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Giovanni Anselmo al Castello di Rivoli | Intervista con Carolyn Christov-Bakargiev

[nemus_slider id=”55316″] — Non si inizia mai un articolo con non o, peggio ancora, con un’intera frase negativa; e suona male anche un’avversativa nelle prime righe. Ma la mostra di Giovanni Anselmo non è una mostra. Si tratta, in tutta sincerità, di un’esperienza. Perché sui grandi maestri, sui capitani di lungo corso, c’è tanto da dire, […]

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Non si inizia mai un articolo con non o, peggio ancora, con un’intera frase negativa; e suona male anche un’avversativa nelle prime righe. Ma la mostra di Giovanni Anselmo non è una mostra.

Si tratta, in tutta sincerità, di un’esperienza. Perché sui grandi maestri, sui capitani di lungo corso, c’è tanto da dire, ci sono aneddoti da ricordare, anche se spesso in realtà c’è poco da aggiungere che non sia già stato detto. Anselmo invece buca di nuovo lo schermo: spiazza subito lo spettatore, poi lo illude di poter ritrovare la via e ancora lo prende in contropiede. All’inizio sono quasi dei versi, nel titolo, in un misto tra un’invocazione alla Musa e le parole di un rituale: risuonano nella mente e la predispongono a un flusso cosmico, la innalzano a un livello di comprensione nuovo creando l’attesa di entrare nella Manica Lunga. C’è nell’aria il profumo di corpi celesti mentre lo spettatore incede verso un vuoto inaspettato, muto e solitario: i primi passi tra le opere di Anselmo lasciano un senso di disorientamento, manca quella confidenza con gli spazi attesi, il cui posto è riempito dall’assenza.

Le opere raggiungono equilibrio nella distanza a cui sono installate: alcune volte fissata in venti passi che accompagnano il sole oltre l’orizzonte, altre volte accorciata di una spanna  rispetto agli anni luce delle stelle più vicine.  La Manica Lunga è messa a nudo, ri-orientata e immersa nel bianco delle proprie pareti, grazie alle finestre così semplicemente aperte, così audacemente porte d’ingresso per una luce che passo dopo passo mette a fuoco i legami dei lavori dell’artista. Cento passi all’interno del Museo, verso occidente, attratti dalla forza di gravità delle opere: lo spettatore è satellite, è un’interferenza benaccetta che si muove tra forze a lui ignote, forse appena percepite, e in quella parentesi comprende d’esser parte di un tutto.

Curata da Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Beccaria, la personale di Giovanni Anselmo presso il Castello di Rivoli è aperta dal 06 aprile al 25 settembre 2016.

Di seguito l’intervista alla curatrice Carolyn Christov-Bakargiev.

ATP: Partiamo dai soggetti principali che ci portano in questa mostra: come è stata la collaborazione fra voi curatrici e l’artista?

Carolyn Christov-Bakargiev: Il mio incarico operativo qui a Rivoli è iniziato a gennaio, quando con Giovanni avevo appena finito di collaborare personalmente per la Biennale di Istanbul: in Turchia si è creato un ottimo rapporto, per cui non appena ci siamo ritrovati qui, abbiamo subito ingranato dal punto di vista del concepimento della mostra. A Marcella Beccaria devo un grande ringraziamento per il catalogo, che è prevalentemente frutto del suo lavoro, e per la sua esperienza coma capo-curatrice di Rivoli, consolidata da molti anni di servizio presso il Museo.  

ATP: Avvicinandoci alla mostra, il titolo, composto a sua volta da parti dei titoli delle opere di Anselmo, crea una frase che vuole raccontarci già qualcosa?

CCB: Sì, è una sorta di testo poetico dell’artista, che compone il senso delle opere che fanno parte di un’unica opera maggiore. La finalità di Giovanni Anselmo è farci vivere solo l’illusione di oggetti separati: prendendo come esempio noi stessi, potremmo pensare ci sia l’iPhone, la borsa, il cappotto, poi magari c’è un’altra persona.. Mentre in realtà tutto si coniuga in un flusso continuo, nel quale, come direbbe Bruno Latour, “questa è una mano telefonica”; ciò significa che viviamo come delle congiunzioni o degli assemblaggi, in un senso un po’ deleuziano di cose-persone-soggettività.

La generazione di artisti di Giovanni Anselmo, ovvero gli interpreti dell’arte povera, dell’arte concettuale, i minimalisti e post-minimalisti erano consapevoli di questo: Luciano Fabro lo chiamava habitat. Mentre oggi, a causa forse del digitale, c’è una tendenza a separare le cose: basti pensare a quel che ci sta accomunando pressoché tutti, come lo status online/offline, per comprendere un primo ostacolo a vedere la continuità dell’energia che in senso cosmico percorre tutto. Provenendo perciò da quella generazione, ricordata anche dal flower power o dalla lsd, è chiara una visione completamente diversa, nella quale le cose non sono mai sole ma sono sempre un insieme. Anselmo ha voluto ricordarcelo, riaffermando l’unicità dell’esperienza: un’intera passeggiata, quella all’interno della manica lunga, nella quale si fanno in direzione occidentale più o meno venti passi per andare da una foto all’altra; e che è la stessa distanza percorsa da Giovanni quando le scattava. Sono scatti eseguiti proprio a intervalli di venti passi, camminando verso il tramonto, che se inseriti in un flip-book mostrerebbero il sole scendere e la reale differenza tra una foto e l’altra. E’ anche una mostra controcorrente rispetto all’attuale pratica in cui tutti parlano di numero di visitatori, di grandi quantità di opere, della collezione o del museo più grandi. Si tratta di un universo da vedere in solitaria, una mostra che chiede pochi visitatori, quasi a dirci “Se sei solo qui dentro.. è molto meglio”.

Giovanni Anselmo,   Respiro (Breathing),   1969,   iron,   sea sponge - 2 elementi,   ciascuno / 2 elements,   13 x 470 x 6 cm each Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT on loan to Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea,   Rivoli-Torino - Foto Giorgio Nota,   Reporters
Giovanni Anselmo, Respiro (Breathing), 1969, iron, sea sponge – 2 elementi, ciascuno / 2 elements, 13 x 470 x 6 cm each Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT on loan to Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino – Foto Giorgio Nota, Reporters

ATP: Un invito a una positiva solitudine esplorativa che si contrappone, come si legge nel comunicato stampa, a un’epoca sovraccarica di immagini e prodotti..

CCB: Questa mostra si inscrive nell’epoca attuale e nel contesto intorno a noi, ma da questi si differenzia volutamente non parlando dell’era digitale: ci sono, ad esempio, le venti fotografie quasi identiche del sole che scende, oppure il fascio di luce che tramite un proiettore traccia la parola particolare. Si intuisce la distanza con altre “mostre”, quelle in cui il singolo proietta se stesso, il proprio io in tanti posti diversi: da solo, con amici, altre persone: tutti selfie; non c’è un selfie qui. Perciò, dicevo, si inserisce nell’attualità mantenendo una distinzione, senza polemica, presentandoci un altro universo, più cosmico e spirituale.

ATP: Si tratta forse allora di una critica costruttiva per mantenere vivo il dialogo con il passato e aprire un confronto con il presente?

CCB: I più grandi artisti del mondo sono consapevoli dell’epoca nella quale vivono. Ma spesso, si distinguono da essa: guardando al passato, quando nasce la società dei consumi Marcel Duchamp rovescia l’orinatoio; non ha mai detto che stava facendo una critica ad essa, ma ha però rovesciato l’orinatoio nell’epoca in cui comincia la produzione di massa di oggetti; quasi a lasciarti dire che il suo ready made ferma il flusso della produzione di massa degli oggetti industriali. Si può addirittura darne una lettura sociologica e sostenere che quest’azione appartenga al ciclo di vita dell’oggetto stesso: perché vi è prima un inizio, ovvero la catena di montaggio, e poi l’artista che lo rovescia rendendolo inutile; in questo senso allora sì c’è un dialogo con la propria epoca. E si può anche leggere come una critica ad essa. Pensiamo ancora a Giotto che disegna la persona tridimensionale nel momento in cui nascono i comuni, per criticare una certa rappresentazione del potere trascendente riconducibile all’immagine piatta dell’era bizantina: lo fa, pur non dicendo “adesso io mi metto contro i mosaici di Ravenna”.

ATP: L’idea che Anselmo agisca in un museo così grande e che lo spettatore debba quasi andare a cercarne le opere è molto differente dall’attuale tendenza di altri luoghi dedicati all’arte, tenuto anche conto del fiorire di tali nuove realtà quali spazi espositivi, gallerie..

CCB: Ci troviamo in un’epoca estremamente convenzionale dell’arte, un periodo simile alla seconda metà dell’ottocento, anch’esso convenzionale al massimo. E siccome l’arte è attualmente molto amata, non è più isolata in un piccolo gruppo. Ecco quindi che avviene come verso il 1850-1870, quando i salon con duemila quadri sono frequentati da tutti: l’élite va, la borghesia va, i ricchi vanno; cosa si fa? Si va alla mostra. Tornando a noi è infatti evidente che in questo momento l’arte abbia successo nella società: e quando ciò accade, di solito, ne escono artisti non molto bravi, perché sono quelli che fanno ciò che lo spettatore si aspetta di vedere; in altre parole sono convenzionali, banali, ripetitivi. Viceversa quando l’arte non ha molto successo nella società, e di conseguenza viene considerata poco importante, è lì che nascono le opere più forti e più belle. Preso ad esempio William Kentridge, che nasce nel Sudafrica durante il periodo di fine dell’apartheid, in quel frangente a Johannesburg non poteva fregare a nessuno dell’arte; e così lui ha inventato quello che ha inventato.

Io non sono contro l’arte, sono a favore di essa, come sono a favore del fatto che sempre più giovani siano interessati all’arte. Ma bisogna distinguere all’interno di questo mondo tra il convenzionale, che corrisponde al salon ottocentesco ed è il 90%, e quel 10% che forse non è neanche visibile o di successo, ma è fantastico. E’ una vita che vado a vedere artisti e studi in tutto il mondo, altrimenti come avrei potuto realizzare la Biennale di Istanbul o Documenta? Su Pierre Huyge, con cui lavoravo quindici anni fa, ho fatto il primo libro. E quindi continuo a fare questo, continuo a trovare artisti fantastici dappertutto, ma spesso non sono quelli che gironzolano nel mondo più ufficiale.

ATP: E questi li vedremo nelle prossime mostre?

CCB: Certo, anche in GAM, non solo qui. Continuamente. Però volevo cominciare il percorso di Rivoli con l’omaggio a un grande maestro, che non aveva mai fatto una mostra personale in un museo torinese, è pazzesco. Venne solo in galleria privata da Sperone, nel frattempo però ha fatto mostre nei musei di tutto il mondo e qui stranamente è la sua prima mostra personale in museo pubblico. Credo sia stato invitato in passato, forse non poteva; lasciamo un punto interrogativo, poiché non voglio dire che non sia stato invitato; certo è che non l’ha mai fatto. Ma quel che aggiungo è che fare una mostra di Giovanni Anselmo è un atto molto radicale perché bisogna mettersi in gioco sull’idea di liberare lo spazio, per cui il museo può correre il rischio di bloccarsi a pensare “Oddio, cosa dirà la stampa del vuoto? Che non abbiamo voluto spendere?”.

Giovanni Anselmo - Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea,   Rivoli - Foto  Renato Ghiazza - Installation view
Giovanni Anselmo – Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli – Foto Renato Ghiazza – Installation view
Giovanni Anselmo - Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea,   Rivoli - Foto  Renato Ghiazza - Installation view
Giovanni Anselmo – Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli – Foto Renato Ghiazza – Installation view