre attratta durante l’utilizzo del software e mi sembrava la rappresentazione fisica più adatta di un concetto astratto come il punctum in fotografia. Inoltre mi premeva sottolineare come un’immagine statica potesse contenere al suo interno anche un elemento in movimento, da qui l’idea di utilizzare delle GIF nelle quali l’unico movimento fosse rappresentato dal punctum.
All’epoca trovavo buffo pensare che sempre più spesso scegliamo di circondarci di immagini idealizzate di cui non siamo gli autori, cosa ci porta a impostare come sfondo del computer o del cellulare la rappresentazione di una spiaggia o di un tramonto? È il posto dove vorremmo essere? O è semplicemente il panorama che vorremmo avere, rimanendo però dove ci troviamo? Il fattore di cortocircuito, per me, è rappresentato dal fatto che queste immagini certamente sono state realizzate da una persona reale, ma al tempo stesso non restituiscono alcuna soggettività, come se fossero inquadrature facenti parte di un immaginario collettivo al quale siamo tutti connessi, un po’ come internet: è di tutti e di nessuno.
Naturalmente questo concetto riletto oggi risulta ormai polveroso, se non addirittura agli antipodi della situazione in cui ci troviamo ora. L’oggettività anonima ha lasciato sempre più spazio a una soggettività totale e urlata, alimentata dalla facilità di realizzazione di immagini grazie alle telecamere dei cellulari sempre più performanti e all’eccessivo utilizzo di esse. Internet è un organismo vivente che fa da specchio verso i propri user, è una nostra rappresentazione, talvolta ci precede, altre volte ci confonde, ma naturalmente siamo sempre noi a comandarlo e renderlo vivo, come fosse la nostra ombra che cambia forma in base all’ora del giorno.
Per questo motivo portare questo concetto in una galleria è stato un passaggio relativamente spontaneo, che non penso abbia causato particolare sconcerto negli spettatori proprio perché già abituati, da loro stessi, a paesaggi di questo tipo. Paradossalmente l’elemento di disturbo credo fosse più rappresentato dalle cornici, seconda e ultima azione che ho voluto aggiungere alle opere. Il contenuto era dichiaratamente di origine digitale, ma vestendole di quell’abito volutamente kitsch, ho cercato di sottolineare come talvolta sia superflua l’apparenza e molto più fondamentale l’interiorità delle cose.
SB/MZ: OOOOOlympics (2017) suggerisce una relazione tra sport e decoro, una dimensione che potrebbe essere suggerita dalla “sportification” generalizzata implementata da giochi di squadra televisivi (Giochi senza Frontiere) con una deriva “culturale” turistica. Come è nato questo lavoro?
MC: In realtà il progetto nasce da un’idea non mia e che continua a vivere imperterrita nei secoli, ovvero il raggiungimento di un limite e il superamento di esso. In questo caso specifico, un traguardo ottenuto con le proprie forze, attraverso una manifestazione in primo luogo fisica, e poi sportiva. Durante le Olimpiadi invernali di Sochi nel 2014, la performance del salto con l’asta di un giovane ragazzo francese, Renaud Lavillenie, stabilisce un nuovo record scatenando una reazione di entusiasmo inaspettata nel pubblico e anche in me, che lo osservo a kilometri di distanza e in differita, attraverso uno schermo in casa mia.
Il fine ultimo dell’opera è proprio immortalare questo momento spiazzante nel quale il gesto di un singolo viene vissuto in modo collettivo, trasformando un frammento effimero, un file digitale, in un emblema che cattura un attimo tra i tanti rendendolo irripetibile e tangibile. Non era mio interesse creare dei decori, tant’è che il risultato ultimo non si manifesta in un oggetto fisico, ma in una immagine bidimensionale creata ad hoc. Nulla di quello che si vede è stato realizzato direttamente da me, ma piuttosto è il frutto di una regia molto approfondita e di montaggio tra milioni di possibilità che internet mi offriva. Lo sfondo sono dei sample di tessuto vellutato che ho editato secondo il mio gusto, i supporti (piatti e vasi) li ho attentamente scelti in una ricerca che mi ha portata quasi alle origini del tempo. I veri protagonisti poi, quelle figurine di atleti, pastellose e che sembrano quasi svanire, sono il risultato di una immersione su youtube, giorni passati a riguardare vecchie edizioni delle Olimpiadi (principalmente quelle negli anni ‘80 e ‘90, in quanto preferisco la pasta delle immagini in vhs a quelle odierne, troppo dettagliate e in alta qualità) e selezionare il momento di climax. Mi azzardo sornionamente a definirlo un punctum sportivo, che spesso coincideva col momento in cui l’atleta raggiungeva la massima espressione della sua impresa e anche quello in cui io mi emozionavo maggiormente. Mi interessava la celebrazione del gesto sportivo come un traguardo dell’uomo, la cui iconografia è apparsa nel corso della storia. Ooooolympics, coi suoi toni volutamente pop, mette in dialogo la contrapposizione di questo momento con le sue radici storiche, che partono dalle manifestazioni sportive dell’Antica Grecia.
SB/MZ: Perché la nostra società ha bisogno di atleti? Come le registrazioni sportive hanno cambiato la fotografia?
MC: Forse in parte ho risposto nella domanda precedente. Credo che come esseri umani siamo portati a interessarci di qualsiasi cosa ci riguardi in prima persona, dunque il raggiungimento di un traguardo da parte di un’atleta in qualche modo è un traguardo collettivo. Come quando vince la propria squadra di calcio: anche se non siamo stati noi fisicamente a tirare la palla in rete, l’emozione che ci scatena quel momento è quasi la medesima, se non addirittura superiore. Sapere che il fisico umano, che tendenzialmente può avere lo stesso potenziale per tutti, possa raggiungere e oltrepassare certi limiti ci fa sentire più forti, più sicuri e, come al solito, un po’ meno mortali. Proprio nell’Antica Grecia gli atleti erano visti come degli eroi, basti pensare alla florida mitologia e a figure come Ercole che si contraddistinguevano principalmente per la straordinaria forza fisica e il successo in diverse discipline. Non a caso le Olimpiadi sono nate proprio in Grecia, dove questo genere di manifestazione rappresentava un’occasione eccezionale, nel corso della quale le città interrompevano le proprie dispute e riuscivano a riconoscersi reciprocamente come sorelle. In un certo modo rappresentarono il punto più alto della cultura ellenica, riuscendo a rappresentare concretamente gli ideali di aretè cui tendevano i racconti mitici. Se accettiamo dunque di interpretare l’azione sportiva come azione di manifestazione fisica umana per eccellenza, è inevitabile pensare che la fotografia e tutte le altre arti rappresentative ne siano state influenzate, per lo stesso motivo che accennavo all’inizio della risposta: l’essere umano è attratto da se stesso in primis, dall’azione che produce alla registrazione di essa come testimonianza e ricordo.
SB/MZ: In Crescendo come hai spostato la tua precedente ricerca col medium fotografico verso la tridimensionalità plastica, nella trasformazione di un linguaggio gestuale – come quello di un direttore di orchestra che dirige gli strumentisti con il movimento delle mani per muovere le dinamiche della musica – in forma scultorea?
MC: Il mio approccio al mezzo fotografico nasce dall’osservazione del mondo esterno e dalla volontà di registrare dati specifici che incontro nel mio vissuto, ricomponendoli secondo la mia visione e “giocando” con gli strumenti e i limiti che la camera offre. Mi sento particolarmente attratta dal concetto di limite che lo strumento/medium mette a disposizione dell’autore e come questo entra in relazione con esso. Credo che da questo incontro nascano delle riflessioni e spunti interessanti, in grado di ampliare questo limite e alle volte superarlo del tutto. Il passaggio alla scultura è arrivato per necessità, ho iniziato a interessarmi a come fosse possibile dare forma concreta a una serie di fenomeni che normalmente vivono nella dimensione dell’immaginario o del non visibile. Tali elementi, spesso, non avendo una connotazione fisica definita, tendono ad essere percepiti come astratti e alle volte per questo motivo rischiano di finire nell’oblio o snobbati dai più. Mi attira molto questa dicotomia di determinate informazioni che tutti noi sappiamo riconoscere in quanto tali, ma che difficilmente sapremmo rappresentare o addirittura descrivere, proprio perché tendiamo a fare affidamento principalmente sul senso della vista e questo ci limita sul grado di percezione del mondo reale in cui siamo immersi e che invece andrebbe vissuto in maniera più totale.
Avendo iniziato a tradurre il mio vissuto attraverso la fotografia, e dunque con un mezzo che fa appunto da interprete tra la vista umana e la realtà, mi è venuto spontaneo applicare un metodo simile con la scultura, non approcciandola col modus che possiamo definire classico, ma facendo più un lavoro di regia e sfruttando anche in questo caso tutte le declinazioni e traiettorie che poteva prendere. Dunque se la scultura classica prevede che l’artista metta fisicamente le mani sulla materia e con esse la plasmi, nel mio caso ho deciso di avvicinarla in un modo a me più affine: mettendo a confronto l’elemento umano con l’elemento artificiale (direttore d’orchestra versus software per la mappatura) per poi arrivare alla forma concreta sempre avvalendomi di una forza artificiale (stampa 3D).
SB/MZ: Per la mappatura dei movimenti e la successiva trasposizione visiva ottenuta attraverso un software che capta i movimenti del direttore d’orchestra, perché hai scelto proprio le composizioni sinfoniche Prèlude e L’Après Midi D’un Faune di Debussy?
MC: La scelta finale è ricaduta, anche abbastanza rapidamente, su Prèlude a L’Après Midi D’un Faune di Debussy, dopo essermi confrontata con Giovanni Pavesi, il direttore d’orchestra con cui ho lavorato a stretto contatto per poter restituire in modo più fedele possibile quei movimenti che tanto chiedevano di essere visti, oltre che ascoltati. Abbiamo fatto diversi tentativi, abbastanza surreali soprattutto per Giovanni, pomeriggi in cui si è ritrovato a dover dirigere un’orchestra immaginaria (sforzo notevole per chi è abituato a lavorare con un corpo organico e ricettivo) e come unico pubblico un sensore che registrava e mappava i suoi movimenti, rendendoli segni grafici primordiali. Giovanni mi ha subito esposto la sua premura nel poter dirigere un brano che sentisse in modo particolare e personale, proprio per poter restituire il suo stile nella sua gestualità. Abbiamo dunque pensato al Prèlude di Debussy, simbolo dell’impressionismo musicale, in grado di offrire uno spettro molto ampio di variazioni dal punto di vista tecnico ed una grande diversità gestuale, permettendomi di sondare e analizzare i tipi diversi di gesto ed isolando quelli che maggiormente mi impressionavano.
SB/MZ: Cosa significa per te essere un’osservatrice, che cerca di vedere anche nell’interiorità stando in disparte?
MC: Nonostante non sia più così attaccata al mezzo fotografico, ricordo e in parte mi riconosco tutt’ora in questa affermazione. La macchina fotografica impone in qualche modo un distacco dalla scena principale, banalmente perché ci si copre il volto con la camera, rendendosi anonimi e creando una sorta di ibrido umano/artificiale. Questo mio approccio iniziale nel registrare la realtà ha sicuramente contribuito a rendermi un’osservatrice che tende all’invisibile, complice anche la mia natura discreta. Le migliori fotografie che ho scattato, a mio parere naturalmente, sono quelle in cui riesco a trascendere la realtà fisica in cui mi trovo diventando parte del paesaggio e non più una presenza in esso. Questo non significa stare in disparte, semmai è il contrario, significa diventare parte del tutto, muoversi insieme ad esso e poterlo registrare indisturbata, senza variare gli umori degli altri elementi presenti nella scena. In questo senso credo davvero che sia un’estensione del mio carattere, essendo nata e cresciuta in un mondo in cui la rappresentazione del reale è imperante. Penso che pochi della mia generazione siano scampati all’osmosi delle immagini, che fin da piccoli abbiamo sperimentato in modo attivo e passivo. Per noi è normale avere delle fotografie di noi da bambini, che testimonino la nostra crescita, la nostra vita e questo contribuisce a creare un’idea di noi stessi e talvolta di come dovremmo essere. Mi chiedo che tipo di persona sarei se fossi nata prima dell’avvento della fotografia.
SB/MZ: La fotografia è una scultura?
MC: Per quanto possa risultare stonata questa risposta, per me sì. Come la scultura estrapola la materia presente nella realtà e la plasma con le mani secondo la sua volontà, così la fotografia impressiona una selezione della realtà che viene modellata e ricomposta dall’occhio di chi scatta. In questo senso per me sono entrambe delle quinte che lasciano spazio alla visione umana, a prescindere dal mezzo utilizzato.
SB/MZ: Nel tuo lavoro è mantenuta una distinzione tra reale e virtuale?
MC: Credo di sì, in fondo il mio lavoro cerca proprio di porsi nel mezzo tra reale e virtuale e indagare lo spazio comune che si crea tra le due entità. Il mio desiderio è quello di ricreare una sensazione tra l’onirico e la veglia, come in un sogno lucido, metafora che trovo molto calzante alla realtà che viviamo quotidianamente, che altro non è che frutto della nostra reinterpretazione di essa, dunque per definizione rimane soggettiva e diversa per ognuno di noi. Sapere che in tutti noi esiste questa dimensione mi conforta e mi spinge a volermici avventurare ancora di più in modo da poter restituire la mia visione di questo terreno sconosciuto, eppure familiare.
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