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New Photography | Alba Zari

Recentemente il progetto “The Y” di Alba Zari, concepito dall’artista insieme alla curatrice Francesca Seravalle, è stato presentato in diverse occasioni – in Italia e all’estero -, tra cui al MAXXI di Roma in seguito alla vincita del VI Premio Graziadei 2019.“The Y” consiste in una analisi visiva, che utilizza anche il mezzo fotografico, per […]

© Alba Zari

Recentemente il progetto “The Y” di Alba Zari, concepito dall’artista insieme alla curatrice Francesca Seravalle, è stato presentato in diverse occasioni – in Italia e all’estero -, tra cui al MAXXI di Roma in seguito alla vincita del VI Premio Graziadei 2019.
“The Y” consiste in una analisi visiva, che utilizza anche il mezzo fotografico, per ricercare il padre biologico che Alba non ha mai conosciuto.
Abbiamo intervistato l’artista per approfondire ulteriormente il suo progetto e il suo rapporto con il medium fotografico, ibridato con le più attuali ricerche nell’arte contemporanea.

Mauro Zanchi, Sara Benaglia: Come immagini il futuro della fotografia, le ulteriori possibilità e gli sviluppi per cogliere qualcosa che non è ancora stato sondato?

Alba Zari: Immagino un futuro fotografico iperrealistico, in cui la fotografia creerà nuovi luoghi e provocherà reazioni, prima che il futuro rappresentato accada. La fotocamera tenterà di anticipare e affrontare esperienze, invece che registrarne l’esistenza. Creerà immagini realistiche di luoghi che non esistono ancora. Questo aspetto iperrealistico della fotografia esiste già in diversi modi, nei rendering e nei morfing utili alla polizia scientifica per identificare sospetti, o per ritrovare persone scomparse. Immagino un futuro in cui la macchina fotografica diventerà un apparato del corpo, collegata ai nostri pensieri, un apparecchio in grado di capirci e anticipare i nostri bisogni. Penso a un futuro in cui la fotografia cambierà la nozione di spazio e tempo: il futuro, il passato e il presente si intrecciano in universi paralleli.

MZ / SB: È possibile accedere alle immagini più profonde di uno spazio condiviso, nella memoria collettiva o in una dimensione espansa, per comprendere ciò che ancora non sappiamo di noi?

AZ: Possiamo accedere alle immagini più profonde del nostro subconscio attraverso simboli e immagini astratte. Da sempre l’essere umano ha cercato di tradurre la realtà attraverso simboli, mosso dalla necessità psicologica di salvarsi mediante l’apparenza. André Bazin, nel saggio Ontologia dell’immagine fotografica (1945), introduce il concetto di “complesso della mummia”, che nasce da un bisogno di difendersi dal tempo, per contrastare la morte attraverso l’apparenza. Riproducendo il reale si aveva l’impressione di strapparlo al tempo. La funzione della statua, la necessità dei rituali, le immagini simboliche non servono a mostrare il mondo cosi come è, ma come rispondiamo noi al mondo. Penso a immagini che non rivelano il mondo e ce lo spiegano didascalicamente ma che mostrano cosa ha valore per noi nel mondo, cosa cerchiamo. Se cerchiamo la realtà nell’immagine ci sentiremo sempre travolti da una sensazione di displacement, in un luogo in cui non riusciamo a identificarci. Possiamo accedere alle immagini più profonde di noi stessi avendo consapevolezza della nostra memoria. La memoria funziona in modo opposto all’idea di fotografia, che registra precisamente gli eventi. La memoria pensa allo spazio in modo totale, dove gli eventi temporali non corrispondono, come nei sogni e nella sfera dell’inconscio. Le annotazioni della nostra memoria sono sempre incomplete. La memoria non tiene conto di date e anni. Dilata le distanze temporali, rimuove, falsifica o mette in rilievo. Penso che dobbiamo allontanarci dal concetto di registrazione precisa degli eventi tipica della fotografia. L’immagine fotografica e le immagini del nostro inconscio non coincidono.

Alba Zari, Physionogmy, process of exclusion, (frontale) 2016
Alba Zari, Physionogmy, process of exclusion, (hand) 2016

MZ / SB: Noi umani riusciamo a vedere una piccolissima percentuale di ciò che intendiamo per realtà. La materia e l’energia oscura rimangono per ora nella sfera del non visibile. La nostra vista è distinta rispetto a quella di una qualsiasi specie animale. Il nostro occhio non vede ciò che macchine a raggi x, telecamere a infrarossi e microscopi elettronici sono in grado di registrare. Ciò che qui immaginiamo essere l’oltrefotografia è effettivamente in grado di ampliare lo spettro dello sguardo sul mondo? E, se sì, come può raccordare meglio gli aspetti invisibili della realtà con la sfera interiore della nostra coscienza?

ZA: L’uomo da sempre si è messo al centro del mondo. Oggi lo fa con la sua macchina fotografica. Tutto vuole restare nella memoria ed essere ripetibile all’infinito, come le immagini tecniche e le immagini virtuali. In questo mondo simultaneo tutto accade nello stesso momento, connessioni e inconscio collettivo. Lo sguardo fotografico può essere la nostra seconda coscienza, per comprendere la nuova concezione del mondo, luogo dove le nozioni di realtà e di immagini vengono invertite. Riflettendo sul concetto di oltrefotografia mi viene in mente un libro che ho letto qualche anno fa di Carl Gustav Jung sulla sincronicità: “Utilizzo quindi il concetto generale di sincronicità nel senso specifico di corrispondenza tra due o più eventi senza una relazione causale, e che hanno lo stesso contenuto significativo o un senso simile; e faccio questo attraverso un’opposizione alla nozione di sincronismo che indica soltanto il semplice fatto della simultaneità di due fenomeni”[1]. L’oltrefotografia dovrebbe capire (così come per Jung negli studi sulla sincronicità) in che modo il mondo inconscio si connette con quello conscio. Riflettere sul nostro passato, personale e collettivo, le connessioni con il presente della coscienza. Analizzare in che modo la nostra vita interiore, la nostra soggettività viene alla superficie incontrando altre vite, creando relazioni.

MZ / SB: A proposito di The Y – Research of Biological Father (2017), in che rapporto stanno la tua biografia e il mezzo fotografico? Quali relazioni discorsive intercorrono tra un’analisi genetica e lo scatto fotografico?

AZ: Ho utilizzato in vari modi il mezzo fotografico per risalire all’identità di mio padre. La fotografia ha messo in discussione la mia memoria e la mia storia familiare nel momento in cui cercavo una verità. Ho dovuto guardare al passato in modo diverso. L’uomo presente nei miei album di famiglia non era più il mio padre biologico; ho dipinto su di lui un’ombra, una silhouette in modo da reinterpretare i miei ricordi. Non riuscivo più ad avere un legame con la mia memoria. Ho riguardato le immagini d’archivio di famiglia e le VHS, perché hanno assunto un diverso significato. L’uomo accanto a me il giorno del mio compleanno non era più mio padre, non sapevo come sentirmi e avevo bisogno di scoprire la verità. Le fotografie sono diventate materiale in continuo cambiamento, allontanandosi dal concetto di verità.

MZ / SB: Hai utilizzato la linea genetica di X e realizzato anche una analisi fisionomica delle tue caratteristiche per ritrovare “The Y”. Questo approccio analitico e scientifico ha come risultato una dimensione emotiva. Come interagiscono (o meno) fra loro queste due dimensioni?

AZ: Ho voluto tenere una distanza emotiva dal lavoro già carico di dolore, per evitare la retorica del sentimentalismo e analizzare le informazioni che avevo sotto tutti i punti di vista e scoprire la verità sulla Y mancante. Solo scoprendo la verità potevo accettare questa assenza. Una nuova verità nel mio volto. Usando un approccio scientifico, potevo organizzare anche i miei sentimenti, dalla sensazione di fallimento nel non trovare il mio padre biologico alla speranza che sentivo nell’avvicinarmi a lui nelle piccole scoperte positive. Questa ricerca di obiettività e di oggettivazione mi ha portato quasi a sentire meno dolore, è stata quasi un percorso di anestetizzazione.

Alba Zari, Selfportrait, Bangkok, 2017
Alba Zari, Gary, legal father, 2017

MZ / SB: Dopo aver realizzato un programma di esclusione delle tue caratteristiche che si distinguono dai tratti materni, hai utilizzato il programma “Make a Human” per ottenere un avatar in 3D di quello che potrebbe essere il tuo padre biologico, the Y, oggi. Un lungo processo per conoscere la verità sulla tua identità attraverso prove scientifiche porta la definizione stessa di persona a intersecarsi e a essere scritta attraverso variabili tecnologiche. La ricerca di un altro in che modo cambia chi sei tu?

AZ: Dal momento in cui ho scoperto che il luogo in cui sono nata e cresciuta non mi apparteneva più è cambiata la mia idea di identità. Non sono più italo-thailandese ma probabilmente la mia altra metà, la Y paterna, è iraniana o irachena. Dopo il processo di esclusione fisionomica dei lineamenti della famiglia materna ho capito di avere il volto di mio padre, un padre che non ho mai visto nemmeno in fotografia. Ho cercato di costruire un avatar per avere una sua immagine; ho usato un metodo analitico e scientifico per ricostruirlo, ma è sempre un prodotto di immaginazione, di proiezione e percezione della realtà. Non ho una sua immagine e non so se il mio avatar corrisponde alla realtà o se è una sua interpretazione. È un lavoro sull’identità ed è una riflessione importante, non solo per la mia storia personale. Penso che tutti noi, in diversi modi, ci domandiamo dove apparteniamo, e abbiamo bisogno di capire le nostre origini e radici. Il progetto finisce con un autoritratto a occhi chiusi: dopo il percorso di The Y ho accettato questa assenza.

MZ / SB: La fotografia è una prova scientifica? Quali sono le estensioni o gli alleati della stessa più prossimi alla verità?

AZ: Penso che l’oggettività delle immagini tecniche sia un’illusione. Nel passato la necessità della fotografia era quella di controllare e classificare persone e oggetti. Oggi viene richiesto di anticipare le cose. Siamo ancora legati a un concetto di fotografia come prova della realtà, una fotografia legata alla scienza. Al contempo non siamo critici sulle immagini tecniche. Le fotografie sono codici e simboli decifrati, generate da un processo non dissimile da quello del pittore che decifra un’immagine e la rappresenta. Spesso ci troviamo davanti un’ambiguità di linguaggio e in uno stato di incomprensione del reale. La fotografia, così come le mappe e i planetari per esempio, è una illusione del mondo e serve per esercitare la nostra coscienza. Il compito di coloro che ci forniscono l’immagine del mondo consiste nel comporre per noi, con molte realtà, un tutto menzognero.

Avatar of Massad, from program Make a Human, 2017 – The Y © Alba Zari
Render © Alba Zari
Avatar © Alba Zari
Replacing Biological Father, Family Archive, 2016. © Alba Zari
Replacing Biological Father, Family Archive, 2016 © Alba Zari

[1] Carl Gustav Jung, Sincronicità, Bollati Boringhieri, Torino 1980.

Inauguriamo una nuova rubrica di approfondimenti dedicata alla fotografia contemporanea: una serie di interviste di Mauro Zanchi e Sara Benaglia realizzate nel contesto di ricerca riferito alla Metafotografia e alla New Photography, iniziata nel 2018 – approfondita con una mostra presso BACO_BaseArteContemporaneaOdierna (Baco Arte Contemporanea) e una pubblicazione edita da Skinnerboox nell’ottobre 2019 – e tuttora in divenire con ulteriori approfondimenti nelle pagine online di questo sito.
New Photography è un progetto che in una prima fase coinvolge l’avanguardia fotografica contemporanea italiana e in seguito la Nuova Fotografia internazionale. Si pone il quesito di quale sia la natura dell’immagine alla luce di un cambio di paradigma visuale combinato con i cambiamenti sociali e tecnologici che lo hanno accompagnato. Gli algoritmi di correzione dell’immagine, il deep web, l’apertura al non visuale, la codificazione con stringhe di numeri, l’archivio, le corruzioni e gli sviluppi dell’inconscio tecnologico, l’utilizzo delle telecamere di sorveglianza e dello scanner invece di un obiettivo sono solo alcuni dei metodi e delle modalità di ricerca adottati dagli artisti coinvolti.