Unfinished: Thoughts Left Visible MET Breuer di New York This exhibition addresses a subject critical to artistic practice: the question of when a work of art is finished. Beginning with the Renaissance masters, this scholarly and innovative exhibition examines the term “unfinished” in its broadest possible sense, including works left incomplete by their makers, which […]
Unfinished: Thoughts Left Visible MET Breuer di New York
This exhibition addresses a subject critical to artistic practice: the question of when a work of art is finished. Beginning with the Renaissance masters, this scholarly and innovative exhibition examines the term “unfinished” in its broadest possible sense, including works left incomplete by their makers, which often give insight into the process of their creation, but also those that partake of a non finito—intentionally unfinished—aesthetic that embraces the unresolved and open-ended. Some of history’s greatest artists explored such an aesthetic, among them Titian, Rembrandt, Turner, and Cézanne.
The unfinished has been taken in entirely new directions by modern and contemporary artists, among them Janine Antoni, Lygia Clark, Jackson Pollock, and Robert Rauschenberg, who alternately blurred the distinction between making and un-making, extended the boundaries of art into both space and time, and recruited viewers to complete the objects they had begun.
Comprising 197 works dating from the Renaissance to the present—approximately 40 percent of which are drawn from the Museum’s own collection, enhanced by major national and international loans—this exhibition demonstrates The Met’s unique capacity to mine its rich collection and scholarly resources to present modern and contemporary art within a deep historical context.
La mostra presenta un’ampia ricognizione della scena artistica italiana degli anni ‘70, un decennio in cui la cultura “eccede” al di fuori del campo dell’estetica, sconfinando in linguaggi che resistono alla catalogazione e in pratiche effimere e azioni legate alla performatività sociale e basate sulla temporalità.
“Sono gli anni in cui una parte della Biennale di Venezia (edizione ‘72) – afferma Scotini – è dedicata al ‘Libro come luogo di ricerca’ e in cui si impone il termine ‘Off media’, proposto da Germano Celant. Per questo abbiamo voluto inserire oltre alle opere d’arte in senso classico anche fotoreportage, partiture musicali, progetti di architettura radicale, forme del cinema, ecc. Ma l’eccedenza a cui facciamo riferimento è quella dell’emersione della creatività sociale, del general intellect , in sostanza. Quest’aspirazione ad uscire dai ranghi e dai generi in rapporto ad un desiderio (questo sì) inarchiviabile; ciò si potrebbe sintetizzare in quello spazio compreso tra il sovversivo ‘Vogliamo Tutto’ di Nanni Balestrini e il ‘Tutto’ metafisico di Anselmo”.
L’”inarchiviabile” fa riferimento all’affiorare di diverse forze sociali plurali contro l’organizzazione e il controllo del lavoro, pratiche affermative dall’approccio multidisciplinare che caratterizzano gli anni 70 in Italia, così come alle nuove istanze di liberazione legate alle esperienze del femminismo, alle questioni di genere e al rapporto con il politico.
Se ciò che diviene storia è sempre determinato da quello che è stato archiviato, al tempo stesso l’archivio riattiva narrative che non sono mai raccontate una volta per tutte, e anche la memoria diventa così continuamente revocabile in un’epoca in cui il tempo è l’oggetto di espropriazione.
In dialogo continuo tra paradigma artistico e produzioni editoriali le opere e i documenti in mostra trovano le proprie condizioni di apparizione e di esistenza in questa impossibilità – o riluttanza – all’archiviazione. Così L’Inarchiviabile/The Unarchivable mette in scena l’attualità e la riscoperta di un de cennio di grande intensità e di sperimentazione linguistica e politica per la scena italiana e internazionale, ma anche una riflessione sulla contemporaneità dell’archivio come formato: sono già tutte le opere in esposizione, del decennio dei 70, ad avere la forma dell’atlante, del catalogo, dell’inventario e rappresentano già di per sé stesse delle collezioni, delle tassonomie, dei tentativi di catalogazione da parte degli artisti. Dalle classificazioni di Alighiero Boetti alle sequenze di numeri di Fibonacci di Mario Merz a La Doublure di Paolini, una collezione di tele bianche che rappresentano sé stesse in prospettiva e differiscono solo per il titolo al retro. Oppure l’Atlante di Ghirri del ’73, l’archivio di Zona di Nannucci o i Leftover di Baruchello fino all’archivio di Linguaggio è Guerra di Mauri , alle raccolte di fototessere di Franco Vaccari, ai cataloghi filmici e profumati di Gianikian e Ricci Lucchi, agli assemblaggi testuali di Nanni Balestrini.
Se negli stessi anni la radicalità del femminismo italiano portava Carla Lonzi ad abbandonare la critica d’arte, perché è “con la sua assenza che la donna compie un gesto di presa di coscienza, liberatorio, dunque creativo”, molto ampia è la presenza femminile in mostra: da Carla Accardi a Dadamaino, da Marisa Merz a Maria Lai, dalle fotografie di Marcella Campagnano e Lisetta Carmi, fino all’inventario pre-verbale di Ketty La Rocca.
L’Inarchiviabile/The Unarchivable è un concentrato di queste esperienze che arriva fino al Parco Lambro del ’77 quale affermazione della moltitudine e di una pluralità di insorgenze molecolari, costitutivamente inarchiviabili. Alberto Grifi non riesce a chiudere in un film compiuto il girato dell’evento del Festival del Proletariato Giovanile al Lambro, producendo un lavoro che non è un film, ma molti film allo stesso tempo, una molteplicità di girati