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If I were you, I’d call me U | Galleria Massimo De Luca

[nemus_slider id=”55790″] La curatrice Elena Forin e l’artista Elisa Strinna hanno dato luce al progetto If I were you, I’d call me Us alla galleria Massimo De Luca. Questa ora in corso è la prima tappa del percorso espositivo, che vede in mostra i lavori di sette artisti diversi, italiani e non, tra cui la […]

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La curatrice Elena Forin e l’artista Elisa Strinna hanno dato luce al progetto If I were you, I’d call me Us alla galleria Massimo De Luca. Questa ora in corso è la prima tappa del percorso espositivo, che vede in mostra i lavori di sette artisti diversi, italiani e non, tra cui la stessa Strinna: Ludovica Carbotta, Giovanni Giaretta, Shadi Harouni, Jakob & Manila, Kiyoto Koseki, Manuel Scano e Elisa Strinna.

Si tratta di uscire da forme di pensiero, di visione e di comportamento prestabilite: le opere sono state scelte con l’intento di oltrepassare il filo sottile che separa l’immaginario individuale da quello collettivo, lo spazio privato da quello sociale, il mondo naturale da quello umano, ricreando una sorta di sistema aperto, in cui le categorie si mescolano e affiorano relazioni sommerse. A emergere in ciascuno dei lavori proposti è il valore fortissimo dell’immaginario che si declina di opera in opera in maniera sempre diversa grazie anche alle azioni da cui queste sono scaturite”.

ATPdiary ha fatto alcune domande alle curatrici.

ATP: Partiamo dal titolo, “If I were you, I’d call me Us”, mutuato da una poesia di Ogden Nash. Come avete scoperto questo poeta americano e cosa vi ha colpito di questo suo componimento?

Elisa: ho scoperto la poesia tramite uno degli artisti coinvolti nella mostra, Kiyoto Koseki, che ho conosciuto l’estate scorsa durante SOMA Summer a Mexico City. Kiyoto verso la fine del corso aveva organizzato Sobre la presentación/On presentation,  Centro Cultural Universitario Tlatelolco nel D.F. L’evento consisteva in un pomeriggio dove alcuni di noi erano stati invitati a formulare un intervento performativo in una sala conferenze molto particolare. Io non sono riuscita a partecipare, ma la cosa mi aveva colpito: uno scambio concreto tra artisti che condividevano un’esperienza di studio. In un certo senso la mostra nasce proprio con questo spirito. Così durante la preparazione di “If I were you I’d call me Us” abbiamo continuato a confrontarci, scambiandoci idee e fonti: tra queste c’è anche il testo che A. Laurie Palmer ha scritto per una conferenza del 1996 alla Illinois State University e che riprende la poesia. Così Elena ed io abbiamo scoperto Nash e il suo mondo, e abbiamo anche scelto il titolo per il nostro progetto. Ci sembrava un buon punto di partenza per evocare una riflessione su varie modalità di agire l’arte come strumento collettivo per costruire nuovi immaginari possibili.

ATP: Una curatrice e un’artista, Elisa Strinna ed Elena Forin. Ovviamente due punti di vista diversi che rispecchiano i rispettivi ruoli. Insieme nelle vesti di curatrici. Su che premesse è partito il dialogo tra di voi, sfociato poi nella mostra alla galleria Massimodeluca? 

Elena: la premessa è stata una mostra del 2015, Flags, alla Serra dei Giardini di Venezia: avevo invitato Elisa e altri 6 artisti (Ivan Barlafante, Fabrizio Cotognini, Rä di Martino, Ruben Montini, David Rickard e Alessandro Sambini) a confrontarsi con un’opera indimenticabile di Fabio Mauri, La Resa.

L’obiettivo era quello di costruire attraverso le opere e le poetiche degli artisti coinvolti alcuni possibili percorsi alternativi a visioni comunemente accettate perché, quando le costruzioni del mondo si costruiscono come entità ferree (diceva Mauri nello statement che accompagna il lavoro) finiscono per erigere “edifici immotivati”. Si tratta di un messaggio che oggi è estremamente attuale: credo infatti che in questo momento storico, piuttosto che focalizzarsi su verità ritenute certe e indivisibili, sia più utile cercare di mettere in campo sguardi, strategie e comportamenti diversi nei confronti del reale e delle logiche che regolano il pensiero e le opinioni. Elisa ed io da allora abbiamo iniziato un dialogo e un confronto che nei mesi si è arricchito sempre di più e che ha comportato lo scambio di testi, di portfoli di artisti, di commenti e discussioni su eventi che hanno contribuito a farci pensare al concetto di identità in maniera non monolitica ma collettiva. Da qui abbiamo pensato che sarebbe stato interessante strutturare un progetto in più tappe attraverso le quali indagare questo tema così vasto: la Massimodeluca ha subito manifestato interesse per questo percorso, che quindi da qui ha inizio.

If I were you,    I'd call me Us  2016 Veduta d'insieme / Exhibition view,   Galleria Massimodeluca
If I were you, I’d call me Us 2016 Veduta d’insieme / Exhibition view, Galleria Massimodeluca

ATP: Uno degli obbiettivi della mostra è far emergere “un potente valore di resistenza ai sistemi comunemente accettati”. Cosa si intende con “resistenza”? Mi fate degli esempi concreti, magari cintandomi dei lavori in mostra o dei processi che hanno dato vita a determinati lavori?

E+E Come dicevamo, si tratta di uscire da forme di pensiero, di visione e di comportamento prestabilite: le opere sono state scelte con l’intento di oltrepassare il filo sottile che separa l’immaginario individuale da quello collettivo, lo spazio privato da quello sociale, il mondo naturale da quello umano, ricreando una sorta di sistema aperto, in cui le categorie si mescolano e affiorano relazioni sommerse. A emergere in ciascuno dei lavori proposti è il valore fortissimo dell’immaginario che si declina di opera in opera in maniera sempre diversa grazie anche alle azioni da cui queste sono scaturite.

Ogni opera nasce da un incontro. L’incontro di Shadi Harouni con gli abitanti di una zona montagnosa del Kurdistan produce a un’inedita riflessione sulla storia di questo paese e sui conflitti in atto, quello di Ludovica Carbotta con Simone Menegoi innesca una diversa lettura delle opere di altri artisti, stimolando un approccio attivo nell’immaginario del singolo, mentre Jakob e Manila il 21 maggio incontrano il pubblico stesso, invitato a partecipare a un progetto per prendere coscienza dell’esistenza e dell’efficacia di forme alternative di comunicazione o di vita a cui siamo abituati. Il lavoro di Giovanni Giaretta è invece un incontro tra l’immaginario visivo dell’artista individuato nelle forme minerali e l’esperienza di persone affette di cecità, così come Kiyoto Koseki, si confronta con l’universo dei non udenti, in una performance che riflette sui limiti e sulla trasversalità del linguaggio. Mentre l’interazione dialettica di Manuel Scano con i materiali genera forme che si avvicinano a quelle del mondo biologico. Diversamente, il lavoro di Elisa, nasce dall’incontro con il Museo Comunitario della Valle di Xico, a Chalco, in Messico; dalla collezione di questo museo prende vita una narrazione che si esprime come un tentativo per riconoscere la dovuta importanza culturale a realtà emarginate dal colonialismo. Questi incontri, dove l’individualità dell’artista si mescola a quella collettiva, invitano a un rapporto attivo e dialettico con la realtà, e rappresentano secondo noi quel valore di resistenza di cui ci hai chiesto.

ATP: Come definire il ruolo dello spettatore in queste dinamiche di “resistenza”? Che ruolo ha e come lo esercita? 

E+E: Queste opere invitano lo spettatore ad attivare una personale relazione con il mondo esterno, invitando direttamente e indirettamente ad esercitare la propria creatività, nella speranza che questo possa essere un elemento importante per far intravedere l’ipotesi di un cambiamento possibile.

Ciascun lavoro induce ad un diverso stato di “meraviglia”: a quella forma originaria di stupore di cui Aristotele parla nella “Metafisica”, e ad allontanarci per un momento dall’oscenità del reale di cui parla Baudrillard. Dalle reazioni che abbiamo riscontrato finora possiamo dire che la concretezza che caratterizza sia la modalità di creazione dei lavori sia la loro fruizione ha stimolato in molti visitatori entrambi i percorsi che abbiamo auspicato, e, cosa davvero interessante, ha fatto scaturire tantissime domande sul presente e sul modo in cui percepiamo e agiamo il nostro tempo.

ATP: Sette artisti: Ludovica Carbotta, Giovanni Giaretta, Shadi Harouni, Jakob & Manila, Kiyoto Koseki, Manuel Scano e la stessa Elisa Strinna, nel ruolo di artista e curatrice. Con quale criterio avete scelto gli artisti?

Elena: Abbiamo pensato di ricostruire alcune delle relazioni che per Elisa sono state significative nel corso degli ultimi anni: la nostra prima di tutto, ma anche quelle maturate con alcuni degli artisti incontrati durante la sua formazione. A queste voci ne abbiamo volute aggiungere altre, come Jakob&Manila, che ci sembravano indispensabili non solo per indagare il tema della mostra, ma anche per allargare e lanciare verso il futuro una modalità di lavoro basata sullo scambio. Si tratta di collettivo che impiega forme di collaborazione con il pubblico, un tassello che riteniamo fondamentale per la nostra indagine.

ATP: In merito all’allestimento, rispetta delle forme di tensione/dialogo tra le opere?

E+E: Abbiamo pensato a un allestimento che potesse far emergere alcune delle connessioni che vi sono tra le opere. Si tratta di lavori molto diversi tra loro non solo a livello linguistico, ma anche metodologico e concettuale: il nesso alle volte è evidente, altre volte più celato perché affonda su radici concettuali. In ultima analisi possiamo forse dire che in alcuni casi abbiamo cercato di sottolineare il dialogo, e in altri la tensione tra i lavori in modo da creare un ritmo espositivo variabile, non costante.

Shadi Harouni,   The Lightest of Stones and the Heaviest of Men 2015 HD video,   TRT 15:55 Courtesy l’artista / the artist
Shadi Harouni, The Lightest of Stones and the Heaviest of Men 2015 HD video, TRT 15:55 Courtesy l’artista / the artist
Giovanni Giaretta  A thing among things 2015 Video Full HD,   7’13” courtesy l’artista
Giovanni Giaretta A thing among things 2015 Video Full HD, 7’13” courtesy l’artista