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L’arte trans-mediale di Sadie Benning

[nemus_slider id=”59681″] Testo di Costanza Sartoris Fino al 5 novembre, alla galleria Kaufmann Repetto, si potrà visitare  la personale “Excuse Me Ma’am” di Sadie Benning. L’artista presenta una serie di opere a parete che a prima vista potrebbero sembrare quadri, eppure, solo avvicinandosi alle apparenti tele, si comprende come il lavoro di Benning trascenda la […]

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Testo di Costanza Sartoris

Fino al 5 novembre, alla galleria Kaufmann Repetto, si potrà visitare  la personale “Excuse Me Ma’am” di Sadie Benning.

L’artista presenta una serie di opere a parete che a prima vista potrebbero sembrare quadri, eppure, solo avvicinandosi alle apparenti tele, si comprende come il lavoro di Benning trascenda la pittura canonica per diventare altro. Con un titolo ironico, “Excuse Me Ma’am” è un’esposizione volontariamente ambigua che spinge lo spettatore a interrogarsi su cosa si trovi a osservare. Difatti, l’espressione americana Excuse me Ma’am è utilizzata solitamente per rivolgersi a signore di cui non si conosce né il nome, né l’età, né, può capitare, il sesso; dunque, onde evitare di risulare scortesi, ci si rivolge loro come se si stesse parlando con la Regina Elisabetta in persona.

Benning, dichiarata artista transgender americana, gioca così con la materia delle sue opere mostrando allo spettatore qualcosa dai tratti famigliari, da cui traspare però una certa alterità. La sua poetica risulta incentrata sullo sviluppo materico e temporale delle opere, che, percepite alla stregua di un corpo, si trasformano diventando un ibrido di difficile identificazione. Non è infatti un caso che Benning utilizzi, combinandoli spesso tra loro, i media più svariati: dal video alla musica, dalla fotografia al disegno e alla pittura, per giungere infine a una sorta di scultura.
Sebbene sia nata e diventata celebre come film maker, la sua ricerca la porta ora verso un approccio più plastico e materico. Osservando da vicino le sue opere, appare chiaro che quella che da lontano poteva apparire come una semplice pittura, nasconda in sé un lavoro molto più complesso e stratificato. Il disegno e il colore steso in campiture omogenee si mescolano con la fotografia in una sorta di mosaico a bassorilievo, occupando in modo totalmente innovativo lo spazio canonico della tela. Se a prima vista l’immagine appare come bidimensionale, da vicino l’opera acquista spessore svelando un’incredibile mescolanza di tecniche: il lavoro nasce infatti come un disegno abbozzato che viene poi frazionato e ricreato con uno speciale tipo di legno che, una volta modellato secondo le linee iniziali, viene colorato e applicato su un pannello ricostruendo il disegno primario alla stregua di un mosaico. La tecnica risulta estremamente elaborata e presenta dei lunghi tempi di preparazione che ricordano il video editing.

Esemplificativa è l’opera Sun, Soundwaves: dettagli che paiono schizzi di colore su una tela, con uno stile a metà strada tra il graffitismo di Basquiat e i tratti più morbidi di Haring, si presentano in colori vivaci seducendo lo sguardo di chi la osserva. Avvicinandosi, emerge poi la plasticità dei piccoli pezzi a mosaico che la compongono: il materiale con sui sono fatti è misterioso e fa venire voglia di toccarlo perché ricorda il pongo o la ceramica.
L’ambiguità sembra essere il fil rouge che emerge da queste opere. Questa è accentuata nei lavori dove Benning presenta i disegni a matita dei suoi taccuini fotografati e ingranditi. I soggetti sono sempre transgender le cui identità maschile e femminile si mescolano in un immaginario giocoso e innocente. I disegni sono costituiti da tratti semplici, quasi infantili, e presentano un taglio da vignetta umoristica. I trans abbozzati da Benning svelano la serenità con cui si dovrebbe affrontare e accettare la propria sessualità, senza lasciarsi influenzare dal giudizio esterno. I seni e il regisseno, forse gli indumenti più caratterizzanti della femminilità, diventano una sorta di ironica armatura che adorna i corpi di questi personaggi, aprendo lo sguardo verso nuovi modi di vedere e sentire il proprio corpo. Si capisce così come l’identità sia per Benning qualcosa di fluido e impalpabile alla quale non si può dare una connotazione univoca e che va quindi ricercata e compresa nelle sue innumerevoli sfaccettature.

Quest’idea del vedere e del vedersi, emerge in modo diverso e ancora più stratificato nell’opera Double Exposer,  dove il gioco fotografico della doppia esposizione sulla stessa pellicola è riproposto in un sovrapporsi di immagini pittoriche e fotografiche. Nell’opera dialogano infatti tre figure apparentemente femminili: chi esse siano e che rapporti esistano tra loro non ci è dato di sapere, eppure la visione che Benning è stata in grado di creare sembra evocare una storia già sentita.
Ancora una volta l’artista sembra voler chiamare lo spettatore a entrare nella sua opera chiedendogli cosa vede e cosa vuole vedere. L’idea di utilizzare i media come un corpo, come una materia di mezzo, ci avvicina così a una trans-medialità, un medium capace di aprirci verso qualcosa di altro, di diverso, per metterci di fronte al difficile compito della responsabilità. Di fronte a ciò che non è definibile serve infatti mettersi in gioco e non accontentarsi mai di conoscere la mera superficie delle cose.

Sadie Benning Bra Person 2,   2016 medite,   aqua resin,   casein and acrylic 149.86 × 101.6 cm 59 x 40 in courtesy of the artist and kaufmann repetto,   Milan/New York photo credit: Chris Austin
Sadie Benning Bra Person 2, 2016 medite, aqua resin, casein and acrylic 149.86 × 101.6 cm 59 x 40 in courtesy of the artist and kaufmann repetto, Milan/New York photo credit: Chris Austin
Sadie Benning AMO,   2016 medite,   aqua resin,   casein and acrylic 170.18 × 124.46 cm 67 x 49 in courtesy of the artist and kaufmann repetto,   Milan/New York photo credit Chris Austin
Sadie Benning AMO, 2016 medite, aqua resin, casein and acrylic 170.18 × 124.46 cm 67 x 49 in courtesy of the artist and kaufmann repetto, Milan/New York photo credit Chris Austin