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Ramdom a Gagliano del Capo, Lecce: fare e vivere di cultura e arte

English text below — In occasione dell’avvio della nuova produzione dell’artista Emilio Vavarella – progetto targato Ramdom in collaborazione con il MAMbo di Bologna, The Film Study Center di Harvard (Cambridge, USA) e Arthub Asia (Shanghai, China) – abbiamo approfondito le linee guida dell’associazione di produzione culturale e artistica fondata nel 2011, con sede a […]

Esterno della stazione di Gagliano del Capo, foto di Pierpaolo Luca

English text below

In occasione dell’avvio della nuova produzione dell’artista Emilio Vavarella – progetto targato Ramdom in collaborazione con il MAMbo di Bologna, The Film Study Center di Harvard (Cambridge, USA) e Arthub Asia (Shanghai, China) – abbiamo approfondito le linee guida dell’associazione di produzione culturale e artistica fondata nel 2011, con sede a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce. Ramdom si è distinta, nel panorama artistico degli ultimi anni, per la promozione di progetti d’arte contemporanea con respiro internazionale in dialogo con il territorio del Salento, come Indagine sulle Terre Estreme e Default, attraverso mostre, installazioni d’arte pubblica, residenze, workshop ed incontri.
Una di queste iniziative è proprio, rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), il progetto di Emilio Vavarella vincitore della VI edizione di Italian Council (2019). Sempre Vavarella è anche l’autore di un altro progetto che prenderà avvio tra pochi mesi, MNEMOSCOPIO – curato e prodotto da Ramdom – vincitore di SIAE “Per Chi Crea – Nuove Opere” (2019).

Nell’intervista che segue, abbiamo chiesto a Paolo Mele, Direttore e fondatore di Ramdom e a Claudio Zecchi, curatore e sviluppo network, di raccontarci come è nata l’associazione, quali progetti e  programmi hanno fortificato le collaborazioni con il territorio del Salento e le specificità di una ‘particolare’ base operativa situata al primo piano della Stazione Ferrovia Gagliano – Leuca: “Lastation è un avamposto e un osservatorio che negli anni è diventato un luogo profondamente iconico non tanto dal punto di vista architettonico quanto dal punto di vista simbolico”. Gli abbiamo chiesto di raccontarci com’è nato il progetto vincitore della VI edizione di Italian Council (2019) – rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me), titolo che fa riferimento alla prima riga di testo risultante dalla genotipizzazione del DNA dell’artista stesso  – e spiegarci l’attinenza Mnemoscopio, con il territorio: “Questo lavoro ha a che fare con un tema che emerge molto spesso dalle produzioni di Ramdom: il tema della memoria e più in particolare della memoria collettiva e della sua stratificazione attraverso la realizzazione di una cartografia di ricordi legati all’idea di casa partendo da coloro che sono partiti da Gagliano del Capo per poi farvi ritorno.”

Elena Bordignon: Produzione culturale e artistica: questa è la mission dell’associazione Ramdom, con sede a Gagliano del Capo, in provincia di Lecce. Mi raccontate come nasce Ramdom e le ragioni che stanno dietro alla sua apertura nel 2011.

Paolo Mele: In quegli anni la Puglia stava vivendo una stagione di rinascita politica e culturale e l’aria del “We Can” obamiano aveva contagiato anche il tacco dello Stivale. Fare e vivere di cultura e arte, improvvisamente, non sembrava più un’eresia, nemmeno al sud e con l’amico e artista Luca Coclite decidemmo di chiedere alla Regione Puglia il sostegno per avviare un progetto votato a supportare la mobilità e la formazione degli artisti e degli operatori del settore e a realizzare, quello che oggi viene più tecnicamente definito, “audience engagement”. A Lecce, come nel resto del Salento, gli spazi e le piattaforme dedicate all’arte contemporanea nel 2011 si contavano sul palmo di una mano e ci ponemmo come obiettivo quello di avviare una discussione profonda sul senso del lavoro artistico in contesti poco abituati a parlare e lavorare sull’arte contemporanea. Più che allinearci a modelli esistenti, in un contesto vergine e fertile come quello pugliese, ci interessava lavorare sui punti di crisi e rottura, sui Default, ma allo stesso tempo imbastire una sostenibilità culturale, sociale ed economica di un progetto legato all’arte contemporanea nel sud d’Italia, nel centro nel mediterraneo.

EB: Una delle caratteristiche principali di Ramdom è la necessità di fare ‘sistema’ con il territorio del Salento, attraverso mostre, installazioni di arte pubblica, residenze ecc. Mi spiegate come avete reso possibile una collaborazione con il territorio, aspirando, però, a una visibilità internazionale? Cosa lega il locale con una visione sopranazionale?

PM: Il nostro lavoro nasce e si sviluppa, sin dalle sue origini, come un progetto profondamente radicato al territorio e al suo studio. Il progetto Default, per esempio, nasce in primis come una sorta di autodenuncia: nel 2011 il Salento da cartolina cominciava a farsi strada, i flussi turistici aumentavano e, per certi versi, anche l’orgoglio di una parte di territorio che, senza particolari meriti, cominciava a ostentare una sorta di arroganza culturale. Per noi, che venivamo da esperienze professionali nazionali e internazionali, la provincialità, nello specifico suoi temi del contemporaneo, era quasi sconcertante e decidemmo di provare a rimboccarci le maniche e colmare un evidente gap attivando collaborazioni con organizzazioni e professionisti provenienti da ogni parte del mondo per cercare di accendere un po’ di curiosità e favorire la partecipazione, ma anche e soprattutto per incentivare la formazione di artisti, curatori e operatori culturali del territorio. Da lì, il passo verso la produzione è stato relativamente breve e la collaborazione con artisti di grande valore come Carboni, Andreco, Casas, ha contribuito a mettere i primi tasselli per la realizzazione di una collezione che ormai conta più di 50 opere prodotte.

CZ: Non credo si tratti di due piani tra loro in antitesi; li immagino piuttosto complementari, in costante dialogo tra di loro e capaci di alimentarsi l’uno con l’altro. Il piano internazionale è un’estensione del territorio, delle risorse e delle possibilità che questo ci mette a disposizione. E credo che questa impostazione sia piuttosto naturale se pensiamo a Ramdom come una piattaforma capace di muoversi nello spazio in maniera piuttosto flessibile. Prendi ad esempio un progetto come Default: si tratta di una masterclass internazionale biennale nata nel 2011 e giunta nel 2019 alla sua quinta edizione. Le ultime tre edizioni (2015-2017-2019) si sono concentrate sul tema delle Terre Estreme, cuore pulsante della ricerca di Ramdom, da punti di vista differenti. Così l’interrogativo sulle Terre Estreme ha a che fare non solo con l’aspetto geografico ma anche con il punto di osservazione – estremo rispetto a cosa? – e questo ci permette di operare un ribaltamento della prospettiva. Così la punta più estrema a sud-est d’Italia diventa la porta d’accesso, il Capo, oppure, ancora più interessante, il centro del Mediterraneo con tutto quello che comporta oggi osservare il Mediterraneo. Quest’anno, ad esempio, abbiamo fatto un esperimento e tentato di mettere in relazione tre estremi differenti: quello del territorio in cui operiamo con l’estremo più occidentale del Portogallo (CHAIA – Centro de História da Arte e Investigação Artística da Universidade de Évora – è stato uno dei nostri partner culturali) e infine un estremo concettuale, che attiene alla sfera concettuale. Quello che voglio dire è che dipende da dove posizioni la lente. Se ti allontani o se ti avvicini. Cambia la scala di riferimento ma non la portata del progetto e della riflessione che il progetto porta con sé.
Stessa cosa, sebbene attraverso tematiche e per ragioni differenti, vale per i due progetti di Emilio Vavarella, Mnemoscopio (Mnemoscope) e rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me) che stiamo curando e producendo.

EB: La sede di Ramdom si trova al primo piano della Stazione Ferrovia Gagliano – Leuca. Mi raccontate i limiti e le potenzialità della vostra ‘particolare’ base operativa?

CZ: Lastation è un avamposto e un osservatorio che negli anni è diventato un luogo profondamente iconico non tanto dal punto di vista architettonico quanto dal punto di vista simbolico. L’ultima stazione a sud-est d’Italia ci connota in maniera molto precisa rispetto al lavoro che facciamo sia dal punto di vista della ricerca che della metodologia.

Chiaramente non è l’unico posto in cui operiamo: molti dei nostri progetti, infatti, si attivano nello spazio pubblico come ad esempio il radio documentario Scarcagnuli realizzato da Riccardo Giacconi e Carolina Valencia Caicedo che abbiamo presentato al Bar 2000 in forma di cinema senza immagini; OLGA di Lia Cecchin che abbiamo presentato al Central Bar; piuttosto che Intervallo di Jacopo Rinaldi nella vagone di un treno o la Luminaria di Carlos Casas per molto tempo installata nella piazza antistante alla stazione stessa. Lastation è però un luogo che ci permette di sviluppare una programmazione costante con formati differenti durante l’intero corso dell’anno: mostre, programma pubblico, performance, proiezioni, residenze, workshop, laboratori con i bambini infatti si alternano e alimentano un’offerta culturale ampia. Questo ci permette di essere presenti e tenere un legame molto saldo con il territorio. Oltre ad essere il luogo in cui ospitiamo artisti, curatori, ricercatori o semplici appassionati nazionali e internazionali per passare un periodo in residenza, Lastation è anche la base della nostra Mediateca (Osservatorio sulle Terre Estreme) dove è possibile venire e fare ricerca a partire dalle produzioni che abbiamo realizzato dal 2011 a oggi o leggere testi specifici. Non credo esista un vero e proprio limite. O meglio, dal mio punto di vista, credo che il suo limite o quello che potrebbe essere percepito come un limite – la sua profonda iconicità e integrazione con il territorio – è anche metodologicamente il suo punto di forza perché ci permette ancora grossi margini di sperimentazione.

PM: Dal 2014 il nostro lavoro si è “estremizzato”: avevamo deciso di lasciare la riflessione sulla città e spostarci nel finis terrae. Nel 2013 la Regione Puglia lanciò un bando chiamato Mettici le Mani, nato per attivare culturalmente degli spazi dismessi e in questa lista c’era il primo piano dell’ultima stazione d’Italia a sud est. Pensammo da subito che non ci fosse miglior location per partire con una progettazione artistica e culturale in un posto così carico di valore simbolico, seppur ridotto a quasi un rudere dato lo stato di abbandono in cui riversava da trenta anni. Lo spazio è piccolo e su un primo piano, quindi presenta diversi limiti sia per le attività espositive e laboratoriali, sia da un punto di vista dell’accessibilità. Tuttavia ha un fascino unico sia per noi che ci operiamo che per tutti gli artisti e ospiti che vengono a lavorare con noi. Una magia che, però temiamo che stia per esaurirsi: Regione e Ferrovie non sembrano intenzionati a rinnovarci la concessione, preferendo destinare l’immobile ad altre ignote funzioni. Vedremo cosa accadrà: se si chiudono spazi cha hanno un ruolo socio-culturale enorme con leggerezza, per far posto a non si sa cosa, è inutile meravigliarsi se il sud si spopola e la migrazione giovanile sia in costante aumento.

EB: La vivacità di Ramdom è anche motivata dalla sua capacità di allargare le collaborazioni, ma non solo anche quella di proporre progetti credibili e coinvolgenti. Mi raccontate cosa avete in programma per il 2020? Nello specifico, vorrei che mi raccontiate, a grandi linee, il progetto vincitore della VI edizione di Italian Council (2019).

CZ / PM: Questo progetto è un ottimo esempio di quello si diceva precedentemente rispetto a come posizionare la lente. Si tratta infatti di un progetto che mette in dialogo il territorio, le sue risorse e le sue potenzialità con una scala più ampia e il contesto internazionale. Quando parliamo di scala non intendiamo solo la scala geografica ma anche la portata delle riflessioni che possono essere generate e alimentate.rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me) è il titolo complesso ma estremamente evocativo del lavoro di Emilio Vavarella che fa riferimento alla prima riga risultante dal processo di genotipizzazione del suo DNA. Il progetto, consisterà di tre elementi: un telaio con una macchina Jacquard, un tessuto che restituirà visivamente il codice genetico dell’artista processato attraverso un software e, infine, un video di documentazione del processo di lavorazione con degli innesti visivi e sonori astratti. Il progetto verrà interamente prodotto a Gagliano del Capo presso la Tessitura Giaquinto per quanto riguarda la parte tessile mentre negli Stati Uniti verrà sviluppata la parte software. L’opera andrà infine a far parte della collezione permanente del MAMbo di Bologna. La cosa interessante è che la tessitura Giaquinto ci metterà a disposizione una delle pochissime macchine Jacquard di fine Ottocento ancora disponibili in Italia e che sia una delle poche tessiture in Italia ad avere a disposizione questo tipo di macchina: quando avevamo costruito l’impianto del progetto, ovviamente, non lo sapevamo e quello che poteva trasformarsi in un elemento di crisi per il progetto, si è trasformato non solo in un punto di forza, ma nella testimonianza dell’importanza che la dimensione locale, per quanto estrema, abbia in progetti come i nostri.
Alla parte di produzione seguirà poi una parte di ricerca e approfondimento teorico che svilupperemo tra Shanghai in collaborazione con Arthub Asia e il Film Study Center di Harvard. Toccheremo temi di grande attualità: oltre ad un approfondimento della tradizione tessile locale e più in generale del sud Italia, il punto di partenza dell’opera sarà la sfera più intima e personale dell’artista stesso, ovvero il suo DNA e il coinvolgimento diretto della mamma nella tessitura dell’opera. Attorno a questo ruoterà una narrazione più ampia che ci permetterà di approfondire temi di portata generale come ad esempio la digitalizzazione della vita, il rapporto tra macchina e lavoro o il tema del lavoro al femminile che fa da collante a tutto il lavoro se si pensa che la macchina Jacquard, uno dei primi “computer” della storia, veniva operata dalle donne.

EB: Sempre quest’anno avete vinto, con Mnemoscopio di Emilio Vavarella, il premio di SIAE “Per Chi Crea – Nuove Opere” (2019). Mi introducete questo progetto?

CZ / PM: Questo lavoro ha a che fare con un tema che emerge molto spesso dalle produzioni di Ramdom: il tema della memoria e più in particolare della memoria collettiva e della sua stratificazione attraverso la realizzazione di una cartografia di ricordi legati all’idea di casa partendo da coloro che sono partiti da Gagliano del Capo per poi farvi ritorno.
Lo stesso Vavarella ha già affrontato il tema in altri lavori: in MNEMOGRAFO ha lavorato ad esempio sul riaffiorare delle memorie in Rete; in MEMORYSCAPES sul potenziale cartografico di memorie collettive di italiani emigrati a New York; in The Sicilian Family sul peso delle memorie di famiglia; e in MNEMODRONE sul ruolo che la memoria ha nello sviluppo di droni e intelligenze artificiali.

Mnemoscopio (Menemoscope) è un progetto che per certi versi chiude un po’ il cerchio se si pensa che la stazione dei treni di Gagliano-Leuca, anche sede di Ramdom, è il luogo da cui le persone partivano per cercare di raggiungere condizioni di vita migliori.
Si tratta di un’opera pubblica intimamente legata al territorio e alle sue storie. Un oggetto – ad oggi siamo in piena fase di ricerca hardware e la definizione estetica del progetto è in progress – che contiene un sistema di visualizzazione ideato dall’artista: un apparato che fonde realtà virtuale, site-specificity e relazionalità. Il risultato sarà la produzione di un nuovo spazio cartografico in cui si intrecciano luoghi, memorie, e dimore presenti e passate.
Un lavoro che ci permette non solo di accrescere la nostra presenza sul territorio, ma anche di creare un legame tra l’opera e la collettività locale, visto che MNEMOSCOPIO non potrebbe essere realizzato se le persone del posto non si mettessero a completa disposizione dell’artista raccontando e condividendo le loro storie personali. Si tratta di un lavoro anche emotivamente coinvolgente perché ti mette a diretto contatto con le persone, con i loro ricordi, e con la loro voglia di condividerli.

Emilio Vavarella, foto © Musacchio&Ianniello, Fondazione MAXXI
Lastation, foto di Pierpaolo Luca

Interview with Paolo Mele, Ramdom Director and Founder and Claudio Zecchi, Ramdom Curator and Networking Development

Elena Bordignon: Cultural and artistic production: this is the mission of Ramdom association, based in Gagliano del Capo, in the province of Lecce. I would like you to tell me how Ramdom was born and the reasons behind its opening in 2011.

PM: In those years Apulia Region was experiencing a period of political and cultural rebirth following the Obama “We Can” spirit and influence. To make and live of culture and art, suddenly, no longer seemed a heresy, not even in the Southern Italy so with my friend and artist Luca Coclite we decided to ask the Apulia Region to help us on starting a project aimed to support the mobility and training of artists and operators in the sector and to support what is now more technically called “audience engagement”. In Lecce, as in the other parts of Salento, the spaces and platforms dedicated to contemporary art in 2011 were very few and our goal was to start deep discussion on the meaning of artistic work in contexts not used to talk and work on contemporary art. Rather than aligning ourselves with existing models, in a virgin and fertile context like that of Apulia, we were interested in working on points of crisis and rupture, on Defaults, but at the same time in establishing a cultural, social and economic sustainability of a project linked to contemporary art in the south of Italy, in the center of the Mediterranean.

EB: One of Ramdom’s main characteristics is the need to create a ‘system’ within the territory of Salento, through exhibitions, public art installations, residences, etc.. Can you explain how you made possible a collaboration with the territory, aspiring, however, to reach an international visibility? What links the local with a supranational vision?

PM: Our work was born and has been developing, since its origins, as a project deeply rooted in the territory and the investigation on it. Default project, for example, was born primarily as a kind of self-reporting: in 2011 the image of Salento as a postcard began to build its way, the flow of tourists were increasing and, in some ways, even the pride of a part of the territory that, without particular merit, began to flaunt a kind of cultural arrogance. For us, who were coming from national and international professional experiences, the provinciality, specifically its themes of the contemporary, was almost disconcerting and we decided to try to roll up our sleeves and fill an obvious gap by activating collaborations with organizations and professionals from all over the world to try to ignite a little ‘of curiosity and encourage participation, but also and above all to encourage the training of artists, curators and cultural operators of the territory. From there, the step towards production was relatively short and the collaboration with artists of great value such as Carboni, Andreco, Casas, has helped to put the first pieces for the creation of a collection that now has more than 50 works produced.

CZ: I don’t think the mentioned ones can be considered as concepts in antithesis; I imagine them as rather complementary, in constant dialogue with each other and able to feed each other. The international level is an extension of the territory, of the resources and of the possibilities it makes available to us. And I think this approach is quite natural if we think of Ramdom as a platform capable of moving itself in the space and in a rather flexible way. Take, for example, a project like Default: it is a two-year international masterclass born in 2011 and now in 2019 in its fifth edition. The last three editions (2015-2017-2019) have focused on the theme of the Extreme Lands, beating heart of Ramdom’s research, from different points of view. So the question about the Extreme Lands has to do not only with the geographical aspect but also with the point of view – the concept of the “extreme” compared to what? – and this allows us to reverse the perspective. So the most extreme point to the south-east of Italy becomes the gateway, the Cape, or, even more interesting, the center of the Mediterranean with everything that involves today to observe the Mediterranean. This year, for example, we have done an experiment and tried to relate three different extremes: the one of the territory in which we operate with the westernmost extremity of Portugal (CHAIA – Centro de História da Arte e Investigação Artística da Universidade de Évora – was one of our cultural partners) and then a conceptual extremity, which concerns the conceptual sphere.
What I mean is that it depends on where you place the lens. If you move away or if you get closer. The scale of reference changes but not the goal of the project and the reflection that the project carries with it.
The same thing, although through different themes and for different reasons, applies to the two projects by Emilio Vavarella, Mnemoscope (Mnemoscope) and rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me) that we are curating and producing.

EB: Ramdom “office” is located on the first floor of the Gagliano – Leuca railway station. Can you tell me about the limits and potential of your ‘particular’ operational base?

CZ: Lastation is an outpost and an observatory and over the years has become a deeply iconic place not so much from an architectural point of view as from a symbolic one. The last station in south-east Italy is a very precise feature of our work, both from the point of view of research and methodology. Clearly it is not the only place where we operate: many of our projects, in fact, are activated in public space such as the documentary radio Scarcagnuli by Riccardo Giacconi and Carolina Valencia Caicedo that we presented at Bar 2000 in the form of a cinema without images; OLGA by Lia Cecchin that we presented at Central Bar; rather than Intervallo by Jacopo Rinaldi in a train wagon or Luminaria by Carlos Casas that has been installed for a long time in the square in front of the station itself.
Lastation is, however, a place that allows us to develop a program with different formats throughout the year: exhibitions, public programs, performances, screenings, residencies, workshops, workshops with children: all these proposals alternate and feed a wide cultural offer. This allows us to be present with a very strong bond with the territory.
In addition to being the place where we host artists, curators, researchers or just national and international enthusiasts to spend a period in residence, Lastation is also the basis of our Media Library (Observatory on the Extreme Lands) where you can come and do research from the productions that we made from 2011 to today or read specific texts.
I don’t think there is a real limit. Or rather, from my point of view, I believe that its limit or what could be perceived as a limit – its deep iconicity and integration with the territory – is also methodologically its strength because it still allows us large margins of experimentation.

PM: Since 2014 our work has been “extreme”: we decided to leave the reflection on the city and move to the finis terrae. In 2013 Apulia Region launched a call for proposals called Mettici le Mani, created to culturally activate disused spaces and in this list there was the first floor of the last station of Italy in the south-east. We immediately thought that there was no better location to start with an artistic and cultural planning in a place so full of symbolic value, albeit reduced to almost a ruin given the state of abandonment in which it poured for thirty years. The space is small and on the first floor, so it has different limits both for the exhibition and workshop activities, and from the point of view of accessibility. However, it has a unique charm both for us who work there and for all the artists and guests who come to work with us. A “magic” that, however, we fear is about to run out: Apulia Region and Ferrovie dello Stato do not seem intent on renewing the concession, preferring to allocate the property to other unknown functions. We will see what will happen: if you close spaces that have a huge socio-cultural role with this kind of “lightness”, to make room for you do not know what, it is useless to wonder why the south is depopulating and the migration of young people is constantly increasing.

EB: Ramdom’s liveliness is also motivated by its ability to broaden its collaborations, but not only to propose credible and engaging projects. Can you tell me what you have in mind for 2020? Specifically, I would like you to tell me, in general terms, about the project that won the sixth edition of Italian Council (2019).

CZ/PM: This project is an excellent example of what Claudio already wrote about how to position the lens. It is in fact a project that brings the territory, its resources and its potential into dialogue with a wider scale and the international context. When we speak of scale we mean not only the geographical one but also the reflections that can be generated and fed.

rs548049170_1_69869_TT (The Other Shapes of Me) is the complex but extremely evocative title of Emilio Vavarella’s work, which refers to the first line resulting from the process of genotyping his DNA. The project will consist of three elements: a loom with a Jacquard machine, a fabric that will visually return the genetic code of the artist processed through a software and, finally, a video documentation of the process of working with visual grafts and abstract sound. The project will be entirely produced in Gagliano del Capo at Tessitura Giaquinto -for the textile part -, while the software part will be developed in the USA. The work will finally be acquired in the permanent collection of MAMbo – Museum of Modern Art in Bologna.
The interesting thing is that Tessitura Giaquinto will provide us with one of the very few Jacquard loom of the late nineteenth century still available in Italy.
The production part will be followed by a part of research and theoretical study that we will develop between Shanghai in collaboration with Arthub Asia and the Harvard Film Study Center.
We will touch on topics of great topicality: in addition to a deepening of the local textile tradition and more generally of Southern Italy, the starting point of the work will be the most intimate and personal sphere of the artist himself f, or rather his DNA and the direct involvement of the mother in the weaving of the work. Around this will rotate a broader narrative that will allow us to explore topics of general scope such as the digitization of life, the relationship between machine and work or the theme of female work that acts as a glue to all the work if you think that the Jacquard loom, one of the first “computers” of history, was operated by women.

EB: Also this year you won, with Emilio Vavarella’s Mnemoscope, the SIAE prize “Per Chi Crea – Nuove Opere” (2019). Can you introduce me to this project?

CZ/PM: This work has to do with a theme that very often emerges from Ramdom’s productions: the theme of memory and more specifically of collective memory and its stratification through the creation of a cartography of memories linked to the idea of home, starting with those who left from Gagliano del Capo and then returning there. Vavarella himself has already addressed the issue in other works: in MNEMOGRAFO he worked, for example, on the re-emergence of memories on the Web; in MEMORYSCAPES on the cartographic potential of collective memories of Italians who emigrated to New York; in The Sicilian Family on the weight of family memories; and in MNEMODRONE on the role that memory plays in the development of drones and artificial intelligence.
Mnemoscope (Menemoscope) is a project that in some ways closes the circle a bit if you consider that the train station of Gagliano-Leuca, also home to Ramdom, is the place from which people left to try to achieve better living conditions.
It is a public work intimately linked to the territory and its stories. An object – today we are in the middle of a hardware research phase and the aesthetic definition of the project is in progress – that contains a visualization system conceived by the artist: an apparatus that blends virtual reality, site-specificity and relationality. The result will be the production of a new cartographic space in which places, memories and present and past dwellings intertwine.
A work that allows us not only to increase our presence on the territory, but also to create a link between the work and the local community, since MNEMOSCOPE could not be achieved if the local people did not put themselves at the complete disposal of the artist by telling and sharing their personal stories. It is also an emotionally involving work because it puts you in direct contact with people, with their memories, and with their desire to share them.

Default19, artisti partecipanti durante un momento della masterclass in residence. Foto di Eleonora Castagna