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Cancello tutto quello che so e guardo la mostra. Ripeto, perfetta nei minimi dettagli, marbosamente curata per ricreare scene stereotipate di ritratti giapponesi di fine ‘800, primi del ‘900. Inevitabile pensare, guardando le fotografie, al grande lavoro che ogni scatto ha richiesto all’artista. Dalla ricerca dei modelli agli abiti, dalle scenografie allo studio della luce, Linda ha messo in moto un teatro della rappresentazione, congelando in uno scatto delle immagini indubbiamente molto belle. Ho apprezzato molto i piccoli inganni visibili, come ad esempio i fili di plastica che sostengono maniche e panneggi, che ingannevolmente sembrano mossi da una leggera brezza. Tutto perfetto dunque, tutto bellissimo! Forse è questo il problema della mostra: questa serie di 20 immagini rapiscono la nostra attenzione per la troppa maniacale perfezione, facendoci dimenticare invece, l’obbiettivo vero che muove il senso della mostra: indagare lo statuto della fotografia.
Ma alla fine – mi vien da pensare – è così importante ragionare, indagare, sviscerare lo statuto della fotografia? La serietà professionale dell’artista, la commerciabilità delle opere, l’incisività dell’immaginario che queste opere veicolano, non viene meno se ci dimentichiamo i ragionamenti dello statuto della fotografia ecc. ecc., anzi, lasciamo che le immagini raccontino quello che vogliono: di bellezza, di stereotipi, di falsità, di inganni…
Più in generale, invece, è tutto il percorso dell’artista che si concentra sui meccanismi, le tensioni, i tecnicismi del linguaggio fotografico. Come ad esempio ristampare vecchie foto, fotografare immagini già stampate, proiettarle con le lanterne magiche…
Per tutte le foto, courtesy Galleria Monica De Cardenas