Intervista con Chiaralice Rizzi e Alessandro Laita
Sara Benaglia e Mauro Zanchi: Nel libro e mostra Live in the house and it will not fall down (2016) che tipo di rapporto avete instaurato con la fotografia?
Alessandro Laita: Live in the House and It Will Not Fall Down è una collezione di fotografie rinvenute nello studio del padre di Chiaralice nel 2010, sei anni dopo la sua morte. L’idea iniziale del libro nacque dalla necessità pratica di liberare quello spazio. Quando siamo entrati in studio insieme per la prima volta, abbiamo deciso di fare poche fotografie della stanza e dei moltissimi oggetti che erano rimasti. In seguito al ritrovamento delle fotografie in un cassetto dello studio il progetto è cambiato. Abbiamo capito che le fotografie ritrovate erano usate dal padre di Chiaralice come modelli per i suoi quadri, erano dei materiali che in qualche modo lui aveva “salvato”. Messe in un cassetto, queste fotografie, pronte per essere utilizzate, diventavano gli strumenti dei quali l’artista si serviva, la sua grammatica quotidiana. Ci siamo messi in ascolto e, osservando a lungo il materiale, le fotografie hanno iniziato a disporsi secondo percorsi autonomi e a raccontarci una storia. A quel punto eravamo diventati i primi spettatori, curatori e custodi di quella storia e abbiamo quindi cercato di restituirla nel modo più diretto e efficace.
Chiaralice Rizzi: Un rapporto con l’immaginazione e lo sguardo di chi le ha scattate.
Sara Benaglia / Mauro Zanchi: Che cosa porta a definire “amatoriale” un certo tipo di fotografia?
CR: La fotografia amatoriale nasce da gesti slegati da preoccupazioni concettuali e a volte anche estetiche. Ci colpisce perché spesso è inaspettata. Riguardo al nostro libro, quelle fotografie possono essere considerate amatoriali perché non nascono con l’intenzione di essere belle o significative e nemmeno di essere viste. Chi le ha scattate era un artista, è vero, ma stava usando il mezzo fotografico per altri scopi. Era la distanza a interessargli. Quell’uomo in piedi forse si stava chiedendo quale fosse il modo giusto per dipingere l’acqua e perché quelle onde gli sembravano qualcosa di bello. Capisce che a un primo sguardo seguono solo altri primi sguardi.
AL: Ci siamo chiesti come mai un fotografo amatoriale avesse tante fotografie in serie, scattate in diverse ore del giorno, in momenti diversi. Vuol dire che è tornato più volte in quel punto a fotografare la laguna. Tutte apparentemente uguali, ma tutte leggermente diverse, dove vediamo solo piccoli spostamenti. Pochi particolari, pochi attori: un palo, una barca, un’onda, un sasso. Questo mare grigio calmo, il cielo dello stesso colore, poche sfumature verso un fondo scuro. Una lingua di terra si avvicina, una barca passa e la città in lontananza si staglia nera in controluce. Qui capiamo che quello che stava cercando non era un soggetto in particolare, né la cosiddetta “bella fotografia” nel senso più tradizionale. Stava cercando un’inquadratura. Il suo pensiero non era rivolto alla fotografia in sé stessa o alla necessità tecnica di riprendere al meglio possibile un paesaggio. Insomma, non era la qualità in senso stretto della fotografia che gli interessava, ma la sua attenzione era rivolta all’immagine. Il libro si apre infatti con una serie di marine. Questo inizio è una delle microstorie di cui il libro si compone ed è un esempio del tipo di atteggiamento “seriale” che abbiamo ritrovato più volte in questo gruppo di foto. Queste microstorie compongono una narrazione che, seppur frammentata, riesce a parlarci della vita di una e più persone, di una stanza, di una città. Quello che manca per noi più che buchi sono spazi liberi, che mettono l’immaginazione al lavoro.
SB+MZ: Nel medesimo progetto avete catalogato e archiviato fotografie di oggetti dello studio, ma poi avete deciso di non pubblicarle. Perché?
AL: Dopo qualche sopralluogo nello studio abbiamo raccolto tutti gli oggetti possibili e per prima cosa li abbiamo trasportati nell’atelier che avevamo alla Fondazione Bevilacqua La Masa. Una volta suddivisi, abbiamo passato diversi giorni in sala pose dello I.U.A.V., fotografandoli tutti. I materiali erano molti e pensavamo di farne una specie di catalogo. Si trattava di oggetti legati al mondo della pittura, ma anche di altre cose come strumenti fotografici e molti pezzi di vetro e murrine di Murano. Abbiamo accantonato questo materiale dopo aver trovato il gruppo di fotografie e cartoline che ora costituiscono il libro. La decisione di non usare quel materiale è arrivata perché quello che avevamo successivamente trovato aveva tutta una sua presenza che allora abbiamo ritenuto non avesse bisogno di essere “spiegata”. Credo ci sarebbe stato quel pericolo aggiungendo il catalogo di oggetti. In fondo in quel cassetto c’erano materiali che lui aveva già selezionato con l’intenzione di usarli di nuovo o magari per la prima volta. Insomma era come se fossero lì ad aspettare di essere ritrovati e riconfigurati.
CR: Le immagini di quegli oggetti sono belle, affascinanti: pennelli sporchi, tubetti di colore congelati nell’ultima pressione della mano, la tavolozza con i colori che ancora brillano, le murrine con le loro trasparenze. Usare quel materiale avrebbe voluto dire rischiare di considerare in modo feticistico anche le immagini che vedete nel libro e concentrarsi su una dimensione puramente estetica dell’oggetto-foto. Abbiamo quindi optato di privilegiare esclusivamente il racconto che usciva dalle fotografie trovate nel cassetto, fissandole nella forma che abbiamo ritenuto più giusta (il libro), senza però far dimenticare la loro natura di documenti.
SB+MZ: Che cosa produce un processo di archiviazione e catalogazione sulla dimensione personale?
CR: Per alcuni anni, dal 2004, mi sono recata più volte nello studio di mio padre e ho realizzato dei lavori a partire dalle cose che vi avevo trovato, instaurando un dialogo a una voce con lui. In realtà continuo ancora a trovare cose che col trasloco sono passate dallo studio a casa, ma per qualche motivo non avevo mai considerato e di cui invece ora mi accorgo. Si tratta specialmente di piccole tele e disegni incompiuti. Nel caso del libro è stato diverso, perché si trattava di avvicinare la storia di una vita intera. Questo movimento ha comportato necessariamente due momenti: uno di avvicinamento e uno di allontanamento. Avere lavorato con Alessandro a questo progetto mi ha permesso di raccontare questa storia staccandola dalla mia biografia.
Il libro infatti riguarda il modo in cui due artisti hanno incontrato lo sguardo di un altro artista. Nel libro ci sono alcune testimonianze biografiche, ma si trattava di foto che io non avevo mai visto. Incontrarle per la prima volta assieme a lui le ha collocate diversamente dentro di me. Guardandole ho riconosciuto il giovane artista prima ancora che mio padre.
AL: In questo senso abbiamo cercato di trovare un equilibrio, quello che la Sontag indica come uso privato e pubblico della fotografia, restituendo ciò che ci piace definire un’esperienza catturata. Un diario scritto non dal suo autore ma dal nostro incontro con il suo lavoro. In definitiva questo incontro è un incontro di sguardi, di testimonianze, in cui io mi sono avvicinato come un estraneo e ho cercato di ricostruire, attraverso quello che a me piace fare, ovvero osservare, la sua storia. Potevamo inventare una storia nuova, una storia finta, oppure cercare di ricostruire filologicamente la sua vita. Invece abbiamo deciso di osservare, di guardare a lungo questi materiali, cercando di dare loro la giusta dimensione. L’atto di guardare è stato uno strumento che per noi è servito a recuperare quella storia che ora possiamo “vedere” nel libro.
SB+MZ: Come lavorate sul processo di osservazione?
CR: Il processo di osservazione è complesso e per un artista osservare è un modo per avvicinare le cose, la propria vita e l’esperienza che ne fa. Personalmente, quando penso al processo di osservazione, mi viene in mente un verbo che usava Zanzotto: “trapungere”. L’artista osserva come un ago la realtà e trapassa pungendo il suo tessuto.
AL: Osservare è per noi un’attività, un’azione, un gesto che ci permette di conoscere il mondo. Osservare è anche uno strumento con il quale diamo un nome alle cose che ci stanno attorno. Osservare è anche aver cura, un’attenzione per il mondo. Osservare è soprattutto un’attività mentale, un processo che, per dirla con Giulio Paolini, comincia nel momento in cui chiudiamo la finestra.
SB+MZ: Quando qualcosa sfugge allo sguardo?
CR: L’osservazione è legata alla percezione. La scorsa estate eravamo in residenza ad Art House (Scutari) con il sostegno di NCTM. Ogni anno Art House organizza l’Art House School, che per un mese ospita giovani artisti albanesi. Lo scorso anno aveva un titolo bellissimo: “Beyond the Image”. Ragionando attorno a quel tema siamo arrivati a pensare che quello che sfugge allo sguardo è proprio quello che bisogna cercare di avvicinare. Sollevarsi dall’osservazione alla percezione può essere un modo per provarci. Così quando guarderemo un’onda, una montagna o due mani che si muovono vedremo certamente un’onda, una montagna e due mani, ma troveremo anche altro. Oltre quelle immagini troveremo altre immagini.
AL: In questo processo di osservazione, come artisti, siamo alla ricerca proprio di ciò che sfugge allo sguardo, che sta dietro all’immagine, come dice Chiaralice, nel tentativo di rendere visibile un qualcosa di invisibile. La percezione è un atto mentale. Quando guardo dalla finestra registro quello che vedo nel mio campo visivo, ma è nel momento in cui chiudo quella finestra che rielaboro ciò che ho visto e lo faccio partecipare alla mia esperienza. Possiamo approfondire ed estendere la nostra sensibilità percettiva? Sì, se ci facciamo coinvolgere in questo dialogo tra il visibile e l’invisibile.
SB+MZ: In che modo il vostro lavoro si relaziona a quello di Lewis Baltz (1945-2014)?
CR: Rispondo con una cosa che mi aveva scritto lui in una delle nostre conversazioni via email quando non eravamo a Venezia insieme. Mi aveva scritto che quello che gli artisti come noi cercano di fare è aprire un dialogo con l’osservatore, per sensibilizzarlo rispetto a quello che seguirà l’incontro con il lavoro. Per farlo bisogna cercare che il lavoro crei uno spazio di contemplazione che continui anche dopo, una volta chiuso un libro o visitata una mostra.
AL: Nel testo che Lewis ha scritto sul mio lavoro, pubblicato in Lewis Baltz, Scritti (Johan & Levi), Lewis racconta della sua partecipazione a una serie di conferenze curate da me e Chiaralice. In quell’occasione fece un omaggio alla celebre conferenza intitolata Available in Response tenuta da Robert Irwin alla University of California, una sorta di performance in cui Irwin/Baltz rimasero in silenzio per tutta la durata della conferenza, rispondendo solamente alle domande poste dal pubblico. Questo atteggiamento, che vede nell’opera d’arte uno strumento di indagine di ricerca fenomenologica, indipendentemente dal mezzo usato (Baltz smette di fare fotografia negli anni ‘90), penso sia ciò che ci avvicina di più al suo lavoro.
SB+MZ: Quale processo adottate nell’elaborazione dei vostri disegni (Alessandro) e fotoincisioni (Chiara)?
CR: È un lavoro di messa in forma. Ragiono attorno a un certo materiale, soggetto, idea, e cerco di spingere il lavoro verso un equilibrio estetico e formale. È un processo piuttosto lungo, ma che non intacca la spontaneità del risultato. Questo riguarda in generale il mio modo di lavorare. Nello specifico, le fotoincisioni sono nate perché il ragionamento che stavo facendo attorno ad alcune immagini aveva bisogno di quella forma, forma che solo quella tecnica avrebbe potuto dare.
AL: Anch’io non mi sento legato particolarmente a un mezzo specifico. Cerco di non partire mai con l’idea di fare una fotografia, un disegno o un video, ma aspetto che sia il materiale a configurarsi seguendo quel mezzo particolare. Certo c’è anche un aspetto di pratica quotidiana, soprattutto con il disegno, che mi permette di esplorare il mezzo avvicinandomi alla resa formale che sto ricercando, una sorta di ginnastica. Osservando alcune fotografie cerco di ricercare nell’immagine quello che non si vede, che sfugge allo sguardo. Però questo vale non solo per il disegno, ma anche per la fotografia, per il video: non sono interessato tanto a raggiungere una capacità tecnica, quanto piuttosto a ricercare nell’immagine il suo significato più nascosto.
SB+MZ: Che logica cognitiva ha il restauro di un’immagine?
CR: La curiosità di ricostituire per quell’oggetto un valore che si considera perduto.
AL: Nel 1972 John Baldessari scrive sotto due foto della stessa matita consunta ritratta prima e dopo averla temperata: “I had this old pencil on the dashboard of my car for a long time. Every time I saw it, I felt uncomfortable since its point was so dull and dirty. I always intended to sharpen it and finally couldn’t bear it any longer and did sharpen it. I’m not sure, but I think that this has something to do with art.”
SB+MZ: Quale è la natura dell’immagine?
CR: Nelle mani di un’artista l’immagine si fa racconto, perché viene trasformata dalla sua sensibilità. In questo modo quello che restituirà all’osservatore non potrà essere descrizione, resoconto, pura apparenza. La natura dell’immagine sta tra reale e immaginario.
AL: John Ruskin, nel suo Gli elementi del disegno (1857), scrive una nota a un esercizio, che consiste nel disegnare le chiome degli alberi: “Vi è un’amabile lezione di questo genere nelle ombre gettate dalle foglie sul terreno, ombre che per la graziosa e giocosa mutevolezza sono fra le più atte ad attirare l’attenzione. Se le osservi, noterai che le ombre non assumono le forme delle foglie, ma che la luce cade negli interstizi, a breve distanza, essa produce l’immagine del sole e la proietta in senso verticale o obliquo, in circoli o ellissi a seconda dell’inclinazione del terreno. I raggi solari producono lo stesso effetto nel passare attraverso qualsiasi piccola apertura, naturalmente: ma gli interstizi tra le foglie sono gli unici a mostrare tale effetto al comune osservatore, o a richiamare la sua attenzione su di esso a causa della sua frequenza, e a indurlo a considerarne il significato simbolico nei riguardi del maggior Sole; ovvero che, anche quando l’apertura attraverso cui la terra riceve la luce è troppo esigua per lasciarci vedere il Sole, il raggio che vi penetra, se viene direttamente da Lui, recherà pur sempre la Sua immagine.”
SB+MZ: Nel vostro progetto Tempo di Viaggio (2018) che relazione c’è tra geografia e immaginazione?
CR: È una relazione che riguarda la percezione del mondo e la possibilità di trasformare impressioni visive in immagini in grado di amplificare i punti di vista, per andare al di là dell’oggetto contemplato e mostrarlo in modo insolito. A me interessa la percezione personale della geografia, quella che permette di esaminare il mondo attraverso l’immaginazione. I luoghi che abbiamo ricreato nelle immagini di Tempo di viaggio sembrano fotografie di paesaggio, ma sono in realtà un’elaborazione di still (del documentario girato da Andrej Tarkovskij e Tonino Guerra), che nelle nostre mani sono diventati spazi non descrittivi per una riflessione sulla fotografia: il paesaggio viene restituito attraverso discordanze sottili, che alterano l’autenticità della fotografia di genere.
AL: Il nostro intento in questo lavoro era di utilizzare la pratica del montaggio come strumento per arrivare a una riflessione sulla fotografia di paesaggio. Le immagini che abbiamo realizzato sono state costruite attraverso la stratificazione di molti fotogrammi che, dopo un lungo lavoro di osservazione, andavano a configurarsi in uniche sequenze di immagini. Abbiamo fatto un lavoro simile a quello che in pittura viene definito velatura: i fotogrammi sono stratificati uno sopra l’altro, con diversi gradi di opacità e trasparenza. In alcuni casi sono state applicate delle maschere, fino a ottenere il risultato finale. Volevamo ricavare un’immagine che fosse plausibile ma che allo stesso tempo avesse un lato opaco quasi indecifrabile. Le sequenze del documentario che abbiamo selezionato sono abbastanza brevi: si tratta di momenti di pausa o di raccordo tra un punto e l’altro della narrazione, dei brevi intermezzi paesaggistici. Sottraendole dal flusso narrativo le abbiamo rinconfigurate in immagini rarefatte, in oggetti complessi, che richiedono da parte dello spettatore un’attenzione e una cura particolari. Mi vengono in mente i primi fotografi, che andando a fotografare gli scorci paesaggistici dipinti dai loro colleghi pittori, si resero conto che quello che fotografavano era completamente diverso dai dipinti o dagli acquerelli. Lewis Baltz una volta mi disse che la differenza tra un pittore e un fotografo è che un pittore deve fare i conti con una tela bianca, il fotografo invece ha già tutto pronto, tutto è già di fronte a lui deve solo sapere come guardare. Uno degli esercizi per imparare a disegnare è quello di fare un ritratto partendo da una fotografia al rovescio, sotto sopra. Così facendo distraiamo il nostro cervello e non vediamo più il naso come “naso” ma lo analizziamo sotto il profilo squisitamente formale. Altrimenti la tendenza è quella di disegnare la nostra idea di naso. Con la fotografia assistiamo esattamente al processo inverso (è interessante qui notare come i molti fotografi guardano il mondo al contrario), ovvero è quanto più possibile oggettiva rispetto a ciò che ci sta di fronte. Se la difficoltà nel disegno consiste nell’eliminare il nostro condizionamento mentale, nella fotografia è capire come far vedere ciò che abbiamo davanti, nel modo in cui noi soltanto riusciamo a vederlo.
SB+MZ: Una coppia è un collettivo?
CR: Sì, perché un collettivo è formato da due persone che hanno un ritmo e si scambiano delle opinioni, come in una coppia. Alessandro e io portiamo avanti contemporaneamente progetti personali e una collaborazione artistica, che talvolta sfocia nella pratica curatoriale come nel caso di Conversation Piece. Tutte queste attività sono legate e si influenzano.
AL: Durante il mio percorso artistico ho sempre ricercato la collaborazione. Come dicevo prima, l’arte per me è primariamente uno strumento di ricerca e in quanto tale ha bisogno della collaborazione, e alle volte può risultare in un lavoro condiviso.
SB+MZ: Quale progetto o ricerca avete in corso attualmente?
AL: Stiamo lavorando attorno ai primi materiali raccolti in occasione della residenza ad Art House e grazie alla quale abbiamo stabilito un dialogo molto bello con il Museo Marubi. Il progetto principale si chiama The Memory of The Air e parte proprio da una delle fotografie del loro incredibile archivio. La fotografia (1967) è di Angjelin Nenshati e ritrae una ginnasta che volteggia agli anelli sull’altare della chiesa di San Nicola a Scutari, che allora era stata trasformata in un centro giovanile. Cosa c’è oltre questa immagine?
CR: Fantasticando dentro la fotografia andiamo oltre la semplice comprensione visiva e bellezza primaria, per trovarci sospesi tra dialettiche fondamentali: desiderio di libertà e costrizione sofferta, speranza e rimpianto, leggerezza e gravità, bene e male. Oltre quest’immagine di leggerezza ci sono altre immagini, potenziali, ipotetiche, fantastiche. Immagini della solitudine della mente che trascende i confini fisici del corpo di cui fa parte, immagini del fantastico che scaturiscono dal quotidiano, immagini che cercano di spiegare il reale attraverso l’immaginario. Seguire queste tracce è il fine del lavoro.
SB+MZ: Quali potrebbero essere inedite declinazioni sui lavori d’archivio? Come immaginate ulteriori possibilità in questo campo proiettate verso il futuro?
CR: Penso che un lavoro che parta da materiali d’archivio possa essere considerato tale quando l’archivio passa nell’opera e quindi diventare un insieme in cui tutto è collegato: nessun resto, solo un unico flusso. Per fare questo bisogna osservare i materiali per quello che sono e racchiudono e non trattarli solo come frammenti di un insieme da organizzare. In questo modo, idealmente, ogni materiale d’archivio potrà raccontare anche cose che eccedono la sua stessa natura di documento. È quello che stiamo facendo col progetto The Memory of The Air. Le possibilità si ampliano quando si approccia un progetto in base a ciò che il materiale suggerisce, perché l’artista si troverà a dover rendere elastico il suo modo di lavorare, muovendosi attraverso mezzi diversi tra loro. È difficile lavorare così, ma ho sempre pensato fosse importante costruire una poetica definita ma fluida più che categorizzare la mia pratica artistica.
AL: Boris Groys, in In the Flow (2016), prosegue il discorso di Benjamin, dicendo che se le tecniche di riproduzione meccanica hanno creato degli oggetti senz’aura, la digitalizzazione genererebbe aura senza la presenza materiale dell’oggetto, trasformando i materiali di cui questi oggetti sono composti in marcatori, contenitori temporanei di un presente transitorio. I dati sopravvivono anche dopo la nostra morte, rimanendo archiviati nei server delle varie multinazionali. Quando si parla di cloud si ha l’impressione di parlare di qualcosa di leggero, immateriale, quasi invisibile. In realtà i data center sono tutt’altro che immateriali. Si pensi che il Range International Information Group Data Center, il data center più grande al mondo, situato nella città di Langfang in Cina, si estende per circa 1900 chilometri quadrati. A Las Vegas, lo Switch SuperNAP ha un’architettura che ricorda un edificio uscito da qualche videogioco e si estende per mille chilometri quadrati. I nostri dati, frammentati, sono archiviati in diversi punti del globo all’interno di queste mega strutture, con architetture che sembrano uscite da un romanzo distopico e con un complesso sistema tecnologico che le mantiene in vita. Questa nostra traccia digitale, archiviata, frammentata, sparpagliata per tutti i server del mondo, che sembra immortale, come influisce dal punto di vista ontologico sul nostro corpo? Attraverso l’arte gli uomini moderni hanno avuto la possibilità di confrontarsi con il passato e di lasciare testimonianza del proprio presente per le generazioni future sopravvivendo alla morte. Quale ruolo occupa l’opera d’arte in questo scenario?
SB+MZ: La domanda sembra distopica, ma è un tentativo per immaginare scenari futuri: sarà possibile anche lavorare in anticipo sugli archivi del futuro? Ha senso che artisti lavorino anche su ipotetiche possibilità che potrebbero realmente accadere in futuro?
AL: In qualche modo ho già risposto nella domanda precedente. Credo che la tematica degli archivi futuri sia molto importante se non centrale, nello scenario che si sta profilando. Assistiamo a uno scollamento tra il corpo e il flusso digitale creato dai dati raccolti e salvati nei server. Immaginare il proprio futuro comporta inevitabilmente tener presente questa condizione di separazione tra materiale e informazione. Questo flusso del tempo coinvolge ciò che immaginiamo nel futuro, ma anche quello che viviamo nel presente e il modo in cui guardiamo il passato. Oggi è possibile andare su Internet Archive o su DMMapp e avere a disposizione la digitalizzazione di moltissimi manoscritti medievali, anche se l’esperienza che ne facciamo è totalmente diversa dal vedere gli originali. Penso, per esempio, a come oggi potremmo rileggere Borges e la sua Biblioteca di Babele, forse ambientata nello spazio virtuale e digitale di un data center.
CR: Dal mio punto di vista il futuro si svolge nella disposizione a una salda consapevolezza del presente. Il mio lavoro ha sempre avuto un legame profondo con la concezione del tempo e del suo emergere: gli archivi del futuro si creano oggi. Quindi sì, ha senso che artisti lavorino anche su ipotetiche possibilità che potrebbero realmente accadere in futuro, se le intendiamo come occasioni di pensiero riguardo cosa valga la pena ragionare ed eventualmente costruire un lavoro, perché guardare il mondo attraverso le lenti dell’arte contemporanea può anche non voler dire per forza fare un’opera (intesa come produzione di un oggetto). Tra le possibilità io quindi immagino anche una riflessione sul tipo di artista che una persona vuole essere. Alessandro e io, attraverso Conversation Piece, il progetto “curatoriale” che portiamo avanti dal 2018, cerchiamo di intendere il fare arte in maniera meno individualistica e più orientata a creare un rapporto di scambio con gli altri artisti, un dialogo attorno alla pratica più che alla sola produzione. Il più delle volte l’esperimento riesce. In fondo la collaborazione tra artisti si trova ancora in una zona grigia, che invece vale la pena sviluppare, per cedere meno alla propria, comprensibile, vanità e sperare di raggiungere un giorno (futuro, appunto) il momento in cui la condivisione di opportunità venga vista come un traguardo.
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