Intervista di Ruggero Barberi —
Pier Paolo Pancotto, docente di Storia dell’Arte Contemporanea alla LUISS, è un curatore indipendente che ha dato il via a un coinvolgente progetto presso la casa-museo di Pietro Canonica, al centro di Villa Borghese; da due anni invita artisti internazionali a intervenire con realizzazioni rigorosamente site specific in mezzo alla nutrita collezione permanente, composta da sculture in gesso, una fitta quadreria, una collezione di copie romane di statue greche. Con quella del pittore rumeno Şerban Savu siamo giunti alla decima mostra in due anni e mezzo (visitabile fino al 1/07), che hanno visto transitare Martin Soto Climent, Alfredo Aceto con Claire Tabouret, Tillman Kaiser, Claire Fontaine, Ciprian Mureşan, Nick Devereux, Benjamin Hirte e Chadwick Rantanen, Denis Savary, Landon Metz.
PPP: Una novità importante rispetto alle mostre precedenti è che si tratta di una mostra di sola pittura, un esperimento che volevo fare e, devo dire, risultato più difficile di altre volte.
RB: Quella meno installativa e dunque per forze di cose la meno interventistica – diciamo così – che però, proprio in virtù di ciò, rispetto alle mostre precedenti è quella che si confonde meglio con la quadreria autoctona.
PPP: Proprio così. In ogni modo ciascun artista si è confrontato con ciò che ha fatto Canonica, un artista che noi oggi consideriamo distante, ma il quale, al di là di tutto, aveva questa ambizione dell’artista universale, era pittore, scultore e musicista; soprattutto scultore però, il che ha facilitato gli interventi di tipo installativo.
Şerban fa parte di quella che convenzionalmente viene definita scuola di Cluj, anche se gli artisti non si riconoscono in questa definizione; si tratta di un fenomeno generazionale piuttosto interessante, che ha visto luce nei primi anni duemila in quello che viene riconosciuto come primo centro culturale in Romania –anche Bucarest sta prendendo terreno. Di colpo sono sorti dei grandi talenti che ad oggi sono artisti molto apprezzati, soprattutto in ambito pittorico. Di questo primo gruppo fanno parte: Adrian Ghenie, Victor man, Ciprian Mureşan – che ho già invitato nel 2016 – e Şerban Savu – forse il meno noto in Italia – questi ultimi due condividono lo studio. La galleria Plan B, la cui prima sede è di Cluj, ha una sede anche a Berlino – molto seguita – ed è nata con loro nel medesimo periodo.
Di primo acchito potrebbero sembrare scene ritratte dal vero, in realtà sono immagini che lui, sì, ha memorizzato e catturato nell’immaginazione, ma che sono tutte rielaborate nel suo studio, sono quasi pitture metafisiche perché si supera la fisicità sia nel racconto, che nell’impianto pittorico. Potrebbe sembrare un realismo sociale, ma non è strettamente così. Il tema del lavoro è quello che gli è più caro, fa parte proprio della sua tradizione, lavoro che viene idealizzato oppure mostrato in tutte le sfaccettature, ad esempio ritrae molto spesso la prostituzione – su strada, oppure, come forme più sofisticata di prestazione erotica a pagamento, le camgirl – fino all’esatto opposto, all’homeless, il senza-casa e dunque senza-lavoro.
In alcuni lavori su carta – esposti qui per la prima volta – lui ricompone immagini fotografiche con photoshop, trapianta dei personaggi in un altro luogo, non sono esclusivamente lavori preparatori, sono già conclusi.
RB: Sugli sfondi di alcuni dipinti sembrerebbero esserci delle citazioni che allargano il significato dell’opera, a riprova del fatto che si tratta di realismo fino a un certo punto.
PPP: Sì, nel ritratto della camgirl – che in realtà è la compagna – l’arazzo sullo sfondo è tipico delle case rumene, in questo caso è una citazione del Ratto del serraglio di Mozart. Oppure una scogliera siciliana con un Etna assai poco realistico, oppure ancora in un’altra scena di lavoro dentro un’officina, vediamo un grande dipinto che richiama gli affreschi dei monasteri della Bucovina.
Proprio in questi giorni Ciprian sta allestendo un grande dipinto a Berlino ispirato alle pitture di Voroneţ, un complesso abbaziale con affreschi di primissimo rilievo, sempre di ispirazione bizantineggiante.
RB: È un dato che in poco più di due anni di attività qui al Canonica hai portato esclusivamente artisti stranieri, tra l’altro poco noti in Italia, ma alcuni di questi arcinoti all’estero, Martin Soto Climent ad esempio dopo il suo intervento è stato autore di un bellissimo lavoro al Palais de Tokyo a Parigi. Mi parli un po’ del tuo percorso di curatore di arte contemporanea in questa casa-museo?
PPP: Anche Claire Tabouret, con lei dopo abbiamo realizzato insieme un progetto a Villa Medici ed era stata già ospite a Palazzo Grassi. Ciprian Mureşan ha fatto la mostra qui nel 2016 ed è stato invitato alla Biennale di Venezia l’anno dopo. Landon Metz ha fatto una mostra strepitosa per Art Basel 2018. Qui molti di questi artisti hanno avuto la possibilità di esporre per la prima volta in uno spazio pubblico in Italia, o addirittura sono alla loro prima personale qui da noi.
Tutto è nato al Museo Andersen, sempre qui a Roma, dove ho lavorato con Carsten Nicolai e Nick Oberthaler – entrambi alla prima personale in assoluto in Italia.
Hendrik Christian Andersen, norvegese americano, ha deciso di lasciare il proprio territorio e di trasferirsi qui, addirittura eleggendo Roma a propria patria, e non perché fosse pensionnaire presso qualche ente o perché avesse ricevuto committenze. Mi sono domandato, com’è che degli artisti di grande qualità e grande interesse considerano imprescindibile la visita al nostro paese, pur considerando che né l’Italia e né Roma in particolare sono al centro delle arti contemporanee. Ma soprattutto come sia possibile che le istituzioni di questa città non riescano a intercettare simili personalità.
Lavorare con artisti stranieri è perciò parte integrante di questo progetto; a me piacerebbe, specularmente, portare all’estero artisti italiani. Con Nico Vascellari, che adesso ha una mostra al MAXXI, abbiamo fatto insieme Palais de Tokyo, l’Estorick a Londra, la Galleria Nazionale di Tirana, ci siamo molto divertiti.
RB: Sarebbe davvero curioso cogliere il momento in cui l’artista si rende consapevole di dover operare in un luogo come questo così “antiquato”, personale, di per sé già saturo di opere, peraltro tutte figurative. Mi domando da cosa vengano attirati maggiormente.
PPP: La mentalità di tutti gli artisti che hanno esposto qui li ha portati ad andare oltre e parallelamente più a fondo, non si scoraggiano certo, quello che ho notato è che vengono colpiti da temi non immediatamente percepibili, ma reali, quali il potere: Canonica si astrae completamente dalle avanguardie per lavorare di alte committenze (Papi, capi di stato, tra cui Zar).
Ad esempio i Claire Fontaine misero la figura di Yoda, un personaggio di guerre stellari, al centro della stanza dove ci sono due statue che rappresentano Atatürk, assieme a Simón Bolívar, Re Faysal, tutte rivoluzioni. Un altro elemento che ho notato è che vengono attirati dalla spettralità del luogo e delle camere, Martin Soto realizzò dei calchi delle statue con la carta stagnola, sembravano dei veri e propri fantasmi.
RB: Per il visitatore esplorare questo fitto spazio cercando l’incastonatura nascosta diventa quasi un gioco. È un fattore che ho sempre riscontrato in queste mostre, c’è un tuo suggerimento alla base?
PPP: C’è una mia sollecitazione a riguardo. Dico loro di non pensare di essere in un White Cube, ma esattamente l’opposto. Quello che mi piacerebbe è proprio stimolare la scoperta, che poi è il modo più antico e naturale di vedere le opere, in un periodo storico in cui veniamo molto condizionati dalla visita guidata; vorrebbe essere una forma esperienziale di visita. Ad ogni modo quello che voglio sottolineare è che si vuole proporre un progetto espositivo continuato, con una narrazione, quelle fatte non sono solo singole mostre, né tantomeno mostre spot, le quali spero prima o poi di documentare in un catalogo. Al momento la mostra in programma, l’undicesima di questo progetto, è considerata l’ultima.
RB: Quanto dura l’allestimento? Ho letto che si tratta di un vero e proprio processo performativo dell’artista.
PPP: Esattamente. Un’intera settimana è dedicata all’allestimento, l’artista allestisce quando il museo è aperto ai visitatori.
RB: Tra le esperienze da curatore ricordiamo che hai curato anche i giovedì di Villa Medici.
PPP: Ventiquattro Art club più due notti bianche, il primo è stato Enzo Cucchi, poi di nuovo Nico Vascellari, lì è un progetto sorto nello stesso momento del Canonica, ma abbastanza diverso, più basato sul concetto della presentazione di un lavoro, in singoli spazi della Villa – che comunque offre a grandi artisti e ai pensionnaires di fare importanti mostre istituzionali – mi piace pensare a questi come dei singoli sogni, perché possono durare anche una sola sera – fino a un massimo di tre giorni.