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Testo di Paola Gallio
Mentre la maggior parte degli operatori del settore sembra amare il radicale cambiamento della mappa dei luoghi dell’arte a New York, per quanto mi riguarda, avendo tempo limitato e un altro lavoro con cui mediare, la dispersione della centralità la considero semplicemente scomoda, come direbbero gli anglofoni no Audience-Friendly.
Le gallerie hanno molteplici sedi tra Harlem e il Lower East Side – Gavin Brown- o si sono trasferite in Town house in Midtown Anton Kern- o nell’Upper East Side – Half gallery. Parlando con una gallerista recentemente trasferitasi da Chelsea a Bushwick, alla mia domanda su come risponde il pubblico a un cambiamento così radicale, dice “…pensare che nelle gallerie ci siano clienti che entrano e comprano come in un negozio in Broadway è semplicistico. In questo specifico momento tutto succede in Fiera.” Apparentemente per il confronto, il dialogo e l’aggregazione ci è rimasto Instagram. L’audience non conta.
In un articolo per Bloomberg News, James Tarmy illustra la dinamica economica delle fiere d’arte nel mondo e, nel tentativo di giustificarne il numero sproporzionato, si legge che la ragione per cui le fiere hanno avuto una crescita esponenziale, e’ nella nuova demografia dei compratori. La ricchezza appartiene sempre di più chi “Lavora” invece che a persone che la ereditano, quindi i nuovi collezionisti non hanno più il tempo di spostarsi per cercare preziosi per le loro dimore, perché occupati a produrre la ricchezza necessaria a costruire le proprie collezioni. In sintesi, la montagna va’ da Maometto.
Il risultato di questa natura nomade delle gallerie è però scritto in faccia alle centinaia di direttori di galleria che viaggiano di settimana in settimana da New York a Dubai a Hong Kong: sono stanchi.
Sostare in un booth per giorni è fisicamente difficile: le luci al neon, il riscaldamento secco d’inverno e l’aria condizionata gelata d’estate, la miriade di persone che si catapulteranno nello stand per curiosare, chiacchierare, salutare e a volte comprare, e questa stanchezza si percepisce.
La settimana delle fiere newyorchesi è sembrata sottotono. Molte delle Mega Gallerie hanno performato in solo la settimana precedente ad ADAA Art Show, estendendo il periodo di fiere da una a due settimane. Per me troppe. Per rendere tutto più’ difficile il giorno dell’inaugurazione dell’Armory show si scatenava una bufera di neve.
Dopo l’esordio politico dell’anno scorso, The Armory Show sembra riflettere la situazione psicologica dell’Americano liberale medio: silente rassegnazione. Il tumulto rivoluzionario dell’anno precedente si ritrova in timide sporadiche manifestazioni.
Camminando mi soffermo su un lavoro al neon che alterna le parole AMERICA-AMNESIA. Mi sembrava perfetto per riassumere il modo della fiera 2018. Cerco di collegare l’opera alla casa madre e mi accorgo che è lo stand della famiglia Minini, e il pezzo è dell’artista Svedese Runo Lagomarsino.
Per la maggiore le gallerie sono tornate all’estetica solita seguendo i trend del momento.
La parte che mi ha interessato di più è vedere come l’Outsider Art è esponenzialmente cresciuta nel sistema delle fiere convenzionale, pur avendone una propria.
Marlborough Contemporary riserva un’intera parete a una serie di nuovi disegni a pennarello dell’artista Susan Te Kahurangi King.
Fleisher Ollman (che ritroviamo a Independent) presenta nel suo booth bellissimi disegni pastello su carta di Julian Martin, le figure in inchiostro blu di Bill Traylor, e una selezione di sculture e disegni James Castle. Leggendo la storia di Castle in una mostra al Whitney, ho ricordato la lezione di Marcel Duchamp sull’intenzionalità’ d’artista. A lui (sordo e destinato a essere illetterato) bastava un pezzo di carbone e della saliva per dipingere su pezzi di cartone recuperati dalle scatole delle sementi nella fattoria della sua famiglia Idaho.
Cosa ci sta spingendo verso quest’orizzonte lontano dalla tendenza del giovane e nuovo a tutti i costi e delle flotte di artisti forgiati dalle standardizzate fucine di Ivy League universities? L’iper-professionismo dell’artista portato all’eccesso da PHD in Visual Art alla Columbia University negli ultimi venti anni sta svoltando in una nuova direzione?
In un articolo su Vulture Magazine di qualche anno fa Jerry Saltz dice che gli studenti delle scuole arte di alto profilo hanno un vantaggio di pochi mesi rispetto a quelli provenienti da programmi di scuole pubbliche. Dopo le mostre di laurea che le università d’elitre organizzano invitando dealers e collezionisti, quando il boom iniziale si estingue, l’artista si ritrova come molti ad avere un lavoro full-time fuori dallo studio per ripagare un debito mostruoso, piombando nel gruppo dei tanti… io non posso che essere d’accordo.
Independent ha avuto un focus particolare sull’argomento. Nello spazio principale cinque gallerie hanno presentato principalmente lavori di Outsider e Self-tought Artist, trasformando la nicchia in mainstream. Il curator adviser di Independent, Matthew Higgs, lo aveva anticipato: “Daremo spazio ad artisti con background alternativi, mantenendo il dialogo animato” e direi che ci sono riusciti. Diciannove delle cinquanta gallerie presenti partecipa per la prima volta, e la maggior parte, essendo l’opening delle fiere l’otto marzo, rende omaggio alle donne.
Aprono le danze, le gallerie Delmes & Zander nel suo esordio New Yorkese con il lavoro Alexandru Chira. L’artista, considerato uno sciamano nel suo villaggio in Tasmania, nell’ultima parte della sua vita produce una serie di disegni scientifici e diagrammi per propiziare la pioggia dopo diciotto mesi di siccità. La sua produzione artistica, infatti, ha la funzione magica di dialogo con l’ambiente. Osservarli è affascinante, sono appunti e schemi con una forte componente estetica, in sintonia con la natura borderline della fiera.
Ritroviamo Fleisher Ollman con un booth spettacolare con i lavori di Julian Martin, James Castle, Sarah Gamble, Eamon Ore-Giron and Eugene Von Bruenchenhein. Il gallerista Ricco/Maresca Gallery in un’intervista dice che le etichette sono importanti, ma sono più appropriate in un supermercato che in una galleria, e nella loro non fanno differenza tra arte accademica e non. Sembrano però avere una chiara posizione a riguardo. Nel suo stand presenta i lavori di Martin Ramírez, dopo la recente retrospettiva di Ramirez all’ICA di Los Angeles, e Leopold Strobl con il comune denominatore metafisico e l’introspezione dello spazio psicologico,
Andrew Edling è definitivamente il traino di questa tendenza essendo il proprietario dell’Outsider Art Fair. Andrew ha sdoganato il termine “Outsider” dandogli un significato più chiaro e ampio. Per Andrew Outsider è tutto quello che ha un approccio crudo all’arte, non convenzionale, fuori dalle tendenze. Tra i suoi artisti troviamo il redivivo Terence Koh con la scultura funeraria di un astronauta, coperto di pins a contenuto politico, estratto dalla mostra personale del 2016, affiancato dalla serie di disegni su carta dell’artista Paulina Peavy. Paulina afferma che la serie di queste astrazioni cosmiche sia stata creata sotto la guida di presenze aliene, con cui sembrerebbe essere stata in comunicazione in diverse occasioni durante la sua vita. Un particolare insolito è che i disegni non hanno un verso e il collezionista può appendere con l’orientamento preferito.
La galleria Newyorchese Kerry Schuss presenta un solo show di Aaron Birnbaum, curato dall’artista Matt Connors della galleria CANADA. Aaron era immigrato Ucraino ha passato la vita a fare il sarto a Brooklyn. Una volta in pensione ha potuto dedicarsi alla pittura a tempo pieno e ha continuato fino all’età’ di 103 anni. Riconosciuto negli ultimissimi anni di vita, a 102 presenzia alla sua prima retrospettiva al The Aldrich Museum of Contemporary Art in Ridgefield, Connecticut. Leggendo queste informazioni mi viene in mente Carmen Herrera che alla domanda “E’ contenta di essere finalmente in mostra al Whitney?” candidamente risponde: “…sarebbe stato meglio se fosse successo qualche decennio fa, ma va bene lo stesso.”
Ovviamente Independent è stato anche molto altro: Canada che festeggia il suo ventennale con Elisabeth Kley, CLEARING con Harold Ancart, Cary Leibowitz a Invisible Exports, David Kordansky con le ceramiche di Ruby Neri, Rebecca Ackroyd per Peres Projects.
NADA il giorno seguente era come essere a una festa tra amici. NADA è definitivamente la fiera piena di energia positiva, dove gli artisti s’incontrano, i galleristi ti accolgono sorridenti e i collezionisti sembrano divertirsi intrattenendosi in chiacchierare con una birra alla mano.
Le gallerie sono giovani a dinamiche, e ci sono sempre sorprese.
La West SoHo Geary Gallery ha presentato l’artista ed eccezionale ceramista di origini Cinesi Heidi Lau. Dopo aver perso la sua mostra al Bronx Museum, ho avuto il piacere di vedere le sue sculture di persona. Le craniche sono semplicemente oggetti straordinari per tecnica e per soggetti. Le catene e le grate che imprigionano piccole mani in terracotta sono ispirate da storie mitologiche di relazioni tra uomo e donna. La stratificazione degli smalti cromati rende le sculture marco-gioielli. Attendo con trepidazione il suo solo show a maggio.
Disturb The Neighbors è stata una gradevole scoperta. La gallerista Grace Lerner con cadenza trimestrale sbarazza dai mobili il salotto del suo appartamento nell’Upper Est Side e cura mostre collettive di giovani artisti. Per Nada ha presentato un magnifico solo booth con il lavoro di Nicholas Moenich, riproducendo un ambiente che sembra anche qui essere domestico, con pareti colorate e pavimento di moquette.
Per continuità mi sono soffermata sull’esponente della tendenza Outsider anche a Nada: Shrine Gallery. Shrine è in un piccolo spazio nell’Est Broadway/China Town in Manhattan. Il gallerista Scott Ogden ha allestito un piccolo spazio con le opere del fotografo anarchico Miroslav Tichý. C’e’ ovviamente tutta la morbosità veyoristica da ingoiare guardando la selezione di fotografie scattate a soggetti (in prevalenza di donne) del tutto ignari, con macchine in cartone autoprodotte, ma appartenendo a una generazione non particolarmente sensibile al tema, io ne vedo solo la straordinaria bellezza.
Sulla strada di casa ripenso a quanto la gallerista migrata a Buswick avesse torto nel pensare che tutto l’utile per il sistema delle gallerie succeda alle fiere.
Se non fossi andata all’inaugurazione di Eva Presenhuber, non avrei avuto il piacere di gustarmi un po’ di quel sapore di casa che la vecchia scuola nordeuropea mi da, con dealers in completi scuri, collezionisti tedeschi e le opere algide del Gerwald Rockenschaub. Oppure, una settimana prima da Anton Kern non avrei visto Katherine Bradford camminare per la stanza e abbracciare Chris Martin e sentirla prenderlo in giro per le quantità di foto in cui stava posando. O non avrei potuto incontrare Patty Smith all’opening di Cy Tombly da Gagosian e dirle quanto il suo libro, Just kids, mi abbia fatto riflettere su com’e’ facile perdere lo scopo ultimo del percorso spesso duro e doloroso dell’arte.
C’e’ bisogno di un luogo dove incontrarsi.
C’e’ bisogno di dialogo.
C’e’ bisogno avere un clan.
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“Ms. Smith I just finished your book, Just kids, and I enjoyed it very much. It was a great exercise on remembering how easy one can lose the point in the race of being an artist…”
“…it’s true, it very easy to lose the point here… what is your name?”
“Paola Gallio, nice to meet you, Ms. Smith.”
“Thank you for reading my book, Paola and enjoy the show.”