ATP DIARY

Il limite Merlin James

[nemus_slider id=”66258″] — Testo Luca Bertolo e Sofia Silva, maggio 2017 Milano, aprile 2017, galleria Raucci/Santamaria. Mi aggiro per la mostra di Merlin James osservando i suoi quadri astratti. Astratti? Più o meno astratti. Alcuni appariranno sicuramente ostici anche a un pubblico colto e sensibile. Sono opere che sembrano sfidare lo sguardo e la parola. Una […]

[nemus_slider id=”66258″]

Testo Luca Bertolo e Sofia Silva, maggio 2017

Milano, aprile 2017, galleria Raucci/Santamaria. Mi aggiro per la mostra di Merlin James osservando i suoi quadri astratti. Astratti? Più o meno astratti. Alcuni appariranno sicuramente ostici anche a un pubblico colto e sensibile. Sono opere che sembrano sfidare lo sguardo e la parola. Una sfida paradigmatica, che può dare indicazioni sul valore che la (buona) pittura continua ad avere oggi.

Lanciate le prime ammirate occhiate ai quadri della mostra, si presentano alcuni interrogativi. Poiché credo che l’opera viva in una solitudine sacra e splendente, indipendente dal luogo dove è esposta, mi domando: sarei in grado di riconoscere la grandezza di questi quadri in un contesto misto, caotico (la parete di un ristorante)? Secondo alcuni i quadri di Merlin James sembrano provenire dalla metà del secolo scorso. La sua pittura mette sempre in scacco l’idea di contemporaneità, l’amplifica e l’assottiglia, la raffina. La sua pittura mette in scacco anche il nostro occhio, cioè il nostro cervello, la nostra cultura visiva. Mi domando: fino a che punto può spingersi Merlin James? C’è limite a Merlin James? Esiste una soglia oltre cui Merlin James diviene quello che il pubblico sprovvisto di un occhio educato alla pittura (la stragrande maggioranza) pensa che lui sia, ovvero un passatista? E soprattutto ha senso applicare un criterio storiografico a queste opere?

Chiamiamolo dunque il limite Merlin James: potrebbe diventare un concetto utile per l’analisi della pittura contemporanea in generale. Questa mostra è sufficiente per farsi un’idea dell’approccio del nostro autorevole collega gallese-scozzese, nato a Cardiff nel 1960. Un approccio che in prima battuta definiremmo generoso e coraggioso, perché capace di comprendere in sé la diversità, sia sul piano stilistico – ci sono tanti modi quante sono le opere – sia sul piano temporale – le opere esposte sono state realizzate nell’arco di più di vent’anni – senza scomporsi più di tanto. In altre parole, un artista che ha saputo mettere felicemente da parte le ansie legate alla riconoscibilità delle proprie opere.

Il visitatore farà un po’ d’ordine: sceglierà le quattro tele più “tradizionalmente” astratte e se ne farà una ragione. Sono diverse tra loro e due – quelle più pelose – abbastanza ostiche, ma il visitatore dotato di un’infarinatura di modernismo riuscirà ad accettarle e a goderle. Le accetta, anche se con un pizzico di fastidio: gli sembra che qualcosa di simile fosse già stato realizzato una sessantina di anni fa da qualcuno di cui ora non ricorda il nome… Ora consideriamo il bel quadro a base di azzurri verdastri e verdi azzurrastri, intitolato “Bridge”: sembrerebbe una conseguenza anni Trenta di certi paesaggi stilizzati di David Bomberg, Ben Nicholson o ancor meglio Winnifred Nicholson[1]. MJ ha dipinto questa tela nel 1998. Mentre facciamo due calcoli, l’occhio saltella impaziente sul quadro immediatamente a destra, “House on a Hill” (2010). Si tratta di un quadro-rilievo, un retro a prima vista. In altre parole, si vede quello che in genere sta dietro alla tela: il telaio. Questo telaio – incorniciato, sagomato e dipinto – diventa la struttura geometrica dell’opera, esattamente come succede in “Little white house” (2011), appeso poco più avanti. In entrambi i casi l’artista ha costruito un secondo livello visivo, tendendo sul telaio una stoffa/pellicola semitrasparente su cui ha poi applicato altra pittura[2]. Il visitatore viveur ricorderà gli immensi quadri traslucidi di Sigmar Polke, ammirati in qualche grande kermesse, e in effetti ci sono parecchie similitudini, almeno di principio. Una differenza importante riguarda il formato: il quadretto di MJ evidentemente non aspira ad alcuno slancio neo-sublime. Inoltre, sulla pellicola semitrasparente violacea è dipinta una collinetta (terro)senese con tanto di casetta e cipresso fanciullesco. Siamo nel kitsch puro e semplice? Evidentemente no, c’è troppa consapevolezza da parte dell’artista. Si tratta di ironia sul kitsch? Nemmeno, ci sono troppo abbandono e troppa dolcezza. In quale luogo semantico ci troviamo dunque? Assorti in tali squisitezze interpretative, giriamo l’angolo e ci imbattiamo in… una marina. Proprio così, una marina: la spiaggia, le onde, il cielo… Il tutto dipinto con un realismo, diciamo, pre-avanguardie storiche; una marina che probabilmente sarebbe sembrata tradizionale già a Carrà o a Morandi. Anche il pittore-collega-fiancheggiatore, si trova in difficoltà davanti a questa marina dai toni grigiastri intitolata “Kee” (2004/2005), è bella ma… Lo pseudo-connoisseur (quello molto updated ma scarsamente autonomo nel giudizio) rimane interdetto: si era appena convinto che Merlin James fosse un pittore interessante perché un po’ concettuale (vedi i retri di cui si è detto sopra) – ed ecco che quello ti scodella una marina tutta piena di particolari spumeggianti e increspature sabbiose, un quadro che ricorda più Stanley Spencer che non Michael Krebber[3]Il limite Merlin James, si diceva. Una bellezza un po’ difficile da digerire.

Merlin James “Cliffs” 1998/2017 – Acrylic on canvas and horse hair – 36x43 cm - C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan –  Photo: Andrea Rossetti, Milan
Merlin James “Cliffs” 1998/2017 – Acrylic on canvas and horse hair – 36×43 cm – C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan – Photo: Andrea Rossetti, Milan

Eccomi ora di fronte a “Water Tank” (2005/2017), il dipinto dal vello verde. Ammirandolo da lontano non m’accorgo che nel centro è incollato un mucchietto di peli. Ora, ci sono vari tipi di pensiero che vengono attivati da un dipinto, pensieri che in genere viaggiano parallelamente nella nostra in/coscienza. Valuto i cromatismi dell’opera: colori caldi, simili a quelli impiegati in alcuni borghi d’Italia per gli intonaci delle case. I puntini che giacciono solitari ai lati della composizione possono essere spiritelli protettori della cinta muraria (pensiero figurativo), ma anche meri attivatori cromatici (pensiero astratto). Avvicinandomi all’opera, noto i peli. Penso: “Ecco, Merlin James si è strappato i peli dal braccio!”. Seguono divagazioni sul sacrificio. Mi ricompongo. No, i peli probabilmente non sono suoi. In ogni caso, quei peli mimetizzati e incrostati di pittura mi repellono. Penso agli orifizi umani, all’abietto… Che l’artista abbia voluto mostrare l’orrido pozzo nero della pittura? Lo scarico fognario all’interno di un’idilliaca cornice dalle cromie toscane… Si avvicina una signorina: “I peli sono crini di cavallo”. Ahh..!   Subito riparte la catena delle associazioni, la parte per il tutto, Ceci n’est pas un cheval.. Ma no, continuo ad aggrapparmi a un pensiero extrapittorico, quando forse il quadro vorrebbe da me che lo guardassi… Mi spoglio di tutto; anzi, mi tolgo la giacca, sudo. Ecco il mio braccio di fronte al dipinto, rosa contro rosa, pelo contro pelo. M’illumino per qualche secondo, capisco e subito dimentico quel che ho capito.

Qualche settimana fa un collezionista m’incalzava: “Ma dunque tu credi che solamente la pittura abbia valore? Credi solo nella pittura?” Indugiavo a rispondere. Alla fine gli ho detto che credo nella dedizione a un mondo; che la pittura, come il jazz o la lingua russa, non è uno strumento per perseguire un fine, ma è un mondo in cui vivere… Senza accorgermene, stavo citando una lecture di Merlin James intitolata “Painting per se” che anni addietro mi aveva rinfrescato il cuore. Credo che valga la pena riportarne un intero paragrafo:

“Titolando la conferenza “Painting per se”, ho inteso evocare un’idea di pittura come specializzazione. Intendo parlare di specificità del medium; se non fosse che persino la parola ‘medium’ è un termine inadeguato a significare che questo è un linguaggio che porta con sé un messaggio autonomo. Vorrei piuttosto proporre la pittura come un mondo di materia che punta a se stessa, certamente senza che questo implichi un divorzio dalle altre realtà che la circondano e dal dialogo con gli altri media; ma ecco, senz’ombra di dubbio, la pittura come una realtà con la sua propria cultura, la sua storia, tradizione, le sue convenzioni e i suoi generi. Nei suoi modi propri. Nei suoi propri modi di essere. Sto cercando d’identificare ciò che il poeta francese Péguy avrebbe chiamato mystique della pittura, intendendo la natura che la anima dall’interno, contrapposta alla politique, la sua amministrazione, l’uso che la società ne fa, la sua funzione nel mercato e nella rete di relazioni di potere del mondo dell’arte”.

Questo discorso è valido per tutte le altre branche dell’arte, prosegue MJ, come la scultura, la fotografia, il video etc.; e conclude la lecture parlando d’iniziazione, di un qualcosa che si può capire a proposito della pittura solo dopo che di quel mondo si conoscano, se non i segreti e gli intelletti, almeno le convenzioni. E qui, probabilmente, MJ si riferisce anche alla critica…

Già, ma come si fa oggi a scrivere di un quadro? La consapevolezza politica e concettuale[4] che il nostro sguardo ha acquisito da un Friedler o un Riegl o un Wölfflin[5] a oggi; la petulante noncuranza dell’artista postduchampiano; il rumore di fondo del kitsch pop-capitalistico; le crisi prodotte dalle avanguardie e le convalescenze che ne sono seguite; tutte le paia di jeans che ci uniscono a Pollock e separano da Monet … tutto questo sembrerebbe minare in partenza ogni onesto tentativo di ripartire da un’analisi formale e dunque estetica dell’opera[6]. Come si fa a ripartire dalla “pura forma” di un’opera se, come Arthur Danto ha dimostrato, questa forma-chimera non sta nemmeno là dove appare? Davanti a una tale impasse (e ai tagli alla spesa per la cultura) la critica si è sciolta come neve al sole. Che fare? Una soluzione paradossale, almeno nel caso della pittura, potrebbe essere quella del come se: analizzare l’opera che si ha di fronte come se fosse tutta lì. Sarà un compromesso, ma è pur sempre meglio dell’infernale banalità del discorso “culturalizzato” di seconda mano, quello che, incapace di guardare e stupirsi, bruca concetti à la page (simulacro, postmediale, negoziare, postfordista…).

Merlin James: “Dark” 1993/2017 – Acrylic on canvas – 81x71 cm - C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan –  Photo: Andrea Rossetti, Milan
Merlin James: “Dark” 1993/2017 – Acrylic on canvas – 81×71 cm – C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan – Photo: Andrea Rossetti, Milan

La pittura, come la poesia (a differenza di molta arte di derivazione concettuale) oppone una naturale resistenza ad ogni discorso su di essa. Il giornalista ansioso di “coprire” in fretta l’evento vede in questa resistenza, in questo obbligo a rallentare, solo un fastidioso svantaggio; eppure è lì, sul terreno del tempo, che l’arte gioca una delle sue partite decisive.
La verità è che un dipinto può essere detto o scritto solo dipingendone un altro. Il testo critico dove si descriva un dipinto deve provare a riportarne ritmo, cromatismo, dimensioni e – perché no – anche emozioni, facendo uso di un lessico, un periodare, figure retoriche e scarti semantici che ne sappiano riflettere essenza e dettagli. Per raccontare l’anima figurativa di “Dark” (1993/2017), per esempio, un notturno illuminato da un grasso lettering rosa, proviamo a evitare la lettura del quadro come rebus, lasciamo da parte le architetture e il lettering. Non ci sono case, né lettere, bensì macchie di luce e ombra, macchie di colore. Confrontiamo il torrione che scaturisce dal contrasto della macchia chiara con quella scura con altri contrasti da cui, nel corso della storia della pittura, sono scaturiti altri oggetti – vasi, muri, fiori, nasi, fucili… La figurazione è un registro che orienta il nostro guardare, un registro attivato un po’ dall’intenzione del pittore e un po’ dal caso; anche la fantasia di chi guarda può attivarlo (“guarda quella nuvola, sembra un elefante!”), persino il desiderio (ma cosa mai potrà desiderare una macchia?).

Dipingere è un esercizio di libertà; la libertà è il traguardo di ogni pittore, come ci dimostra la meravigliosa produzione del tardo Picasso. Nel Paradiso pittorico, la Candida Rosa è il cielo della libertà, sotto cui stanno i cieli dell’intelligenza, dell’inventiva, del talento, della conoscenza… A prima vista può apparire strano, se non paradossale, che la libertà un artista se la debba conquistare. “Ma scusa, non puoi fare tutto quello che vuoi? Chi te lo vieta?”. Ecco l’inghippo: libertà in arte, non è fare ciò che si vuole, ma scoprire di volere ciò che si è fatto. Fare senza sapere esattamente cosa, buttarsi; e poi scegliere. MJ sembra dimostrarlo meglio di tanti altri, pur bravi, pittori. Strato dopo strato, scelta dopo scelta, caso dopo caso. Guardateli di sbieco i suoi quadri, oltre che frontalmente…

Nella pittura di un quadro, come nella scrittura di un testo letterario o di critica, è la forma a definire la qualità del contenuto; il come del dipingere è già parte del cosa. Ed eccoci arrivati a un punto decisivo: un buon quadro non è mai un’immagine; è piuttosto un oggetto che flirta con un’immagine, senza mai coincidere con essa. Da questo rapporto instabile e vibrante scaturisce la nostra meraviglia. Cosa guardiamo, in fondo, quando guardiamo un quadro? Ogni sfida seria per l’occhio è una sfida di più ampia portata. Smarriti nell’attuale selva di banalità, può capitare di perdersi d’animo e disperare di uscirne. Merlin James, come ogni grande artista, ci mostra una via.

Merlin James “Water Tank” 2005/2017 – Acrylic on canvas and horse hair – 35x46 cm - C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan
Merlin James “Water Tank” 2005/2017 – Acrylic on canvas and horse hair – 35×46 cm – C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan
Merlin James “House on a Hill” 2010 – Acrylic and mixed media – 42x58 cm C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan –  Photo: Andrea Rossetti, Milan
Merlin James “House on a Hill” 2010 – Acrylic and mixed media – 42×58 cm C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan – Photo: Andrea Rossetti, Milan
Merlin James “Little White House” 2011 – Acrylic and mixed media – 57x70 cm - C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan –  Photo: Andrea Rossetti, Milan
Merlin James “Little White House” 2011 – Acrylic and mixed media – 57×70 cm – C.sy Galleria Raucci/Santamaria Naples/Milan – Photo: Andrea Rossetti, Milan

[1] David Bomberg (Birmingam, 1890 – Londra, 1957). Ben Nicholson (Denham, 1894 – Londra, 1982). Winifred Nicholson[a] (Oxford, 1893 – Carlisle, 1981). Pittori britannici, considerati classici del ‘900 britannico, molto considerati dalle ultimissime generazioni di pittori.
[2] He doesn’t pull back the canvas to simply show you that there is a strecher behind it, which is to say he doesn’t come across as a teacher who understimates the intelligence of his audience. [John Yau, What Does It Mean to Be a Grown-Up Painter? www.hyperallergic.com
[3] Stanley Spencer (Cookham, 1891 – Cliveden, 1959) – pittore inglese, cfr. nota 1. Michael Krebber (Colonia, 1954), tra i migliori artisti che applicano un approccio concettuale alla pittura.
[4] Concettuale nell’accezione in cui si usa per arte concettuale.
[5] Konrad Friedler (Dresda, 1841-Monaco, 1895), Heinrich Wölfflin (Winterthur, 1864 – Zurigo, 1945), Alois Riegl (Linz,1858 – Vienna, 1905). Storici dell’arte e teorici che hanno dato contributi fondamentali per l’analisi formale delle opere.
[6] Già la parola “opera” è fuori moda: “lavoro”, “progetto” piacciono molto di più, forse perché sembrano indicare meglio lo stato in divenire, non fissato di un’opera d’arte tipicamente contemporanea: non categorizzabile e dunque tendenzialmente non giudicabile.