Intervista di Antongiulio Vergine —
Dal 11 maggio 2019 al 1 settembre 2019, il MAXXI di Roma ospita la collettiva Terre in movimento, alla quale partecipano i fotografi Olivo Barbieri, Paola De Pietri e Petra Noordkamp (a cura di Pippo Ciorra, Carlo Birrozzi in collaborazione con Cristiana Colli).
Sala Gian Ferrari. Al centro del progetto fotografico stanno i luoghi marchigiani colpiti dal terremoto del 2016, visti attraverso l’obiettivo – differente, ma ugualmente penetrante – dei tre artisti. I loro lavori non solo catturano il dramma delle tracce lasciate dal sisma, ma mettono in evidenza il rapporto profondo e indistruttibile che lega gli abitanti al loro territorio: scatti che evocano alla mente i concetti di ricordo e memoria, e che ci fanno riflettere, soprattutto, sull’importanza dei legami che instauriamo con i nostri luoghi. Per l’occasione, abbiamo incontrato la fotografa Paola De Pietri, coinvolta nella collettiva con il progetto Improvvisamente.
Antongiulio Vergine: Come e quando è nato il progetto Terre in movimento?
Paola De Pietri: Terre in movimento è una committenza artistica nata dalla collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio delle Marche, la Fondazione Maxxi di Roma e l’associazione Demanio Marittimo. Km-278 di Jesi (Ancona), nella quale sono stati coinvolti, oltre a me, Petra Noordkamp e Olivo Barbieri. Ognuno di noi ha elaborato con il proprio linguaggio un intervento sulla metamorfosi del paesaggio marchigiano.
Voglio precisare che il titolo Terre in movimento è quello generale del progetto; nello specifico il mio ha per titolo Improvvisamente.
A. V.: Era la prima volta che visitava i luoghi colpiti dal terremoto? Che sensazione ha provato entrandovi a contatto?
P. D. P.: Non ero mai stata nei luoghi del terremoto, e dai primi sopralluoghi risalenti al settembre 2017 (circa un anno dopo gli eventi più tragici e non nei momenti di estrema emergenza) mi sono resa conto dell’ampiezza dell’area colpita. Ho lavorato nei mesi seguenti sia nella vallata del Tronto che del Chienti e nelle aree limitrofe. Qui, oltre ai lutti e alla grande distruzione delle case e delle cose, sono state ferite le comunità e le relazioni che ne fanno parte.
A. V.: La sua ricerca si è da sempre focalizzata sul rapporto tra uomo e natura – penso alla serie Dittici e Istanbul New Stories. In qualche modo, anche in Terre in movimento è possibile notare tracce di questo rapporto. È solo una mia impressione?
P. D. P.: Questo rapporto è presente spesso nei miei lavori, anche se non in modo esplicito. La natura alla quale faccio riferimento spesso è quella antropizzata, non selvaggia o incontaminata, che non c’è più. In questo caso la natura esprime tutta la sua incontrollata forza e violenza alla quale non abbiamo potuto o voluto porre rimedio.
A. V.: Ha sperimentato delle nuove soluzioni in occasione di questo ciclo di lavori?
P. D. P.: Vorrei dire due parole innanzitutto sul progetto in generale. La serie di trentaquattro fotografie comprende dodici ritratti e ventidue paesaggi minimi, e con questo intendo anche le riprese ravvicinate degli oggetti. Ho fotografato le case spaccate, gli oggetti ritrovati, oggi censiti e catalogati nei depositi, e i cantieri per le nuove abitazioni temporanee. La polvere delle case distrutte e quella delle nuove, in costruzione, ricopre ogni cosa. Le fotografie dei paesaggi appaiono, per questo, “molto bianche”. Per i ritratti ho immaginato l’opposto: le persone sono state fotografate singolarmente, di giorno con il flash, isolate per un istante da tutto, nelle aree comuni dei nuovi insediamenti temporanei.
A. V.: Cambiando un po’ argomento, com’è nata la sua passione per la fotografia?
P. D. P.: L’interesse per il mezzo fotografico risale ai miei vent’anni. Dopo un viaggio in Scozia, intrapreso con un amico, mi sono ritrovata a vedere le foto che aveva scattato durante questa esperienza. Mi resi conto che, pur avendo frequentato gli stessi suoi luoghi e visto le medesime cose, avevamo “visto” in modo completamente diverso. Mi interessò fin da subito la capacità della fotografia di dare corpo allo sguardo di ognuno: pur facendo riferimento ad una realtà che sembra condivisa e riconoscibile, è capace di continue e diverse astrazioni.
A. V.: Nel corso del tempo, crede sia cambiato il suo modo di fotografare? Magari l’esperienza l’ha portata a sviluppare una nuova visione delle cose…
P. D. P.: Mi sembra che i progetti che realizzo ora, o quelli che ho realizzato vent’anni fa, hanno delle vicinanze e degli aspetti comuni; tutti i miei lavori ciclicamente tornano con degli spostamenti. Mi piace pensare al mio lavoro, nel suo complesso, come a un qualcosa di non finito, che può deviare ed esplorare.
Poi ci sono alcune serie, ad esempio, che non finiscono mai, come Temporale, la quale raccoglie immagini di piccole variazioni nello spazio naturale che confinano con un’idea di esperienza di tali accadimenti.
Si è chiusa da poco
una mia mostra, intitolata Aperto,
alla galleria Unosunove di Roma dove ho esposto fotografie che appartengono a serie
diverse che vanno dal 1997 al 2018. “Aperto”, qui, va inteso sia come non
chiuso o non ancora concluso, sia con il significato di “stare all’aperto”, in
un luogo non chiuso o non riparato.
A. V.: Per concludere: sta lavorando a nuovi progetti ultimamente?
P. D. P.: In questo periodo sono coinvolta in un progetto molto interessante realizzato con l’Istituto per i Beni Artistici, Culturali e Naturali di Bologna incentrato sul paesaggio agrario. A febbraio ho cominciato le riprese, che termineranno nei primi mesi del 2020, e il titolo dovrebbe essere Da inverno a inverno. Sto lavorando anche al completamento di un libro molto importante, per me, che raccoglie tutte le fotografie del progetto Questa Pianura, il quale sarà pubblicato dalla casa editrice tedesca Steidl probabilmente entro il prossimo autunno.