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La galleria Massimo De Carlo di Milano ha ospitato la mostra The Pagad: un’originale collettiva che raccoglie dei ‘tavoli’ concepiti da una lunga serie di artisti. Curato da Rita Selvaggio, il progetto mette in luce diversi e intriganti significati del concetto di tavolo. Nella lunga intervista che segue la curatrice racconta che ciò che le interessava maggiormente era “ capire come una serie di artisti contemporanei, tra i più interessanti sulla scena internazionale, avessero interprretato questo soggetto. Da un punto di vista sintattico, il display espositivo sottintende ad una sorta di “isteria” controllata che, originata da un meccanismo primordiale, possiede in sé una forza di metamorfosi e induce forme psichiche e variazioni di dinamiche inconsce.
” Sin dal titolo dal suono ‘arcaico’, la mostra si presenta come una labirintica struttura concettuale dove aspetti ludici si fondono con tagli più funzionali, dove sadismo, ironia e tranelli metaforici, diventano elementi importanti tanto quanto i materiali che ne veicolano i messaggi. Al centro, a sottolineare la relazione del display con le processioni dei Trionfi Rinascimentali, il tavolo di Rirkrit Tiravanija. “E’ un tavolo da ping pong che porta scritto al centro Demain est la question. Un interrogativo che in qualche modo richiama, in versione contemporanea, il ritornello della ballata di ottonari scritta nel 1490 da Lorenzo de’Medici e destinata ad accompagnare il Trionfo di Bacco e Arianna :–“…..chi vuol essere lieto sia / di doman non v’è certezza …”- Qui la forza gioiosa del canto è pacatamente velata da un soffio di malinconia dettato dall’incertezza del domani e dal fuggire del tempo. ”
ATP: Come è nata l’idea della mostra THE PAGAD, in particolare, come hai sviluppato la “costellazione di tavoli d’artista” esposti per questa occasione?
Rita Selvaggio: Tra gli oggetti d’arredo, il tavolo, come è stato opportunamente osservato da Andrea Branzi e Geert Bekaert, appartiene all’ordine dell’architettura, prima ancora che dello specifico del design: per i suoi contenuti simbolici che lo legano all’idea di un riparo elementare, per le attività che su di esso si possono svolgere e per i suoi requisiti di archetipo di una “struttura” primaria. Il tavolo è un oggetto senza tempo, è luogo d’incontro, comunione e scambio e, allo stesso tempo, è un piccolo edificio. I tavoli hanno un rapporto diretto e autonomo con lo spazio, sono un oggetto quasi mistico nella loro derivazione dall’altare. Non è un caso che Marcel Dubois abbia proposto una rilettura del tavolo partendo dal principio di “archetipo”, dove la necessaria presenza di un piano orizzontale ad altezza pressoché costante e di una struttura di sostegno dello stesso, ne hanno determinato una sorta di kern form originaria. Mi incuriosiva capire come una serie di artisti contemporanei, tra i più interessanti sulla scena internazionale, avessero interpretato questo soggetto. Da un punto di vista sintattico, il display espositivo sottintende ad una sorta di “isteria” controllata che, originata da un meccanismo primordiale, possiede in sé una forza di metamorfosi e induce forme psichiche e variazioni di dinamiche inconsce. Volevo che lo spazio fosse saturo, quasi asfittico, che l’intervallo tra la presenza fisica dello spettatore e l’opera stessa fosse ridotto proprio al minimo indispensabile, che in virtù del quasi azzeramento della distanza percettiva, la mostra risultasse quasi un’unica immagine, un collage percorribile composto di tavoli, tanti tavoli, un arcipelago di tavoli.
ATP: The Pagad, un termine insolito. A cosa si riferisce il titolo?
RS: Pagad, è un suono egizio-mesopotamico di remota memoria. Una parola, assimilata e trasmessa oralmente che, nelle lingue occidentali non rassomiglia a nulla e non è praticamente traducibile. E’ un termine che si compone di due lemmi, pag che in Oriente significa “capo”, “maestro”, “signore”, e gad che vuol dire semplicemente “fortuna”. The Pagad, è conosciuto anche come Il Giocoliere, L’artigiano, Le Bateleur, Le Jouer de Gobelets o, anche The Magician, The Juggler, Il Bagatto. Nel gioco dei tarocchi è il primo degli Arcani Maggiori, le cui ventidue figure, una dopo l’altra, designano ognuna una specifica tappa del cammino iniziatico dell’essere umano e, con un carattere fortemente allegorico, interpretano il linguaggio primordiale degli archetipi.
Nell’Italia del XIV secolo, gli Arcani Maggiori venivano chiamati anche “trionfi”, si veda a proposito il poemetto allegorico in terzine di Francesco Petrarca che li rappresenta come una sorta di carri allegorici fitti di richiami simbolici. Rimasta incompiuta e scritta in Italiano volgare, l’opera mette in scena una successione di sei Triunphi. Il Trionfo dell’Amore corrisponde ad esempio alla lama degli Innamorati, quello della Castità alla Temperanza e via dicendo. Il Trionfo all’epoca era soprattutto legato all’ambiente di corte aristocratico. Era infatti uno spettacolo molto diffuso e oneroso che nacque probabilmente dalla processione religiosa medievale e dal rito dei Misteri, dal corteo dei cavalieri antecedenti la giostra e il torneo vero e proprio e dalle rimembranze dell’interesse per il mondo classico greco-romano. Tutti i nomi, i costumi, le figure e le allegorie, riportano proprio a quell’ambiente cortigiano che, con l’umanesimo, scoprì da una parte il mondo antico e dall’altra la centralità della figura umana. I trionfi sono proprio il frutto di quel contesto cristiano – neoplatonico, alchemico e pitagorico – liberale che costituì l’ossatura dell’Umanesimo e che fu sconfitto dalla reazione cattolica più retriva.
Si pensi a Pico della Mirandola, grande conoscitore della Cabala Ebraica o a Marsilio Ficino che, su commissione di Cosimo de’ Medici, tradusse il “Corpus Hermeticum”, tra cui la famosa Tavola di Smeraldo, un insieme di testi gnostici composti tra il 100 e il 300 d.C. attribuiti ad Ermete Trismegisto (Ermes tre-volte-grande). O, viene anche in mente, il filosofo neoplatonico Niccolò Cusano che fu cardinale e legato pontificio ed ebbe grande influenza in un piccolo spazio temporale nella Chiesa Cattolica, prima di essere presumibilmente avvelenato.
Nel display espositivo, le opere, al pari delle lame degli Arcani, sono state messe l’una accanto all’altra, tavolo dopo tavolo, a creare una vera processione, un Trionfo. L’allestimento è stato pensato proprio nella direzione di questo “eccesso” spettacolare. Erano necessari tutti i tavoli possibilmente ammessi dalle dimensioni dello spazio. Ogni tavolo con una sua peculiarità, ognuno con una sua diversa destinazione e funzione.
ATP: Ci parleresti dell’iconografia della “lama” che hai scelto come titolo?
RS: Il Pagad è figlio della luna, è il giocoliere per eccellenza in perenne equilibrio, con abilità, sulla punta del proprio inconscio. Se vogliamo è la figura dell’artista stesso, si pensi ad esempio a “Il Castello dei destini incrociati” di Italo Calvino, dove per associazione tra codice visivo e codice iconico, viene identificato con la figura del poeta. Incarna l’ideale dell’uomo artefice e padrone del proprio destino, capace di dominare la materia grazie all’uso intelligente della forza psichica. Nel Libro dei Mutamenti o I Ching, corrisponde infatti all’esagramma I che, nel mutamento ciclico degli stati del divenire, è quello del “creativo”.L’uno è il simbolo numerico del principio, dell’inizio come anche dell’unità. La sua iconografia originaria lo vuole vestito di abiti variopinti nei quali, tuttavia, predomina il rosso, il colore dell’energia. In piedi davanti al suo tavolo, con la mano sinistra impugna la bacchetta del comando e con la destra addita gli strumenti del mestiere che simboleggiano i quattro elementi primordiali (fuoco, acqua, aria e terra); mentre il suo cappello a forma di otto rovesciato, simbolo matematico dell’infinito, significa che di questo “il giocatore” ne conosce bene i segreti per cui ha la capacità di pensare in tutte le direzioni.
ATP: Hai scelto, come opera emblematica dell’intero progetto, il quadro di Hieronymus Bosch, The Conjurer (1502 c.). Il dipinto è una metafora sull’ingenuità: la scena rappresenta uno stolto che viene imbrogliato da un prestigiatore e dal suo aiutante. C’è anche un dettaglio curioso: il credulone vomita una rana. Un quadro decisamente complesso e intrigante. Perché lo hai scelto e con quali motivazioni?
RS: E’ opinione più che fondata che Bosch, nella sua pratica, abbia attinto all’immaginario simbolico esoterico, all’alchimia, come anche al Ludus Trionphorum (Gioco dei Trionfi) con il quale le corrispondenze si estendono ai soggetti rappresentati. Nella sua pittura l’attività quotidiana della psiche è espressa sotto forma di allegoria umana e The Conjurer rappresenta proprio una personalissima interpretazione del primo degli Arcani Maggiori. A differenza della raffigurazione del Mantegna, il cui mazzo fu forse presentato nella stretta cerchia di Papa Pio II Piccolomini, durante il Concilio di Mantova tra il 1459 e il 1460, l’impostazione di Bosch è meno didascalica. Il mazzo del Mantegna infatti, disegnato con grande maestria e sottile intelletto, rappresenta un documento iconografico di notevole importanza che rispecchia, nella sistemazione della scienza umana e divina, ancora la speculazione medievale. Bosh rappresenta il Pagad invece proprio come un’illusionista la cui stessa opera è un’illusione e il suo ordine non è che illusorio. Tra ragione e s-ragione, giochi di prestigio e trucchi di magia, è una figura che incatena lo spettatore con destrezza di mano e meraviglia.
ATP:Il tavolo come topos allora. Cosa rivelano le scelte che hai compiuto per questa mostra? Come gli artisti in mostra si sono confrontati con i tanti significati dell’oggetto ’tavolo’?
RS: Ogni tavolo in questo caso rappresenta una sorta di microcosmo, è lo specchio su cui si riflette ogni singolo inconscio o un insieme di elementi della sfera privata di ogni specifico artista. Mette in scena, praticamente, un personalissimo schema del mondo.
Gli oggetti disposti sul tavolo di Massimo Bartolini, ad esempio, hanno una particolare relazione con l’idea di biografia anche se poi si trasfigurano diventando qualcosa di completamente altro. Studio Matters and Other Works è stato esposto, in una prima versione, ad Edimburgo nel 2013 ed è una copia esatta del tavolo nello studio dell’artista. Gli oggetti vi si avvicendano con nudità e sincerità: la fusione di una statua di bodhisattva birmano (la stessa di Revolutionary Monk) assiso in preghiera su un subvhufer; un autoritratto decollato senza sangue in alabastro; un presepio con una cometa di bronzo che sfreccia in una notte di carta carbone; to zafira, una scultura in omaggio alla fine di una gloriosa “Opel Zafira” con un naso di creta secca che ne umanizza il poggiatesta, a sua volta appoggiato sulla cover di un disco che psichedelicamente recita The End, il malvagio nella tazza, Verusca: la lampada linestra che si innesta su un ramo di un vecchio eucalipto del giardino, la foto dell’architetto Vittorio Giorgini felice con la moglie e una cernia. Questo e molto altro ancora è il risultato di un “pensare usando le mani“ come afferma lo stesso Bartolini. In qualche modo biografico è anche il lavoro di Alberto Garutti esposto nel 1990 alla Palazzina dei Giardini della Galleria Civica di Modena. Il luogo che ospitava la mostra è una costruzione Settecentesca in cui gli spazi sono organizzati in modo speculare rispetto ad una sala centrale ottagonale e questo tavolo costituiva il fulcro formale e metaforico di tutto il percorso, aveva un ruolo cardine di pensiero, narrazioni, geometrie e riferimenti all’architettura e alla città. Sul suo piano sono incavate le piante delle quattro case abitate dall’artista sino a quel momento. Untitled” (2014) di Rob Pruitt, si struttura invece come una specie di diario dove sono registrati momenti, sensazioni e immagini della pop culture che entrano a far parte della quotidianità dello studio dell’artista. L’idea di questo lavoro nasce dall’osservare gli assistenti di Pruitt che scrivevano sui tavoli dello studio come se stessero scarabocchiando sui banchi di scuola, registrando graficamente frasi udite, date e orari di futuri appuntamenti, disegni di icone pop dai Simpson a Hello Kitty. Il tavolo fa parte di una serie di lavori irriverenti, sarcastici e maliziosi, in cui ogni elemento della contemporaneità viene catturato e mescolato ad un’eccentrica e abbagliante sfera privata. Così come un tavolo da lavoro è anche quello di Uri Aran convertito in un’esposizione frammentaria di strutture e oggetti funzionali. E’ la proiezione del mondo individuale dell’artista, una sorta di micro universo in cui ogni elemento ha una destinazione precisa. Ad una memoria in qualche misura autobiografica, si riferisce anche l’opera di Andro Wekua, esposta nel 2014 ad Inside, una collettiva al Palais de Tokyo. Sul tavolo è sdraiato un manichino di cera, a grandezza umana, con la testa rinchiusa in una casa, immagine che rimanda al cortometraggio fantascientifico dello stesso Wekua dal titolo Never Sleep With a Strawberry in Your Mouth II. In entrambi i lavori qualcuno o qualcosa prende possesso della mente dell’uomo. Andro Wekua, costretto ad abbandonare la Georgia (ex USSR) durante l’infanzia, conserva nella sua pratica le tracce tangibili di questo “suo” altrove. Il modello della casa in miniatura entro cui si protegge la figura di cera è infatti una memoria dell’architettura comunista del suo passato.
ATP: Mi racconti di altre opere in mostra che ritieni più significative?
RS: Da Franz West (Untitled, 1990) a La Tulipe (2016) di Bertrand Lavier, dall’ Apprehnsion Table #5 (2008) di Matheus Rocha Pitta ad Alexander Beer project :Playroom ( Ian Kiaer, 2006) o all’austero e candido tavolo su cui sono meticolosamente disposte sette pile di carte pronte per un Solitaire ( Elmgreen & Dragset, 2002), dal rappresentativo allo sperimentale, dal biografico all’utopico, la mostra raccoglie lavori prodotti in un intervallo di tempo che va dal 1976 al 2016. E’ del 1987, l’opera di John Armleder, esposta per la prima volta nella mostra che Massimo De Carlo ha organizzato con la galleria Cavellini proprio in quell’anno. Il lavoro rientra nella serie delle furniture sculptures e rispecchia l’interpretazione scultorea della realtà che John Armleder indaga da oltre venticinque anni. Si tratta di lavori che, come dice lo stesso artista, si riferiscono a quello che succede alla pittura. Questa infatti può essere appesa sul divano, o tra le tende –“ so it’s just natural, in a way”-. In FS140 le gambe sono originali e provengono dalla struttura di un tavolo, mentre a compensare la mancanza del piano d’appoggio è stata incastrata all’interno del mobile una tela monocromatica in argento. Il tavolo è completato da un monocromo verde. A completo della consolle d’ingresso di Enrico David, collocata all’inizio del percorso espositivo, troviamo invece una piccola fusione in bronzo e un disegno le cui rappresentazioni incarnano in sostanza degli archetipi, delle figure che, privilegiando l’azione rispetto al racconto, attivano intenzionalmente degli psicodrammi. Il piano d’appoggio di I gemelli (Segno zodiacale del genio, 1976) è uno specchio al cui centro è stato posato un angelo in porcellana di Capo di Monte che, riflettendosi sulla superficie si raddoppia e, come Narciso, rimane catturato dalla propria immagine. In questo lavoro di Vettor Pisani vige la regola del doppio e del rispecchiamento, viene analizzata l’idea della moltiplicazione e della similitudine nella differenza di ciò che è rappresentato con ciò che, al contrario, viene riflesso.
Crystal Landscape of Inner Body (2000) di Chen Zhen, fa parte di una serie di dodici lavori che, concepita poco prima della morte dell’artista, indaga il rapporto tra l’uomo e l’astrologia cinese, in dialogo tra corpo e spirito, uomo e universo. Il tavolo in mostra rappresenta il decimo segno zodiacale, quello del gallo. E’ la rappresentazione in cristallo di undici organi del corpo umano che, oltre ad evocare la fragilità e la transitorietà della vita, indagano un registro di bellezza completamente diverso. Visceri umani di cristallo disposti su una sorta di tavolo clinico, organi di carne trasformati in pura luce che brillano come meduse iridescenti. E’ proprio la luce che delinea le loro forme e i loro volumi e che, riflettendosi dall’uno all’altro elemento, incarna il principio cardine della medicina tradizionale cinese secondo il quale ogni organo corrisponde a un’orbita di energia. Ha un ruolo cardine il lavoro di Rirkrit Tiravanija che, non a caso, è stato collocato al centro dello spazio ed è in qualche modo la chiave di lettura di tutta la mostra. E’ un tavolo da ping pong che porta scritto al centro Demain est la question. Un interrogativo che in qualche modo richiama, in versione contemporanea, il ritornello della ballata di ottonari scritta nel 1490 da Lorenzo de’Medici e destinata ad accompagnare il Trionfo di Bacco e Arianna :–“…..chi vuol essere lieto sia / di doman non v’è certezza …”- Qui la forza gioiosa del canto è pacatamente velata da un soffio di malinconia dettato dall’incertezza del domani e dal fuggire del tempo. Il tavolo rappresenta inoltre uno scambio concettuale, sulla paradossale relazione tra arte e vita, con l’artista cecoslovacco Jülius Koller.
ATP: C’è qualche lavoro che si riferisce unicamente all’ idea classica di tavolo come oggetto per il consumo del cibo, al rituale del pasto? Ad un contesto funzionale in genere?
RS: Quello di Daniel Spoerri senz’altro, concepito per la mostra Il Bistrot di Santa Marta tenutasi a Milano nel 2013 presso Mudima. In quest’occasione la Fondazione ha ospitato, sotto la supervisione dello stesso Spoerri, una serie di cene a tema. L’artista svizzero-romeno, come ben noto, è stato infatti un precursore del binomio arte/cibo, risalgono già agli anni Sessanta le sue prime performance interattive che trasformavano le gallerie in ristoranti. Santa Marta è la santa patrona delle casalinghe, delle cuoche, delle domestiche, degli osti, degli albergatori e dei ristoratori. Il tavolo è parte della celebre serie di tableaux-pièges (quadri-trappola) iniziata nel 1965 incollando su tavole i resti di un pasto, incluse posate, piatti e cibarie varie che, nel passaggio dal piano orizzontale a quello verticale, diventano una presenza straniante. Nell’ambito di un’idea di funzionalità si possono collocare anche i due lavori dei Gelitin, entrambi pensati per una mostra a Düsseldorf. Simile a gelatina, la superficie acrilica del tavolo rotondo, è ricoperta da un vetro colante e fa pensare all’ Aspic, un piatto basato sull’incorporazione di vari ingredienti in gelatine, piuttosto popolare già dal XVIII secolo. Nella loro pratica, sin dagli inizi, i Gelitin hanno indagato l’idea di mobilio in generale e la funzionalità dell’oggetto tavolo nello specifico. Il consumismo legato al mondo delle immagini e la replica di immagini appartenenti alla storia dell’arte sono la cornice in cui si colloca l’analisi impertinente e ironica, della multi direzionalità del tavolo e del suo ruolo rispetto allo spazio in cui si trova. Il loro secondo lavoro in mostra si compone di un ripiano di legno sorretto da gambe di compensato. Le pennellate e le chiazze di vernice sulla superficie sono state tracciate durante la mostra Paint me Paint Me Everywhere (Varsavia, 2014) in cui i Gelitin dipingevano in collaborazione con degli artisti polacchi, mentre l’assemblaggio del tavolo è del 2016. Anche qui l’idea è di congelare le tracce di questo momento di collettività e di condivisione della propria pratica artistica elevando il piccolo ripiano. Un banco di scuola è invece il tavolo di Charlie don’t surf (1987) su cui due matite trafiggono e inchiodano le mani distese del manichino di un adolescente. Il titolo riprende una ben nota battuta di Apocayipse Now, il film di Francis Ford Coppola, che viene convertita da Cattelan in un imperativo reso dalla situazione in cui versa il ragazzo. Il messaggio di libertà violata e di soprusi sulla società degli innocenti si traduce così in una riflessione sulle infinite declinazioni della crudeltà umana.
ATP: Come è stato interpretato questo soggetto “al femminile”?
RS: Con la sua tipica, irriverente e feroce ironia, Toilet Elevation (2011), come spesso accade nella pratica di Sarah Lucas, sovverte e mina la tradizionale feticizzazione del corpo femminile esplorando idee legate al gender e alla domesticità. Il water, un tema ricorrente nel lavoro dell’artista britannica, ci ricorda con audacia dissacrante uno dei nostri bisogni primari; il tabù della narrativa evocata da questo oggetto è sottolineato dalla sua collocazione sul piano d’appoggio. Dunque, un tavolo di legno sormontato da un water che a sua volta regge un seno, traduce sessualità e inquieta perversione quotidiana, in un irriverente ready-made. Il colorato e misterioso tavolo di Nathalie Djurberg, invece, spoglia il mobile da ogni compito funzionale e lo trasforma in un paesaggio dominato da inquietanti sfumature. I gelati sciolti e capovolti simboleggiano infatti l’innocente e perturbante ferocia dell’infanzia. Incentrato sul passaggio da uno stato di materia all’altro, il tavolo di Isabelle Cornaro fa parte della serie Homonyme I che si è riferisce sia alla cultura delle grotte artificiali nel Manierismo italiano, dove piante e animali scolpiti emergono da uno sfondo organico, sia all’arte decorativa dei manieristi tedeschi e francesi. Questi ultimi utilizzavano la tecnica di fusione del moulage sur le vif che consiste nel prendere impronte dirette degli oggetti nel tentativo di fondere direttamente dal reale categorie di rappresentazione. Anche l’opera di Tacita Dean porta con sé l’idea di recupero di un passato remoto. Sul tavolo è appoggiata una scatola, simile ai vecchi indici da biblioteca, in cui sono riposte 326 fotografie scattate dall’artista a Praga nel 1991, subito dopo quella “Rivoluzione di Velluto” che porterà al crollo del regime comunista. Esposte per la prima volta a Düsseldorf nel 2002, queste immagini sono oggi reliquie di una città che non esiste più, aprire la vecchia scatola di legno che le custodisce è un po’ come aprire una capsula del tempo. Ad un’idea del fluire del tempo si riferisce anche Lara Favaretto. L’opera fa parte di una serie in cui alcuni tavoli, abbandonati e compromessi da profondi fori scavati dalle tarme, vengono recuperati e riportati a nuova vita con l’uso di polvere d’oro a 24 carati che ne riempie i buchi prodotti dagli insetti. I solchi sono stati colmati d’oro in profondità, in modo da creare un calco del percorso tracciato dai tarli, visibile solo in superficie. I piccoli fori rotondi che costellano i tavoli indicano la fine del ciclo vitale dell’insetto, il quale, una volta conclusa la fase larvale, fuoriesce dal legno per accoppiarsi e morire. Un passaggio che viene suggellato emblematicamente dal punto oro.