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Interview with Petrit Halilaj Space Shuttle in the Garden

[nemus_slider id=”50522″] English interview below E’ stata presentata alla stampa all’ HangarBicocca la mostra “Space Shuttle in the Garden”, la prima mostra personale in Italia dedicata a Petrit Halilaj. Curata da Roberta Tenconi, la mostra ospita oltre dieci progetti dell’artista kosovaro: opere di grande e piccolo formato che riportano temi universali come l’esodo e la […]

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English interview below

E’ stata presentata alla stampa all’ HangarBicocca la mostra “Space Shuttle in the Garden”, la prima mostra personale in Italia dedicata a Petrit Halilaj. Curata da Roberta Tenconi, la mostra ospita oltre dieci progetti dell’artista kosovaro: opere di grande e piccolo formato che riportano temi universali come l’esodo e la ricerca di identità, in un percorso che si espande sia all’esterno che all’interno degli spazi dell’Hangar.

Presenti in conferenza Marco Tronchetti Provera che, dopo essersi congratulato con la nuova curatrice Roberta Tenconi, ha sottolineato l’importanza di puntare sui giovane talenti: “Un artista giovane che riesce ad esprimere la sua storia e il suo paese, riesce a dare delle emozioni, che in questo luogo sono di casa. Un giovane all’Hangar Bicocca va supportato in tutti i modi. Hangar nel tempo e? diventato un luogo con cui gli artisti si vanno misurando e quindi per un giovane questo non puo? che essere formativo.” Prende parola, brevemente anche Vicente Todoli?: “Questa e? un’occasione speciale perche? e? la prima mostra di Roberta, ma anche perche? c’e? un nuovo artista che interviene sullo spazio creandone uno nuovo. La sua memoria e? in dialogo con la struttura dello Shed, andando a creare una parte visibile ed un camouflage, che vanno viste passo dopo passo.” E’ il turno di Roberta Tenconi che dopo i doverosi ringraziamenti, spiega: “Penso che la mostra e il lavoro di Petrit viaggino su due paralleli: da una parte racconta storie molto reali e vere e dall’altra parla di aspetti del tutto fantastici. E’ una mostra tra realta? e magia. La mostra si apre proprio con una piuma in un acquario, che si muove leggerissima;  un po’ ci ricorda una narrazione ma anche un disegno, un qualcosa di sospeso e leggero. Anche il passaggio che ci porta alla mostra, un po’ stretto, ci invita ad avere un punto di vista diverso. La casa, il lavoro centrale – The places I am looking for, my dear, are utopian places they are boring and I don’t know how to make them real (2012-2015) – viene subito posta all’entrata, ma siamo sotto terra, nel garage della famiglia di Petrit a Pristina. Noi entriamo e guardiamo il mondo da una prospettiva che solitamente non abbiamo. E’ come un disegno tridimensionale, molto grafico. (…) Questa mostra raccoglie gli ultimi 7 anni di lavoro di Petrit, significa rileggere e riguardare i suoi lavori con uno sguardo diverso, che non ha paura della trasformazione. La casa qui assume una veste totalmente nuova rispetto alla Biennale di Berlino del 2010, dove fu realizzata per la prima volta. Nel frattempo i suoi parenti l’hanno lasciata, avra? trovato altri abitanti. Il nucleo centrale della casa, le stanze con funzione collettiva, sono rimaste unite, mentre le stanze personali sono frammentate ed esplose, una addirittura fuori dall’Hangar, che si vede arrivando verso il cancello centrale. E’ una mostra in cui entra il trascorrere del tempo: ci sono due grosse finestre, una e? un video che si vede sullo sfondo e che riprende per 24 ore la collina dove si trova questa casa e l’altra e? un’apertura sullo shuttle – They are Lucky to be Bourgeois Hdas II, 2009 – in cui entra la luce del giorno e che quindi fa cambiare la mostra da mattina e sera, cambiando anche l’umore del visitatore e dell’esposizione stessa.”

Chiude la presentazione, l’intervento di Petrit Halilaj: “E’ stato magico lavorare insieme a Roberta. Qui ci sono un team e un’atmosfera che davvero hanno reso possibile in modo bellissimo il lavoro. E’ stata un’esperienza nuova; e? la prima volta che rivedo dei progetti fatti nel 2008 e come le storie si completano o parlano una con l’altra. E’ un’occasione che non ho avuto prima e per me ha molto senso che succeda qui in Italia, paese a cui sono legato per il fatto di aver compiuto la mia formazione accademica. Senza contare che ho imparata molto anche grazie all’ospitalita? di una famiglia dalla quale ho capito come vivere in Italia e come recepire questo paese. (…) In merito a figure importanti per la mia formazione, devo citare Alberto Garutti, un professore incredibile, che mi ha dato moltissimi consigli e scambi. Ma è soprattutto il fuori accademia che mi ha formato. Viaggiare e vedere le altre cose in combinazione col corso sull’arte contemporanea e? stata una bella combinazione.”

(Testi raccolti da Marco Arrigoni)

Segue una breve intervista con Petrit Halilaj —

ATP: Partiamo dal titolo, a cosa si riferisce “Space Shuttle in the Garden”? Perché lo hai scelto?

Petrit Halilaj: Il titolo deriva da un disegno del 2009 e si riferisce alla serie “They are Lucky to be Bourgeois Hens”. Per la mostra ho anche lavorato su un altro grande progetto durante l’anno passato, un lavoro che verrà presentato nel catalogo speciale della mostra. Durante la progettazione della mostra, con Roberta Tenconi abbiamo riflettuto a fondo sul nuovo lavoro e questa dimensione ci ha sempre accompagnato. Ecco perché abbiamo deciso di concettualizzare il catalogo in due parti per riflettere questo processo – anche perché molti delle mie opere sono connesse e frequentemente si alimentano concettualmente tra di loro.

ATP: La mostra ospitata all’HangarBicocca ruota attorno ai temi quali l’esodo e la ricerca di identità. Temi complessi e decisamente attuali. Come li hai espressi mediante le tue opere? Mi citi alcune opere in mostra dove è più evidente il loro significato?

PH: Sono ovviamente più presenti nell’opera “The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real” (2010 – 2015). Quindi un lavoro che riflette moltissimo sui processi che sono diventati più presenti dopo il conflitto, quando il lungo periodo della creazione ufficiale di un paese indipendente è venuto a coincidere con un mio personale momento di formazione. Così la casa che abbiamo visto intera alla Biennale di Berlino ora è possibile frammentarla e dividerla, ed è bello – così, con le sue stanze che fluttuano – perché è in qualche modo più vicina all’originale, e in qualche modo più lontana. Anche in riferimento al processo personale di emancipazione dalla famiglia, di ricerca della propria strada – certamente sempre connesse, ma anche al fatto di provare a essere un sé unico, e a muoversi liberamente in altri contesti ed esservi accettato. Spero che la ricerca d’identità possa diventare anche per il mio paese più ricca, variegata, un processo che possa comprendere altri discorsi e dibattiti che sono stati negletti finora e che fanno parte del tutto anche se possono essere visti come distanti dalla struttura originaria.

ATP: Molte opere partono dall’elaborazione del tuo vissuto personale e familiare. Non facile partire dalla propria esperienza. Come elabori e concretizzi in opere il tuo vissuto, la tua esperienza?

PH: Molta parte del mio lavoro proviene dalle mie esperienze personali e penso che questo sia semplicemente il modo in cui lavoro e come sento il bisogno di lavorare. E’ importante per me poter accettare questo passaggio, poter capire di più, poter comprendere meglio come queste apparentemente piccole cose personali sono in relazione tra loro e riflettano il mondo come unità.

ATP: Mi introduci brevemente l’opera che, per prima, accoglie il visitatore, “They are Lucky to be Bourgeois Hens II”?

PH: E’ stata una decisione presa all’inizio di tutto, e si è rivelata un magnifico pretesto per l’intera mostra. Si entra e si incontra questa fantastica struttura – l’acquario con una piuma, decontestualizzata dal suo normale ambiente. Fluttuando nell’acqua, muovendosi in essa quasi danzando. E la connessione tra la piuma e la penna, uno strumento per la scrittura, si costruisce molto facilmente. Quindi, semplicemente, la scrittura di una lettera, di una narrativa, comincia qui. Questa lettera può contenere oppure nascondere descrizioni, storie, sentimenti, desideri e anche miracoli. Si può vedere, dietro di essa, lo stretto passaggio per l’area esterna, dove è posizionato lo space shuttle, un punto in cui si arriva soltanto alla fine del percorso. Anche le galline e la loro giornata sulla navicella spaziale – quando si ritrovano all’interno preparandosi per la notte e il momento in cui la porta si chiude, sono circondati da questo blu, quel momento preciso in cui ci si ritrova tra il mondo reale e le potenzialità dell’infinito – quindi anche in quest’ora blu, quando il giorno non è ancora completamente calato e la notte non è ancora iniziata.

ATP: Nella serie di sculture “Si Okarina e Runikut”, ti sei ispirato ad antichi strumenti musicali a fiato di epoca neolitica rinvenuti in Kosovo e in particolare a Runik. Hai modellato personalmente ogni scultura. Le opere sono presentate come “metafora dell’intera mostra”. Cosa hanno di così importante per te? Che legami hanno con la tua infanzia?

PH: La metafora risiede più nel fatto e nel tentativo di trasformare uno strumento da personale a qualcosa atto a ricoprire una funzione corale. Cioè come e quanto il personale è modificato da ciò che è collettivo e sta intorno a noi. Una relazione piuttosto complessa da capire, che ho anche sentito il bisogno di condividere e discutere. Per me questa mostra è anche molto connessa al ritorno in Italia, in qualche modo. Un luogo davvero centrale per la mia biografia e la mia formazione come artista, e forse l’unico posto il cui sono stato in grado di organizzare una mostra come questa, dove tanti dei miei progetti convergono per la prima volta e così su larga scala. Le scultura okarina, così piccole e delicate, sono ovviamente connesse a Runik, dove ho trovato l’ispirazione per crearle, ma sono anche dei tramiti per mettere in dialogo moltissime altre cose, come ho già spiegato prima, e rappresentano anche il passo precedente per il mio prossimo lavoro. Così anch’esse, come tutte le altre opere in mostra, in qualche modo si alimentano e si contaminano tra loro.

Traduzione dall’inglese di Martina Odorici

Petrit Halilaj,   They are Lucky to be Bourgeois Hens II,   2009 Courtesy the Artist and Pirelli HangarBicocca,   Photo Agostino Osio
Petrit Halilaj, They are Lucky to be Bourgeois Hens II, 2009 Courtesy the Artist and Pirelli HangarBicocca, Photo Agostino Osio

Interview with Petrit Halilaj 

From 3 December 2015 to 13 March 2016

Space Shuttle in the Garden / Curated by Roberta Tenconi / Space: SHED

“Space Shuttle in the Garden” brings together and connects, for the first time, a selection of works by Petrit Halilaj (1986, Kosovo) from recent years as well as new ones conceived specifically for the occasion. Setting out from the life and history of the artist and from the changes that have occurred in his native country, the exhibition explores universal themes such as memory, the search for identity, and the concept of home as both a shared and private space, arriving at reflections on community and on the creation and preservation of a common cultural heritage.

ATP: Let’s start from the title; what is the reference for “Space Shuttle in the Garden”? Why did you choose it?

Petrit Halilaj: The title originally comes from a drawing from 2009 and it is a reference to the series “They are Lucky to be Bourgeois Hens.” But I also have been working on another big project for this past year, a work that will get introduced in the special catalogue of the exhibition. So during the work on the show, me and Roberta Tenconi have been also thinking a lot through this new work and it has been accompanying our thoughts to a great extend. That’s why we decided to conceptualize the catalogue in two parts to reflect this process – also because many of my works are linked to each other and they feed each other often conceptually.

ATP: The exhibition at Hangar Bicocca builds its pivotal points around topics as migration and a research for an identity. Complex and actually present themes. How did you express it through your works? Could you mention some works in the exhibition where this meaning is more evident? 

PH: It is obviously most present in the work “The places I’m looking for, my dear, are utopian places, they are boring and I don’t know how to make them real” (2010 – 2015). So a work that reflects very much on processes that became most present after the conflict when the long period of the official making of an independent country coincided with my own coming of age. So the house that we saw whole at the Berlin Biennale is now being allowed to be fragmented and split and it’s fine – so with its rooms free floating – some closer to the original structure, some more distant. Also referring to the processes of personal emancipation from the family, of finding one’s own way – certainly always related, but also being able to be a whole by yourself and being able to move freely in other contexts and being accepted there. And so the search for identity also for my country hopefully can now become more diverse, where also other conversations can enter that had been neglected so far and that make part of the whole even though they might float away from the original structure.

  ATP: A lot of works were born from the elaboration of your personal and family life. It is not easy to work on one’s own experience. How do you process and put into effect your life and your experience in your works?

PH: Much of my work draws from my own experiences and I guess that is just how I work and how I need to work. It’s important for me to work my way through this, to understand more, to access more how theses seemingly small and personal things relate and also reflect on the world as a whole.

ATP: Could you please present us the work that first greet the visitor, They are Lucky to be Bourgeois Hens II?

PH: It was a decision that was actually made at the very beginning and it turned out to be an amazing pretext for the whole show. So you enter and see this fantastical structure – the aquarium with a feather decontextualized from its normal surrounding. Floating in the water, being moved to almost dance in it. So this connection of the feather to a pen, to a writing instrument can be made easily. So basically the writing of a letter, of a narrative starts here. This letter can contain or also obscure descriptions, stories, feelings, desires, or also wishes. You can see behind it the narrow passage to the outside area, where the space shuttle stands, a part where you arrive at the end then. And also the chickens end their day in the space shuttle – so when they gather inside getting ready for the night and the moment the door gets closed they are surrounded by this blue, so this very moment where you are between the real world and the potentialities of an infinity – so also in this blue hour, when the day is not completely gone and night has not yet started.

ATP: In the series of sculptures “Si Okarina e Runikut” you found your inspiration in ancient wind instruments dating back to Neolithic era found in Kosovo, and in Runik in particular. You personally shaped every sculpture. The works are presented as a “metaphor for the entire exhibition”. Why are these sculptures so important for you? Which are the bonds with your childhood?

PH: The metaphor rests more in the fact and my temptation to transform an instrument from personal to fulfil a choral function. So just also how the personal is affected by what is collective and around you. A quite complex relation to understand that I also felt the need to share and discuss. For me this entire show is also so much connected to this return to Italy somehow. A very central place in my personal biography and my formation as an artist and maybe the only place I was able to do a show like this, where many of my different projects come together for the first time ever and also on such a large scale. So the okarina sculptures, so small and delicate, are connected obviously to Runik, where I found inspiration for them but they are connecting so many other things for me as well, as already explained above and they also represent the step before the next work. So just like all works in the exhibition feed each other and spill into each other somehow.

Petrit Halilaj,   Exhibition view,   Space Shuttle in the Garden,   Courtesy the Artist and Pirelli HangarBicocca - Photo Agostino Osio
Petrit Halilaj, Exhibition view, Space Shuttle in the Garden, Courtesy the Artist and Pirelli HangarBicocca – Photo Agostino Osio
Petrit Halilaj - Exhibition view,   Space Shuttle in the Garden,   Courtesy the Artist and Pirelli HangarBicocca - Photo Agostino Osio
Petrit Halilaj – Exhibition view, Space Shuttle in the Garden, Courtesy the Artist and Pirelli HangarBicocca – Photo Agostino Osio