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Dominik Lang – Naked figures, dressed figurines

[nemus_slider id=”49939″] Testo di  Valeria Montebello The Gallery Apart ospita la mostra “Naked figures, dressed figurines” del giovane praghese Dominik Lang fino al 5 dicembre 2015. Le figure sono nude, le figurine vestite, come se tutti quei panni rimpicciolissero i corpi sottostanti, una sorta di pressa meccanica o, per i più poetici, il semplice tocco […]

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Testo di  Valeria Montebello

The Gallery Apart ospita la mostra “Naked figures, dressed figurines” del giovane praghese Dominik Lang fino al 5 dicembre 2015. Le figure sono nude, le figurine vestite, come se tutti quei panni rimpicciolissero i corpi sottostanti, una sorta di pressa meccanica o, per i più poetici, il semplice tocco di una stoffa-pellicola che drena la pelle, un tic che fa chiudere a riccio. Appena varcata la soglia ci troviamo in un labirinto di segni costruito sopra la galleria, al già esistente. Un labirinto umano, senza verde. Ogni angolo è riconfigurato e reso biografico dai gesti ripetuti della memoria, nella cameretta di Dominik invasa da fantasmi di gesso, piena di segni stinti. Bisogna restare concentrati per non perdere l’orientamento. Ecco, è una mostra concentrata che si sviluppa su due piani collegati da una scala. L’artista è in cima e cerca di guidarci verso un segreto irrivelabile. Anche se l’intenzione è quella di mappare il (suo) percorso creativo -vuole tornare al primo modello, alla genesi dell’idea- e quello degli spettatori, le figure si ribellano, s’impiastricciano a vicenda. Nessun contatto diretto, le sculture si fondono per pura osmosi di alimenti canditi, già digeriti da chissà quale soluzione. Anche se ha lasciato i suoi abiti a terra, anche se Lang si è spogliato, si percepisce il gelo. Le sue sculture nude sono di un erotismo tragico, di un freddo polare. Tutte le figurine che si svestono in fretta non vedono l’ora di rivestirsi. Si percepisce la difficoltà della manipolazione di un materiale troppo personale, quasi archeologico. Alla Abi Warburg che, nel suo Atlante di Mnemosyne, studiava la doppiezza delle pathosformel: la figura è sempre poco definita, sfuggente perché spezzettata.

Il piano nudo – sopra – . “Clocks going backwards” comprende le due figure più grandi della mostra. Una nera, l’altra bianca, entrambe caratterizzate da una superficie ruvida, complessa. Concitate, con le mani aperte, sembrano mimare un rito tribale verso il muro, impegnate in un movimento senza scopo né referenti. La bianca ha la testa strappata -resta una fessura- mentre la sua mano palmata dice “stop”, persa in un gesto troppo umano. La nera è scardinata dal suo appoggio, come se una delle gambe fosse rotta. Ha un piede fuori posto che poggia sul pavimento della galleria ed è proprio grazie a questa gamba in rivolta che la figura sembra girarsi verso l’osservatore. Si scopre, gravitando intorno ai due nudi, che la scultura bianca è stata decapitata dalla nera (ha la sua testa in mano). L’oscurità vince ma è sporcata di bianco, come un cielo stellato. La nera ha vinto questa battaglia ma è rimasta segnata: una grande ferita di gesso compare sulla sua gamba slogata. Tutto il resto rimane chiaro, lontano, immutabile, il bianco impera su tutto il piano. “Study of a pre-determined movement” è una serie di figurine bianche disposte sopra ad uno scaffale. Ninfette che si pavoneggiano, una ha delle piume in mano, il copricapo di un pellerossa. Si piegano, si stirano, si tolgono i vestiti poi li tengono sulle spalle. Più che vestiti, sono pelli d’animale. A tratti sembrano uscire dalla pancia di qualche bue preistorico. Poi si rivestono, in tutta fretta. L’artista vorrebbe controllare i loro movimenti ma la sensualità morbida che le contraddistingue gli sfugge. Ho accennato prima all’eros bianco di questi corpi femminili posizionati in modo assurdo, una sorta di Kamasutra censurato. In un angolo ci sono dei vestiti senza corpo, come foglie a terra giacciono gli abiti dell’autore assente, evaporato. Poi un insieme di giacche da uomo di tutte le fattezze e colori, di cui non conosciamo il passato, in attesa di un corpo che non verrà. Prima della scalinata vera e propria -da scendere-, c’è una scala insieme ad un secchio rovesciato con pennello, scolpiti a grandezza naturale. Sulla mensola di fronte si scorge una mini scultura, di un omino a cavalcioni sulla stessa scala, con il secchio in mano e l’altro braccio alzato, come se stesse dipingendo l’aria davanti a sé. Senza pennelli, con il suo pugno, con il suo corpo-pittura.

La scala. Ogni gradino è una tappa segnata da una specie di flubber bianco solidificato: sono le impronte di Lang che somigliano a torsoli di mela. Calchi di mani per toccare quelle dell’artista. Un tracciato, come poter passare solo sulle strisce bianche mentre si attraversa la strada. Qui si sta attenti a mettere le mani solo sulle sue. È un lasciarsi guidare dalle molliche di Hansel e Gretel che portano verso la casa di marzapane, fatta di ossa ingessate.

Il piano vestito -sotto-. Al centro dello spazio ci sono sempre due figure, un mix fra le sculture di Giacometti – lunghe, esili – e degli spaventapasseri. Sono fissate sopra una piattaforma che sembra una porta, un armadio, dei cassetti. Qualcosa da aprire. Ci sono altri piani di legno che si intersecano a croce. La figura senza pantaloni, in bianco, è come appesa su un macchinario per antiche torture. Ci sono utensili e altri attrezzi dello scultore riprodotti in plastica bianca su un tavolo da lavoro. Come gli arnesi di un boia. In “Three figures” si vedono delle figure senza corpo, spettrali, scomposte dai cassetti di un guardaroba. Solo scarpe sotto l’impalcatura di legno, e un cappello sopra. Le figure, totalmente scomposte, smaterializzate, non sono altro che abiti piegati sopra a dei ripiani. Nello spazio anche tre quadri “Dressed nudes ”: schizzi di donne nude sotto e scampoli di tessuto applicati sopra, rabeschi rosa, stoffa blu giapponese, fiorata o geometrica, bianca o nera. Per finire c’è una lista incorniciata di sculture figurative dell’artista ceco Josef Vaclav Myslbek. Gli avi. Dominik è figlio d’arte, dello scultore Jirí Lang, e vuole restare figlio. Tiene la memoria, la porta in scena come se fosse ancora seme. Il cuore del labirinto non è altro che quello studio-cameretta dall’atmosfera opprimente, “ingombro di statue dormienti”. È il gelo sedimentato in queste opere scomposte e vigorose a percuotere le figure nude, impazienti di tornare semplici figurine vestite dai loro ruoli quotidiani, dai loro scopi marginali.

Dominik Lang,   Absent author,   2015,   vestiti,   scarpe,   dimensioni ambientali,   courtesy The Gallery Apart,   Roma,   fotografia di Giorgio Benni
Dominik Lang, Absent author, 2015, vestiti, scarpe, dimensioni ambientali, courtesy The Gallery Apart, Roma, fotografia di Giorgio Benni
Dominik Lang,   Random meeting,   2015,   base in legno,   struttura in metallo,   vestiti,   cm 200 x 240 x 123,   courtesy The Gallery Apart,   Roma,   fotografia di Giorgio Benni
Dominik Lang, Random meeting, 2015, base in legno, struttura in metallo, vestiti, cm 200 x 240 x 123, courtesy The Gallery Apart, Roma, fotografia di Giorgio Benni
Dominik Lang,   Naked figures,   dressed figurines,   2015,   veduta dell’installazione a The Gallery Apart,   Roma,   fotografia di Giorgio Benni
Dominik Lang, Naked figures, dressed figurines, 2015, veduta dell’installazione a The Gallery Apart, Roma, fotografia di Giorgio Benni