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New Photography | The Cool Couple

Il quarto appuntamento con New Photography è dedicato a The Cool Couple, il duo di artisti fondato a fine 2012 da Niccolò Benetton (1986) e Simone Santilli (1987). Mauro Zanchi, Sara Benaglia: Vorremmo iniziare questa intervista soffermandoci su uno dei vostri primi lavori: Approximation to the West (2013-2016). In questa forma espansa di ricerca d’archivio, la fotografia è […]

The Cool Couple, Approximation to the West, Cossack Boots, Arta Terme #001, 2013

Il quarto appuntamento con New Photography è dedicato a The Cool Couple, il duo di artisti fondato a fine 2012 da Niccolò Benetton (1986) e Simone Santilli (1987).

Mauro Zanchi, Sara Benaglia: Vorremmo iniziare questa intervista soffermandoci su uno dei vostri primi lavori: Approximation to the West (2013-2016). In questa forma espansa di ricerca d’archivio, la fotografia è il mezzo che vi ha dato la possibilità di ritradurre delle tematiche come quelle delle crisi del concetto di immigrazione, di confine, di stabilità, di appartenenza, di invasione. Era questa una prima forma di smarrimento nella fotografia contemporanea?

The Cool Couple: Più che uno smarrimento, Approximation to the West è stato piuttosto una specie di resa dei conti con la fotografia come l’avevamo conosciuta fino a quel momento: da un lato, infatti, eravamo influenzati dal nostro percorso formativo, che combinava arte contemporanea e filosofia, ma culminava in un approccio alla fotografia radicato nella scuola italiana di paesaggio, con poche eccezioni; dall’altro, attorno a noi, la fotografia si ibridava e diventava uno strumento apparentemente democratico, vivace, si caricava di una portata politica che pareva smarrita (almeno secondo molti sostenitori della “morte della fotografia”, ritornello molto in voga a cavallo del 2010). La tensione tra questi due poli, tra ciò che avevamo appreso e la consapevolezza che dovevamo necessariamente fare i conti con la materia spuria alla base della nostra esperienza quotidiana con le immagini, ci aveva resi irrequieti. La fotografia, nella sua classica definizione, ci calzava sempre più stretta, non riusciva più a rispondere ai cambiamenti in atto. Approximation to the West, da un certo punto di vista, è un’interrogazione sulla possibilità della fotografia di svolgere ancora una funzione di documento, con tutto ciò che implica: dalla responsabilità dell’autore nei confronti dei soggetti e dei fruitori del lavoro, al rischio per un linguaggio così codificato di diventare un gergo per pochi. 

MZ / SB: In una intervista precedente avete affermato che linguaggio e forma nel vostro lavoro sono conseguenze di una ricerca sui contenuti. Distopia e Antropocene formano un nuovo essere umano? E la fotografia non può che sbordare, ponendosi il problema di una identità in questi termini?

TCC: I nostri lavori sono sempre il frutto del nostro metodo, che non ha nulla di originale, ma che ci aiuta a tenere in ordine tutte le parti di un progetto. Alla fine, un’opera d’arte è in buona parte una questione di semiosi e in un modo tutto nostro abbiamo probabilmente riassorbito i vari stadi di costruzione del senso, dal significato al significante. I contenuti inevitabilmente generano delle domande e queste riguardano anche il linguaggio che servirà per esprimerle. Non sappiamo se Antropocene e distopie possano formare un nuovo essere umano, forse no. Anche se sarebbe auspicabile che attraverso un certo tipo di riflessione sul futuro, come può essere quella a cui ci invita lo slittamento percettivo introdotto dall’Antropocene, si inizi a discutere di come migliorare gli esseri umani che siamo ora. La fotografia, in questo contesto, è presa all’interno di una vasta crisi che riguarda le rappresentazioni in toto. A essere in crisi sono le coordinate del nostro stare al mondo e dobbiamo rivedere il nostro modo di pensare ed esprimerci, perché fatichiamo ad afferrare la portata dei cambiamenti in atto. E forse, nel farlo, possiamo farci aiutare dalla distopia, perché è affascinante e può consentirci di leggere alcuni aspetti del presente, stressandoli un po’ – come faceva J.G. Ballard – ma dobbiamo essere anche pronti a lasciarla andare per porci attivamente a ragionare in una prospettiva più costruttiva, dove siano gli atteggiamenti propositivi e non cinici a fornire le linee guida per abitare il pianeta e vivere i cambiamenti che ci aspettano.
La fotografia in tutto questo deve capire cosa fare. Nella maggior parte dei casi sta fallendo, ci sta mostrando delle grandiose scene di decadenza che arrestano il nostro pensiero alla superficie stessa dell’immagine. In altri casi si è resa conto di essere in difetto e aver bisogno di porsi in un’ottica interdisciplinare. Forse la soluzione sta nell’ibridazione, in una vera e propria mutazione genetica. L’unica cosa che possiamo fare è procedere a tentoni, uscendo dalle nostre comfort zone e mettendo in discussione modalità espressive che diamo per scontate.

The Cool Couple, Approximation to the West, Untitled, Prato Carnico #001, 2014
The Cool Couple, Approximation to the West, Untitled, Arta Terme #003, 2013

MZ / SB: Anche per voi il valore artistico non ha radici nella fabbricazione materiale dell’opera, ma nel processo mentale di selezione e decisione? Che cosa diventa la fotografia nella rilettura delle proprie azioni in relazione a quelle degli altri?

TCC: Non è che la fotografia sia sempre stata un nodo in una rete di relazioni? Un nodo che, tra le altre cose, è iperattivo. Nel nostro caso, se c’è qualcosa che la fotografia ci impone è una costante riflessione sulla nostra responsabilità come produttori di immagini e figure che, per la posizione che occupano, egoisticamente prendono parte a un processo di condivisione delle proprieossessioni. Tutto questo, per certi versi, era già stato messo in discussione varie volte nella storia dell’arte, ma nel 2011, con la mostra From Here On, Joan Fontcuberta, Martin Parr, Clement Cheroux, Erik Kessels e Joachim Schmidt, hanno formulato un vero e proprio manifesto contro il bisogno di produrre nuove fotografie, un manifesto che tra le righe mette in discussione la stessa rilevanza dell’autore. Siamo tutti produttori, tutti consumatori, tutti vettori di immagini, impegnati in un’ininterrotta attività di appropriazione e rimessa in circolo.

MZ / SB: Secondo Fontcuberta, “la postfotografia fa riferimento alla fotografia che fluisce nello spazio ibrido della socialità digitale e che è conseguenza della sovrabbondanza visuale”. A noi interessa anche andare al di là di questa visione, per spingere le questioni oltre il capitalismo delle immagini, oltre il predominio del visuale. Come intendete le immagini che circolano nella vostra coscienza e ricerca?  In una società fortemente legata alle connessioni in rete, la proiezione “altra” della fotografia che cosa può innescare ulteriormente?

TCC: Da un lato siamo convinti che le immagini non siano abbastanza. Semplicemente non sono sufficienti. Hanno sempre bisogno di noi, per contagiarci, per convincerci, per farci riflettere, per terrorizzarci o farci innamorare. Il punto è come catturarci, come riuscire a prenderci per il verso giusto? La postfotografia è quella che noi abbiamo sempre chiamato immagine. Il punto, a nostro avviso, è che, se vogliamo riuscire a riprendere il controllo delle immagini, a far parlare loro la lingua che vogliamo, a indirizzarle verso i problemi che ci preme condividere, dobbiamo in qualche modo riuscire a trovare delle strategie con cui costruire un ponte tra noi e i nostri interlocutori. Probabilmente il vero problema sta a monte: siamo in grado di produrre delle narrazioni significative per questo momento storico? L’oltre della fotografia è un bacino da cui possiamo prendere spunto per adottare delle pratiche, ma il problema vero è che dobbiamo prima decolonizzare il nostro sguardo, capire a fondo dove sta il problema e poi provare a tradurlo in un enunciato.

The Cool Couple, Approximation to the West, Untitled, Paluzza #001, 2016
The Cool Couple, Approximation to the West, Drava Creek, Lienz #001, 2015

MZ / SB: Come può la meditazione spostare e ampliare il processo evolutivo della fotografia?

TCC: Di fronte all’apparente inefficacia di molte immagini, al fatto che non ci toccano letteralmente più, quando anche il dispositivo espositivo mostra il fianco all’assottigliarsi dei nostri margini di attenzione e deve competere con social network, e-mail di lavoro, notifiche e via dicendo, ci siamo chiesti se non ci fosse un modo per togliere le fotografie dalle pareti e riuscire a spingerle oltre le palpebre del visitatore, così che, anche chiudendo gli occhi, fosse impossibile non vederle.
Karma Fails (2016 – in corso), combinando la visualizzazione creativa con una tradizionale seduta di meditazione, apparentemente riesce a trasformare la mente dei partecipanti in una macchina fotografica o in un dispositivo di visualizzazione che produce delle immagini, altamente targettizzate, perché dipendono totalmente dal background di ciascuno, ma riesce così a porre una serie di interrogativi, monopolizzando l’attenzione del pubblico. Non sappiamo se sia un processo di evoluzione o un altro tentativo di alterare il DNA della fotografia. Forse la fotografia non si sta evolvendo, ma sta semplicemente cambiando, come tutti noi.

MZ / SB: Che cosa succede nella nostra azione quotidiana di produttori e consumatori di immagini?  Gli iperoggetti di Timothy Morton hanno influenzato la vostra lettura di questa relazione?

TCC: Come dicevamo sopra, oggi siamo tutti impegnati in un’incessante attività di assorbimento, appropriazione e condivisione di contenuti dove il visuale gioca un ruolo preponderante. Parte integrante delle dinamiche riconducibili al capitalismo cognitivo da una parte, questo processo è però dall’altra un atto che in molti casi è emancipatorio e produce delle rappresentazioni, che nella loro circolazione generano immedesimazione, senso di comunità, attriti, conflitti, che possono interessare la sfera personale o arrivare a riverberarsi sul piano della geopolitica internazionale (facciamo riferimento al caso del meme di Donald Trump come Pepe the Frog e al libro Can Jokes Bring Down Governements dei Metahaven). Gli iperoggetti di Timothy Morton ci hanno più che altro aiutati a comprendere la crisi della rappresentazione che stiamo attraversando, in relazione ai profondi cambiamenti che caratterizzano questo momento storico. È inevitabile che la febbrile attività di consumatori e produttori di immagini, che impegna buona parte dell’umanità, sia inscindibile dalla catastrofe in atto, ma il concetto di iperoggetto probabilmente è un po’ troppo nello specifico. Ci hanno aiutato, invece, i libri di Hito Steyerl, specialmente, qualche anno fa, The Wretched of the Screen (2012). 

MZ / SB: Iconosfera e arte: abitiamo l’immagine o l’immagine ci abita? O le due possibilità ne prevedono una terza o ulteriori altre?
TCC: Forse è un rapporto simbiontico. Sicuramente si presentano entrambe le eventualità: siamo abitati dalle immagini e le abitiamo, però si tratta di un processo fluido e in continuo divenire. La sensazione che abbiamo è che se provi a capire troppo nel dettaglio cosa accade succede un po’ come coi quanti: se li fermi per capire come sono fatti perdi tutte le informazioni sul loro movimento, mentre nel secondo caso non riesci a capire come sono fatti.

The Cool Couple, Approximation to the West, Bloody Spring to who stays bandit, 2014
The Cool Couple, Approximation to the West, Never Trust the West Again, 2014
The Cool Couple, Approximation to the West, Gesture, 2014
The Cool Couple, A Kind Of Display, Ruler #2, 2015
The Cool Couple, A Kind Of Display, Artist #2, 2015
The Cool Couple, Karma Fails, vista della performance, Museo del Novecento, Milano 2017.
The Cool Couple, Karma Fails, Meditation Rocks®, Fire, 2017

Inauguriamo una nuova rubrica di approfondimenti dedicata alla fotografia contemporanea: una serie di interviste di Mauro Zanchi e Sara Benaglia realizzate nel contesto di ricerca riferito alla Metafotografia e alla New Photography, iniziata nel 2018 – approfondita con una mostra presso BACO_BaseArteContemporaneaOdierna (Baco Arte Contemporanea) e una pubblicazione edita da Skinnerboox nell’ottobre 2019 – e tuttora in divenire con ulteriori approfondimenti nelle pagine online di questo sito.
New Photography è un progetto che in una prima fase coinvolge l’avanguardia fotografica contemporanea italiana e in seguito la Nuova Fotografia internazionale. Si pone il quesito di quale sia la natura dell’immagine alla luce di un cambio di paradigma visuale combinato con i cambiamenti sociali e tecnologici che lo hanno accompagnato. Gli algoritmi di correzione dell’immagine, il deep web, l’apertura al non visuale, la codificazione con stringhe di numeri, l’archivio, le corruzioni e gli sviluppi dell’inconscio tecnologico, l’utilizzo delle telecamere di sorveglianza e dello scanner invece di un obiettivo sono solo alcuni dei metodi e delle modalità di ricerca adottati dagli artisti coinvolti.