Ciò che colpisce di questa mostra ospitata alla galleria Renata Fabbri è la fisicità che emanano le sculture. Florian Roithmayr compie quella classica esplorazione sui materiali che da secoli affascina gli artisti: delega alla sperimentazione sulla materia che utilizza, il compito di rivelare, incontrollata, la forma delle sue sculture.
In mostra abbiamo una serie di esiti di quello che la curatrice descrive come “micro-esplorazioni”, un percorso “attraverso quei piccoli gesti ed avvenimenti che sono spesso considerati come marginali rispetto all’intero processo. L’opera segue quindi un’evoluzione organica, un iter in cui le tracce di una produzione o gli oggetti concepiti in relazione ad essa convergono in nuove potenziali traiettorie.”
Quali potenziali traiettorie esplora Roithmayr?
Innanzitutto l’artista cerca un confronto con l’evoluzione della pratica scultorea: con appuntamenti o snodi significativi che hanno contraddistinto momenti significativi del linguaggio della scultura del XIX secolo. Non a caso l’artista sta compiendo una serie di collaborazione che hanno l’Università di Cambridge, il Wysing Art Centre (Bourn), Kettle Yard (Cambridge), HS Projects (Londra), Elephant Trust, Arts Council England, la Henry Moore Foundation and il Paul Mellon Centre.
Esperienze diverse che hanno apportano sempre nuove evoluzioni e scoperte nella relazione tra stampo, materiale, colata e il modello-scultura che ne risulta.
La sequenza in mostra, aiutata anche dai diversi colori delle sculture, ci portano nel suo mondo di osservazioni: esperimenti che, guidati dall’imprevedibilità, danno vita a grumi scultorei contraddistinti da volute, anse, superfici concave e convesse che fanno eco sia alle forme che troviamo in natura, ma anche alla superficie epidermica, mai piana ma sempre mossa da piccole anse, pieghe e cavità.
Per addentrarci e comprendere appieno la prassi di Roithmayr pubblichiamo un estratto dell’intervista fatta dalla curatrice Bianca Baroni in occasione della mostra dell’artista da Renata Fabbri (fino al 3 novembre 2018).
Bianca Baroni: Nel corso della tua carriera ti sei sempre interessato al medium scultoreo, analizzandolo su svariati livelli e assumendo prospettive altrettanto differenti. Come si colloca “The Humility of Plaster” rispetto al tuo lavoro precedente? Quale aspetto della tua ricerca scultorea viene enfatizzato in questo progetto?
Florian Roithmayr: Attraverso il mio lavoro artistico mi sono sempre focalizzato sul concetto di “imprinting/impressione”. Questo implica una sorta di movimento o un’operazione meccanica in cui due oggetti vengono congiunti, spesso sottoposti
ad una qualche forza o pressione, in modo tale che uno si imprima sull’altro. Una parte riceve e si arrende mentre l’altra si “impone”. Movimenti che potrebbero essere rispettivamente descritti come “dare forma” e “prendere forma”. Questa dicotomia sottende la maggior parte della mia indagine, definisce i processi e le tecniche che metto in atto nel mio studio. Questo tipo di pratiche sono associate ad una lunga e complessa tradizione storica, sono legate sia alle arti visuali che ad altre aree di produzione culturale o cosmologica. Basti pensare all’Antico Egitto dove, lo stampo di un volto veniva realizzato per perpetuare la presenza di una persona e cristallizzarla nel tempo corrente e futuro. Gli oggetti risultanti da tale operazione non erano necessariamente considerati come artefatti, piuttosto nascevano come riti spirituali. Per lungo tempo ho concepito il mio lavoro attraverso tecniche di stampo ed impressione, esaminando al contempo la storicizzazione e l’istituzionalizzazione di quelle tecniche. Negli ultimi anni ho sentito quindi la necessità di sviluppare un progetto di ricerca formale che affrontasse questo soggetto.
BB: Trovo interessante che tu abbia scelto di soffermarti su questi due aspetti. Da un lato esamini il realizzarsi di queste tecniche a livello fisico e materiale. Tuttavia guardi anche all’infrastruttura storica e istituzionale che le sottende.
FR: Assolutamente, mi sto muovendo lungo due traiettorie. Una tratta la fisicità di queste procedure che contestualizzano me e i materiali nel “qui e ora”. A tale proposito, quando innesco questi processi in studio, ci sono veramente pochi fattori che possano costituire una digressione verso un altro tempo o luogo. Al contempo sono cosciente del trascorso storico che sottende queste pratiche e quindi riconosco che vi sia una discrepanza tra questi due livelli. Generalmente, per mediare tale discontinuità, faccio riferimento all’uno e all’altro usando i termini “within” e “without”. “Within” per me rappresenta qui e ora”, l’evento fisico e contingente così come l’interazione che avviene tra corpi e materiali diversi. “Without” rappresenta la storia, le istituzioni e il dibattito accademico che definisce quei processi nel contesto presente.
BB: La ricerca svolta per “The Humility of Plaster” si è sviluppata attraverso una serie di incontri e visite presso numerose gipsoteche in tutta Europa. In quale modo lo studio di questi contesti ha impattato il lavoro che hai prodotto nel corso del progetto?
FR: Abbiamo visitato e svolto ricerche in diverse istituzioni in Italia, Belgio, Francia, Germania, Regno Unito e Danimarca. Innanzitutto ciò che è emerso immediatamente è che la tradizione relativa alle pratiche di stampo e modellatura in gesso è pressoché svanita. Ma soprattutto ho realizzato che, a livello scultoreo, i calchi e gli archivi che li ospitano sono decisamente più interessanti delle riproduzioni di statue classiche realizzate attraverso tali stampi. In particolare ho iniziato a domandarmi se ci fosse stato un momento particolare nel tardo modernismo in cui una rottura di determinate convenzioni accademiche avesse coinciso con un nuovo modo di pensare la scultura come flusso tra spazio positivo e negativo.
Mi domando se ci sia stato un momento in cui artisti come Henry Moore e Barbara Hepworth hanno riconosciuto il potenziale scultoreo dei calchi stessi, allontanando il focus dalle riproduzioni. Subito dopo aver visitato i laboratori e i magazzini della gipsoteca parigina mi sono recato nello studio di Henry Moore
a Perry Green. Mentre osservavo il suo laboratorio
di stampo e colatura mi sono subito accorto delle analogie che intercorrevano tra i calchi e le sue sculture, come se la differenza tra “dare forma” e “prendere forma” fosse pressoché nulla. Sembrava che Il processo scultoreo non riguardasse più una dialettica tra due entità, come se tale opposizione si fosse dissolta in un unico flusso di significazione.
BB: Stavo leggendo una delle interviste che hai rilasciato durante la tua personale al Camden Arts Centre. Hai detto una cosa bellissima circa il tuo ruolo in relazione al processo scultoreo. Lo descrivi come un qualcosa che trascende qualsiasi contestualizzazione temporale, simbolica e culturale per diventare puro movimento.
FR: Sì assolutamente, per me il processo scultoreo riguarda anche una certa differenza tra “creare” (to make) e “fare” (to do) qualcosa. “Creare” (to make) implica l’intenzione di produrre un risultato, un’attività che conduca a un oggetto già di per sé definito attraverso un intento e una visione. “Fare” (to do) non indica necessariamente tale proiezione verso un prodotto. Quindi, data questa distinzione, “fare” (to do) ha il potenziale e la capacità di generare un diverso tipo di opera scultorea. Non indica che io stia producendo qualcosa di completo e finito di cui io sono autore e creatore. Mi considero piuttosto come un istigatore, qualcuno che dà inizio a una sequenza di eventi, che mette in moto una situazione. Allo stesso tempo però mi assicuro che ci siano le condizioni e i parametri affinché tale movimento possa continuare senza di me, cosicché io possa divenire completamente superfluo al processo. Questo principio riguarda il lavoro svolto in studio così come le dinamiche proprie dello spazio espositivo. Questo è un altro contesto in cui spesso tendo ad affidare responsabilità/ruoli ad altri soggetti partecipanti, come lo staff della galleria o del museo, o addirittura il pubblico della mostra in questione.
Mi interessa osservare come la materia si comporti con o senza di me. Ci sono delle costanti che definiscono quello che un materiale può fare e rispetto alle quali la mia azione è totalmente irrilevante. Non hanno niente a che fare con il mio tentativo di simbolizzare e di identificare il significato di un’opera. Posso inizialmente partecipare e istigare dei processi scultorei ma, ad un certo punto, questi prendono il sopravvento e io divento ridondante. Questo è quello che avverrà anche in occasione della mostra presso la Galleria Renata Fabbri dove un gruppo di studenti di restauro e conservazione sono invitati a prendersi cura dei lavori in mostra, configurandone e riconfigurandone la disposizione.