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Il vecchio mondo sta morendo – La Strada. Dove si crea il mondo | MAXXI, Roma

Testo di Angelica Gatto — “Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”: più o meno ovunque, dai quartieri del centro a quelli periferici, una sfilza di manifesti verdi e rossi abita la città riportando queste parole pronunciate da Gramsci. In concomitanza, sulle pagine di un noto […]

La Strada. Dove si crea il mondo_ Installation view_Foto Musacchio Ianniello_ Courtesy Fondazione MAXXI
La Strada. Dove si crea il mondo_ Installation view_Foto Musacchio Ianniello_ Courtesy Fondazione MAXXI

Testo di Angelica Gatto —

“Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri”: più o meno ovunque, dai quartieri del centro a quelli periferici, una sfilza di manifesti verdi e rossi abita la città riportando queste parole pronunciate da Gramsci. In concomitanza, sulle pagine di un noto quotidiano nazionale è comparso, nei primi giorni di dicembre, un articolo in cui si è tentato di dare una spiegazione al fenomeno che stava tempestando le strade di Roma. Chi scriveva si interrogava sull’artefice di questa “campagna non firmata”, chiosando con l’ipotesi che potesse trattarsi di una trovata di marketing.

Contro ogni beneficio del dubbio, è stata ben presto rivelata l’identità dell’affissionista anonimo: Alfredo Jaar, autore dell’intervento pubblico dal titolo Chiaroscuro, ha deciso di metterci davanti al fatto compiuto, interrogando la città e i suoi spazi in un momento storico instabile e riempiendo le strade di parole che riecheggiano forti e lapidarie.

L’incursione di Jaar negli spazi delle affiches pubblicitarie è uno degli interventi che hanno coinvolto Roma – e che, con il public program, i talk, le performance e il film screening – continueranno a coinvolgere la città per tutta la durata del progetto espositivo La Strada. Dove si crea il mondo, curato al MAXXI da Hou Hanru e dal team di ricerca del Museo. Con più di centocinquanta opere e una selezione di circa duecento artisti – selezione che, per provenienze geografiche, pratiche artistiche e approcci, dimostra un’assoluta eterogeneità nella scelta – questa collettiva si propone di fare il punto sul significato che la strada assume in quanto a contenitore e vettore di spazi di continuità tra pubblico e privato, con un interesse precipuo a fornire una panoramica esaustiva sulla dimensione politica, economica, culturale e sociale della vita urbana e delle sue molteplici declinazioni, tracciando un orizzonte tra ricerche visive, urbanistica, architettura, design.

Kendell Geers_ The Devil You Know_2007_10 lampeggianti di autovetture della polizia_ Dimensioni variabili_Photo Lydie Nesvadba Courtesy the Artist and apolitical
Kendell Geers_ The Devil You Know_2007_10 lampeggianti di autovetture della polizia_ Dimensioni variabili_Photo Lydie Nesvadba Courtesy the Artist and apolitical
La Strada. Dove si crea il mondo_ Installation view_Foto Musacchio Ianniello_ Courtesy Fondazione MAXXI
La Strada. Dove si crea il mondo_ Installation view_Foto Musacchio Ianniello_ Courtesy Fondazione MAXXI

La strada non è dunque il luogo che gli artisti intendono rendere migliore. Piuttosto, ciò che si avverte è l’urgenza di riconsiderare nuovamente la vitalità dell’arte entro una cornice politica – la polis, da cui deriva per l’appunto politica, indica lo spazio pubblico, lo spazio dell’abitare, la città e chi la vive – e quella di mettere in luce gli elementi di criticità per fornire al contempo gli strumenti adeguati per una rilettura degli spazi del quotidiano. D’altronde, la tanto ricercata tangenza tra arte e vita – forse uno degli scarti concettuali più forti introdotti dalle avanguardie – non può più prescindere da un legame stringente con la realtà storica, l’attualità e le problematiche che la interessano, anche e soprattutto in un momento storico come questo.

Il progetto espositivo è espressione della molteplicità di approcci che questo topos ha implicato – basti pensare alla dimensione politica e performativa dell’arte degli anni Sessanta e Settanta – e continua a implicare, fornendo uno sguardo sulle recenti ricerche che abbracciano gli anni Novanta e Duemila. Nel suo aspetto corale, il progetto rinuncia a essere forzatamente e riduttivamente onnicomprensivo per lasciare aperti degli spazi di riflessione, come d’altronde aperta è la strada nel suo rapporto con il contesto esistenziale e politico che ciascuno di noi attraversa nel proprio quotidiano. Certamente, una mostra collettiva di cui la città stessa sentiva il bisogno, e di cui il pubblico necessita in un momento controverso in cui la riflessione critica sembra essere stata demandata a un inesorabile annichilimento delle coscienze.

La Strada. Dove si crea il mondo_ Installation view_Foto Musacchio Ianniello_ Courtesy Fondazione MAXXI
La Strada. Dove si crea il mondo_ Installation view_Foto Musacchio Ianniello_ Courtesy Fondazione MAXXI
Chto Delat _Angry Sandwich People_2006_VideoColoreSuono _Courtesy Chto Delat and KOW Berlin
Chto Delat _Angry Sandwich People_2006_VideoColoreSuono _Courtesy Chto Delat and KOW Berlin

All’interno dello spazio museale, l’impresa titanica del curatore e del suo team si è confrontata con una necessaria suddivisione in sette sezioni macrotematiche, funzionali a una lettura chiara e agevole dei lavori presentati e dell’allestimento. Lo spazio espositivo risulta così essere un luogo fluido, permeabile e aperto, in grado di porre in luce rapporti di interscambio e di continuità. Mapping. Planned/Unplanned, Built/ Unbuilt, pone l’accento, attraverso la dicotomia tra pianificato e non-pianificato, sulla intersezione tra le ricerche artistiche e quelle urbanistico-architettoniche riguardanti la mappatura della città e dei suoi luoghi, con le opere, tra gli altri, di Ugo La Pietra, Archigram, Superstudio, Stalker; Interventions. Walk, Play and Getting Lost…, presenta, attraverso le opere di Allora & Calzadilla, Cao Fei, Martin Creed, per citarne soltanto alcuni, il camminare, il giocare e il perdersi come azioni fondamentali alla base di pratiche artistiche che mirano a riconquistare degli spazi di libertà all’interno di contesti sempre più impersonali; Street Politics. Resistance, Protest, Occupy, Manifest, Femminism and the Carnevalesque si incentra su resistenza, movimenti di protesta e a favore dei diritti umani, femminismo e rovesciamento sistematico di gerarchie precostituite, modelli comportamentali e incarnazioni del potere come temi fondamentali di azioni e ricerche artistiche che trovano nella strada il loro habitat naturale e un fecondo terreno di scambio, come si evince nei lavori di Marinella Senatore, Chto Delat, Sam Durant; Everyday Life. Eat, Work and Exchange. Home/Homeless, indaga la strada come estensione della vita domestica e, al contempo, come luogo di marginalizzazione ed esclusione sociale, ad esempio nelle installazioni La strada di Roma (2011) di Jimmie Durham e Architettura minima (2016) di Eugenio Tibaldi; Good Design. Innovation, Limitation and Freedom è la sezione che riflette sulle possibili implicazioni del progresso tecnologico, della progettazione urbanistica e del design sugli spazi della collettività, attraverso una sorta di riconciliazione della città con i sui abitanti, come nei Velodreams di Patrick Tuttofuoco, ma anche con una indagine e una riflessione sui meccanismi di controllo; Community. Immigration, Minority, Diversity, Love and Living Together si interessa alle dinamiche identitarie implicate all’interno delle società contemporanee, attraversando temi di forte attualità come quelli legati ai fenomeni migratori e alle minoranze ad esempio nel video Niagara (2005) di Mark Bradford; infine, Open Institutions. Street as Museum, Museum as Street chiude significativamente il cerchio con una riflessione che ha per soggetto l’istituzione museale considerata come organismo funzionale, spazio aperto, luogo da rimettere in discussione attraverso una dinamica partecipata che abbia come obiettivo quello del ripensamento dei codici normativi e del principio di autorità. A tal proposito, l’installazione di Thomas Hirschhorn, Timeline: Work in Public Space (2012), è sicuramente indicativa; con un collage di immagini, statements ed estratti di testo, l’artista racconta i suoi interventi in siti rurali e urbani. Quella di Hirschhorn, secondo il quale “Art is public”, è una riflessione che conduce alle estreme conseguenze quanto già discusso da Duncan Cameron a proposito del museo come forum, ovvero come luogo di interazione, suscettibile di quel cambiamento che dovrebbe determinarne un passaggio decisivo di statuto.

La Strada. Dove si crea il mondo_ Installation view_Foto Musacchio Ianniello_ Courtesy Fondazione MAXXI
La Strada. Dove si crea il mondo_ Installation view_Foto Musacchio Ianniello_ Courtesy Fondazione MAXXI
Venturi Scott Brown and Associates - «The Big Duck», shop in the shape of a duck on the highway on Long Island, Flanders, New York, ca. 1970 © Venturi Scott Brown and Associates; courtesy by Museum im Bellpark Kriens from the “Las Vegas Studio”-project curated by Hilar Stadler and Martino Stierli
Venturi Scott Brown and Associates – «The Big Duck», shop in the shape of a duck on the highway on Long Island, Flanders, New York, ca. 1970 © Venturi Scott Brown and Associates; courtesy by Museum im Bellpark Kriens from the “Las Vegas Studio”-project curated by Hilar Stadler and Martino Stierli

Dalla poster art – con Andrea Bowers, che in La Raza y La Causa (2015) espone una selezione di 140 manifesti e immagini d’archivio – al video, dall’arte partecipata – Jeremy Deller con la sua performance How to quit Facebook (2018), svoltasi nel quartiere Pigneto, al Mercato di Testaccio, presso la Galleria Colonna e in alcune stazioni della Metro A – all’installazione – Kendell Geers in The Devil You Know (2007) impiega dei lampeggianti di autovetture della polizia con un evidente slittamento semantico dichiarato a partire dal titolo -, i lavori presentati sfuggono alla morsa meramente commerciale del sistema-arte per appropriarsi di un circuito relazionale che rende lo spazio museale davvero un luogo sensibile e inclusivo.

Nel video del duo Map Office, Runscape (2010), il correre è teorizzato come “l’unica azione illimitata nel campo urbano”, in risposta alla crescente militarizzazione e privatizzazione degli spazi delle città. “Cosa mi fa correre? La necessità di scappare?”: un ragazzino corre attraversando i vicoli, le aree interstiziali e i luoghi abbandonati di Hong Kong, mentre una voce fuori campo, seguendo il corso delle immagini, svela la storia delle lotte in strada, dalle rivoluzioni parigine del XIX secolo al ‘68, fino alle insurrezioni contemporanee. Free Post Mersey Tunnel (2010) di Rosa Barba, è una invece una grossa installazione di tubi metallici attraverso cui si diffondono i suoni registrati nei tunnel al di sotto del fiume Mersey. Una mappatura dello spazio che coinvolge l’udito, ribaltando i consueti rapporti gerarchici tra sopra e sotto, tra un luogo e l’altro. Kim Sora nel video Abstract Walking (2012) riporta un movimento lento e ripetuto, a spirale, che torna su se stesso allontanandosi progressivamente da un singolo punto. Un gesto semplice e continuo, che irrompe nella quotidianità degli spazi urbani tanto quanto le azioni proposte da Lin Yilin che in Golden Hill (2011-2012) rotola a terra con le braccia strette lungo i fianchi, accompagnato da un gruppo di persone stanti che, incedendo in maniera lenta e solenne, sembrano frenare, e al contempo proteggere, il corpo di Yilin che si abbandona rotolando. In questa azione, sono condensate strategie di resistenza, disobbedienza civile, protesta, le stesse strategie che accompagnano la sezione Street Politics in cui è senza dubbio rilevante il video in bianco e nero di  Santiago Sierra, in collaborazione con Jorge Galindo, intitolato Los Encargados (2012). Realizzato sulla Gran Via di Madrid nel 2012, il video di Sierra documenta una performance in cui si svolge la processione di sette Mercedes nere che trasportano le gigantografie, rovesciate, di Juan Carlos e dei primi sei ministri della democrazia spagnola; una marcia funebre accompagnata dalla Warszawianka, l’inno dei lavoratori polacchi adottato poi dall’anarcosindacalismo spagnolo. In Sugar Water (2007), il video di Eric Baudelaire, le immagini dell’esplosione di un’autobomba vengono affisse sulle pareti della metropolitana di Parigi all’interno di una cornice dorata, che non a caso ricorda quelle dei grandi quadri di storia, sotto lo sguardo assente e indifferente dei passanti.

Lin Yilin  Golden Town, 2011 video, sound, 9 mins, 4 channels Courtesy of the artist
Lin Yilin Golden Town, 2011 video, sound, 9 mins, 4 channels Courtesy of the artist

 

Questo non è il migliore dei mondi possibili ma è certamente un mondo che chiama in causa la necessità di una diversa responsabilità anche da parte della comunità artistica, dell’istituzione museale e degli operatori culturali. La collettiva del MAXXI ha il grande pregio di presentare all’interno di una cornice istituzionale un percorso che attraverso il ribaltamento tra dentro e fuori, tra spazi chiusi e aperti, tra pubblico e privato manifesta interamente l’urgenza di ripensare le dinamiche socio-politiche uscendo dal tunnel della perenne afasia in cui spesso siamo costretti. A tal proposito, nel saggio intitolato TAZ: The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism del 1991 Hakim Bey postula la creazione di zone temporaneamente autonome, e autogestite, dove poter esercitare il dubbio sistematico e l’analisi critica della realtà e delle sue sovrastrutture. Per Hakim Bey le temporary autonomous zones diventano lo strumento principale attraverso cui compiere una riappropriazione degli spazi e delle narrazioni ad essi legate, al fine di eludere il controllo sociale: “La TAZ è come una sommossa che non si scontri direttamente con lo Stato, un’operazione di guerriglia che libera un’area (di tempo, di terra, di immaginazione) e poi si dissolve per riformarsi in un altro dove, in un altro tempo, prima che lo Stato la possa schiacciare. Poiché lo Stato è occupato primariamente con la Simulazione invece che con la Sostanza, la TAZ può occupare queste aree clandestinamente […]”.

Patrick Tuttofuoco, Velodream (Mattia), 2001 legno, alluminio e plastica, tubolare metallico  160 x 244 x 163 cm Courtesy the artist, My Private, Milano and Federica Schiavo Gallery
Patrick Tuttofuoco, Velodream (Mattia), 2001 legno, alluminio e plastica, tubolare metallico 160 x 244 x 163 cm Courtesy the artist, My Private, Milano and Federica Schiavo Gallery