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THEVIEW, Sant’Ilario Pavilion — Intervista con Francesco Garutti

[nemus_slider id=”49468″] Lo spazio espositivo – di pochi metri quadrati – è direttamente proporzionale alle potenzialità concettuali dell’intero progetto. THEVIEW è un luogo dalla natura sperimentale e in continua evoluzione. Se non fosse un termine desueto, si potrebbe parlare di fucina – pratica e teorica – di idee. Fondato e diretto da Vittorio Dapelo e […]

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Lo spazio espositivo – di pochi metri quadrati – è direttamente proporzionale alle potenzialità concettuali dell’intero progetto. THEVIEW è un luogo dalla natura sperimentale e in continua evoluzione. Se non fosse un termine desueto, si potrebbe parlare di fucina – pratica e teorica – di idee. Fondato e diretto da Vittorio Dapelo e  dal curatore Francesco Garutti, THEVIEW ospita artisti che, grazie a “tempi lunghi”, approfondite ricerche e, non ultimi, spettacolari punti panoramici sul mare ligure, hanno la possibilità di andare a ritroso nel tempo e immergersi in tutte le fasi, sia progettuali che realizzative, delle loro creazioni. Esile nella sua architettura di ferro e vetro, il Padiglione ospita la tappa finale  (e non esaustiva) dell’intero progetto, fatto, nella sua interezza, di diverse fasi: genesi, lavorazione, costruzione, strategia e presentazione delle opere. Come sottolinea nell’intervista che segue Garutti, “nell’epoca degli studio visit via PDF”, THEVIEW si presenta come una ottima iniziativa volta a stabilire una vera e propria “alleanza con gli artisti che produce opere, pezzi, film, edizioni e anche semplicemente altre idee sui cui lavorare con gli artisti in contesti diversi.”

Dal  2010 ad oggi, il progetto ha ospitato e prodotto lavori per Biennali, mostre e collezione di Vanessa Beecroft,  Ida Ekblad,  Bill Woodrow,  Ettore Spalletti,  Anya Titova,  Alex McNamee,  Elvire Bonduelle e Serena Vestrucci. Conta le recenti collaborazioni con Ian Law,  Daniel Gustav Cramer,  Haris Epaminonda,  Davide Stucchi e Peter Wächtler.

Segue l’intervista con Francesco Garutti —

ATP: THEVIEW, fondato da Vittorio Dapelo nel 2010, è stato definito “uno studio di produzione e sperimentazione di arte contemporanea”. Questa delucidazione penso connoti in modo sostanziale il luogo e la sua funzione. In quanto curatore da oltre un anno dello spazio, mi introduci o approfondisci il concetto di ‘produzione’ in relazione agli obbiettivi dell’intero progetto?

Francesco Garutti: Ho incontrato Vittorio Dapelo a Sant’Ilario poco prima dell’inizio della mia residenza curatoriale a Montreal al CCA (2013-2014). Una piccola coincidenza per tempi e contenuti ha attraversato e accomunato il mio lavoro in Canada e il mio contributo a THEVIEW. Al CCA ero stato invitato a lavorare su una serie di temi scelti, provando a ripensare il ruolo della figura curatoriale all’interno di un’istituzione – questo il senso del programma “Emerging Curator” – sfruttando formati e tattiche che provassero a mettere in crisi “la mostra”, come l’unico strumento di diffusione pubblica e presentazione di una serie di opere, materiali e risultati di una ricerca.

L’invito di Vittorio Dapelo a costruire una cornice curatoriale a uno studio di produzione come THEVIEW ha coinciso per me con un momento di riflessioni sulla posizione, sulla “funzione” curatoriale. E confesso: la possibilità di “curare” genesi, lavorazione, costruzione, strategia e presentazione di un lavoro mi è sembrato contenere possibilità “rivelatrici”. La vicinanza all’opera come condizione necessaria oggi – non l’unica possibile, ma indispensabile per capire davvero – in un momento in cui Instagram quasi sostituisce mostre e gallerie. Sono stato più che felice di accettare in quel momento l’invito di una figura come quella di Vittorio.

Il tempo di THEVIEW è un tempo lento. Gli artisti sono ospitati in una piccola villa davanti al mare. Insieme esploriamo angoli nascosti di Liguria e territori nei quali e con i quali potrebbe essere interessante inventarsi un’opera: la malinconia polverosa di Albissola, le cave e i laboratori di Carrara, gli edifici moderni di Daneri abbandonati a Genova, l’architettura della Marinella di Nicoli, il promontorio di Portofino, fino alla meravigliosa collezione-archivio di opere e pezzi di design di Vittorio Dapelo, che in fondo è anch’essa un territorio da esplorare. E le opere e i progetti nascono da un incontro ravvicinato, tra gli artisti e i luoghi, il loro lavoro e il team di THEVIEW. Per noi produrre può voler semplicemente dire far aprire per gli artisti le porte di una preziosa biblioteca privata genovese – come nel caso di Daniel Gustav Cramer – o esplorare con Peter Wächtler i bronzi e i bassorilievi del Tesoro di Sant’Agostino. Quella di THEVIEW è una vera e propria alleanza con gli artisti che produce opere, pezzi, film, edizioni e anche semplicemente altre idee sui cui lavorare con gli artisti in contesti diversi. Nell’epoca degli studio visit via PDF ci sembrava una strategia necessaria. Cerchiamo di essere il più possibile indisciplinati, forse vicini al paradosso, complici degli autori che amiamo: forse per questo la prima dépendance espositiva di THEVIEW scelta da Vittorio Dapelo è un ex-fiorista, un padiglione di ferro e vetro di fronte al mare per il quale abbiamo destinato un progetto preciso “Sant’Ilario Pavilion”.

Daniel Gustav Cramer,   Untitled (Carrara) I-IV",   2015 Produced by THEVIEW Studio for Sant’Ilario Pavilion,   October 2015
Daniel Gustav Cramer, Untitled (Carrara) I-IV”, 2015 Produced by THEVIEW Studio for Sant’Ilario Pavilion, October 2015

ATP: Un’altra fondamentale caratteristica di THEVIEW è il suo essere ‘periferico’ rispetto ai circuiti dell’arte contemporanea italiana. Situato a Sant’Ilario, vicino a Genova, lo spazio è a circa due ore di macchina da Milano. A tuo parere, quali sono gli aspetti positivi dell’essere ‘ai margini’ dei percorsi d’arte?

FG: Vittorio Dapelo si chiede spesso: “Qual è il numero minimo di persone che può comporre “un pubblico”? Tre persone sono un pubblico?” “Anche una sola persona, se ben scelta, è e sarà il nostro pubblico”.  Come sappiamo la centralità geografica oggi è un valore relativo o che per lo meno va ridisegnato. Avere una galleria a Manhattan per poi vendere a collezionisti newyorkesi solo ad Art Basel Hong Kong è uno dei manifesti possibili dei meccanismi perversi del sistema dell’arte oggi. Le mostre in galleria oggi hanno decisamente – tranne in rari casi – perso in tensione rispetto a solo dieci anni fa. Viviamo tutti in attesa della prossima mossa di un grande collezionista o di Frieze o Fiac consapevoli del ruolo della fiera oggi come motore di tutto. THEVIEW prova a infilarsi tra gli ingranaggi di questa macchina complessa da lontano, dai bordi del sistema, nel tentativo di sostenere gli artisti e invitarli a sperimentare. L’opera è sempre l’unica e sola protagonista di tutto.

ATP: Oltre alla produzione oggettuale delle opere, tanta parte del programma è dato alla documentazione video o cinematografica delle opere. Mi spieghi la scelta di dare tanto spazio alla registrazione video delle varie fasi di produzione dei lavori?

FG: La struttura del progetto fondato e concepito da Vittorio è molto semplice. Gli artisti invitati sono ospitati in Studio per periodi di tempo calibrati sulle tempistiche dei pezzi o dei progetti da produrre. Non si tratta quindi di una residenza – ci tengo a sottolineare – ma di una permanenza produttiva, per esplorazioni mirate o lavori in corso da seguire: Ida Ekblad è rimasta a Sant’Ilario quasi tre mesi per produrre i suoi pezzi per la Biennale del 2011, Vanessa Beecroft ha trascorso solo poche ore nella villa sul mare che ospita THEVIEW. Lo Studio condotto con un team che include Anna Costantini, Barbara Beltrametti e Michela Contu, in alcuni casi produce dei pezzi singoli o delle edizioni – recentemente la serie dei Portacipria (2012-2015) di Ettore Spalletti – in altri casi dei progetti espositivi di varia natura. La prima serie di esperimenti di mostra alla quale stiamo lavorando è “Sant’Ilario Pavilion”. Il Pavilion è un cabinet vuoto e trasparente attraverso il quale è possibile intravedere l’orizzonte e il paesaggio ligure dei sobborghi di Genova e della riviera di Levante sino a Portofino. Le opere prodotte dallo Studio sono pensate per questa stanza trasparente che è allo stesso tempo un belvedere e una micro architettura della suburbia ligure. Ogni lavoro rimane “in mostra” il tempo necessario o poco più alle riprese di un film il cui trailer è poi online sul sito di THEVIEW e si distribuisce digitalmente di condivisione in condivisione. Ecco tornare il tema del pubblico: forse poche persone scelte o i passanti vedranno l’opera, ma un numero presumibilmente molto vasto incrocerà i trailer dei film online. L’intento è doppio: da un lato volevamo esplorare un tema cruciale oggi come quello del rapporto ambiguo tra documentazione e presentazione. Le immagini delle opere disseminate online, comprate online, inserite in mostre nel mondo solo dopo essere state semplicemente viste online sono solo documenti o sono esse stesse opere?

Dall’altro lato il film era lo strumento più adatto per contenere tutti gli aspetti narrativi che un progetto come “Sant’Ilario Pavilion” contiene. I film non hanno e non avranno necessariamente un focus sui processi produttivi: la nostra commissione è aperta e muove dalla semplice idea di filmare l’opera. Registi e artisti sono liberi di interpretare questo tipo di committenza. Si tratta di un esperimento del quale eravamo curiosi di conoscere gli esiti: mi è sembrato interessante provare a capire in che modo la produzione di un’opera potesse essere influenzata, già nella sua concezione, dalla possibilità che la sua ultima presentazione sia semplicemente cinematografica. L’opera di Stucchi sta nascendo proprio in questa chiave.

Peter Wächtler ha suggerito Hans-Christian Lotz per il suo film: lo sguardo di un amico, ma anche di un altro artista e il film mescola immagini di produzione con alcune sequenze girate nel Pavilion e immagini di un gruppo di surfisti in acqua, strane presenze in mezzo alle onde del mare. Lo stesso mare verso il quale la scultura di Wächtler sembra romanticamente guardare. Zayne Armstrong, regista californiano chiamato da Ian Law a lavorare sul suo pezzo, ha deciso di girare un breve film-fiction: la ricostruzione del processo di genesi delle sue due piccole sculture in marmo prodotte dallo Studio. Il lento avvicinamento alla concezione dell’opera per un artista è una fase enigmatica: il film di Zayne Armstrong racconta il desiderio e la ricerca vuota di un’opera che ancora non c’è.

ATP: Mi racconti l’esperienza con l’artista Haris Epaminonda?

FG: Il lavoro di Haris Epaminonda ha messo in relazione Sant’Ilario Pavilion con una delle più interessanti – e ancora troppo poco conosciute – architetture moderne genovesi: il Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone disegnato da Mario Labò e costruito alla fine degli anni ’50. Haris ha lavorato nel Pavilion a Sant’Ilario proponendo un’installazione che aveva il suo centro nella composizione di un prototipo di suikinkutsu, un oggetto musicale che abita i giardini tradizionali giapponesi. Epaminonda ne ha allestito uno a Sant’Ilario utilizzando delle giare da olio liguri. L’opera produce un suono liquido e cristallino che si riesce a percepire solo entrando nella piccola architettura: il padiglione stesso è stato trasformato in uno strumento musicale. E quel suono, quello delle gocce d’acqua dello suikinkutsu, sarà usato da Haris nelle tracce audio del film al quale lei stessa sta lavorando e che costruirà un legame sottile tra il suo lavoro per il Sant’Ilario Pavilion e il Museo d’Arte Orientale. Haris ha filmato in Super8 l’interno del Chiossone e i bronzi della sua meravigliosa collezione tra il tramonto e la notte. Il 31 Luglio 2015, era notte di luna piena. Sant’Ilario Pavilion e il Museo sono entrambe due architetture-belvedere attraversate da luce naturale. La luce solare e quella notturna sembrano guidare i pezzi esposti verso una trasformazione o lenta metamorfosi. Non so raccontarti di più perché il film è in lavorazione in queste settimane. Appena pronto un frammento sarà online su theviewstudio.com insieme alle foto del back stage di Delfino Sisto Legnani.

Per THEVIEW come producer, la sfida più difficile e seducente è stata senz’altro quella di riuscire a mettere in condizione l’artista di poter abitare e filmare un Museo illuminato dalla luce lunare fino a notte fonda. Il pezzo di Haris Epaminonda prodotto da THEVIEW è ora in mostra a Parigi a Le Plateau, Frac Ile-de-France.

Ian Law,   KEN,   2014 -  Produced by THEVIEW Studio for Sant’Ilario Pavilion - June 2015 © Photo by Delfino Sisto Legnani
Ian Law, untitled, 2014 – Produced by THEVIEW Studio for Sant’Ilario Pavilion – June 2015 © Photo by Delfino Sisto Legnani

ATP: Come hai scelto gli artisti che si sono avvicendati e si alterneranno in uno spazio come quello di Sant’Ilario Pavilion? C’è un preciso percorso programmatico o la scelta è caduta in modo aleatorio?

FG: Condivido la scelta degli artisti con Vittorio Dapelo e lo staff di THEVIEW. Cerchiamo degli autori che immaginiamo possano essere sedotti e capire bene l’atmosfera di tutto il progetto. Daniel Gustav Cramer ha da sempre studiato l’idea stessa di paesaggio, Haris Epaminonda e il suo lavoro sul rapporto tra opera e display, immagine filmica e oggetto, ci sembrava perfetta per Sant’Ilario Pavilion. Ian Law è stato subito affascinato dalla possibilità di poter trasfigurare per il padiglione il suo lavoro recente sulla fotografia – sulla figura di un modello in posa – in una coppia di piccole sculture in marmo, ambiguamente al limite tra la classicità e il mondo pop delle bambole Ken di plastica. Davide Stucchi – che esporrà a Novembre i suoi pezzi nel cabinet davanti al mare – investiga con il suo lavoro il rapporto tra documentazione e presentazione, scultura e fotografia. Penso al suo lavoro per Dior (Lady Dior as seen by, 2012) o a opere come Gap’s eye (2014). Per un progetto come Sant’Ilario Pavilion che muove, tra i tanti temi, anche dall’idea di invitare gli artisti a immaginare un’opera che dopo la sua temporanea installazione viaggerà e sarà diffusa nel mondo attraverso un breve film ci sembrava, tra gli emergenti italiani, l’artista ideale.

ATP: Già dallo statuto fondante di THEVIEW, si evince una particolare attenzione al processo, all’approfondimento e alla messa in discussione del ‘fare arte’. Si legge: “Fondato con la ferma convinzione che la prossimità e il sostegno all’opera d’arte potrebbero essere un requisito necessario per la costruzione di uno sguardo critico”. Concretamente mi racconti un’esperienza esemplare di questa vostra ‘mission’?

FG: Nel Duomo di San Lorenzo a Genova, insieme a Peter Wächtler – artista che ho fortemente voluto per questo progetto per un suo primo lavoro in Italia –, ci siamo fermati molto tempo ad osservare le teche in ferro del Tesoro disegnate da Albini e i bassorilievi in bronzo all’ingresso della sacrestia. Tutte le teche di Albini per la cripta dove è custodito il Tesoro sono caratterizzate da profili in ferro nero: oggetti tecnici precisi, moderni in modo sublime, ma progettati per un sotterraneo scuro e quasi primitivo dove custodire pezzi di medioevo e frammenti antichi di reliquie e sacrari. Dopo ore di discorsi e riflessioni ci siamo accorti che tutti i profili delle teche erano martellinati: quasi resi grezzi, battuti e ribattuti. La modernità più dura e tecnologica del tempo (1952 – 1956) era stata ammorbidita, resa plastica, arcaica a colpi di martello. Forse l’idea di usare per la prima volta il bronzo e di produrre la prima opera della serie delle “Mascot” è nata per Peter anche in quel luogo, scoprendo questo angolo di città. L’opera si è generata esplorando, discutendo insieme a Vittorio Dapelo di possibili formati, materiali, superfici, patine e atmosfere. La scultura in bronzo Mascot (sea otter) (2015) di Wächtler – animale semi-marino che sembra contenere nel proprio sguardo malinconico verso il mare cultura popolare, storie di strada e narrazioni antiche – nasce dopo molti viaggi e incontri, esperimenti in fonderia e ragionamenti sulla piccola architettura del nostro Pavilion.

La prossimità ai processi e alle vicende produttive legate alla genesi del lavoro, la tensione e il fuoco costante sull’opera sono state per noi condizioni rivelatrici per entrare, in questo caso, nella narrativa di un artista che fa del racconto nel senso più alto, folkloristico, e popolare il tema centrale del proprio lavoro. Il processo, l’opera e il suo farsi precipitano, diventano concreti e accadono, in aggiunta, in un luogo che non è nè white cube, né vetrina, né dependance di museo, ma uno spazio semplice nel quale abbiamo deciso – coscientemente –, di provare a soverchiare le gerarchie, dimenticare tutti i meccanismi del sistema e abitare una condizione precisa e di confine, tra il cinema e la scultura, la contemplazione del paesaggio e l’idea stessa di “display”.

ATP: Gli artisti invitati sono sollecitati a interagire e collaborare con maestranze e artigiani locali. Anche in questo caso, come avvengono questi contatti? Come li trovate e coinvolgete?

FG: THEVIEW svela agli artisti alcuni luoghi e possibilità produttive, ma sono loro in molti casi a chiederci dove o con chi potrebbero realizzare un’idea. In alcuni circostanze i siti di produzione sono vicini a Sant’Ilario, ma non necessariamente. Ci muoviamo generando relazioni o aiutando gli autori a mettere a fuoco panorami possibili. Daniel Gustav Cramer ha trasformato il Pavilion in una sorta di storage temporaneo di marmi scelti. I blocchi sono stati selezionati dall’artista tra le cave di Carrara grazie al prezioso aiuto di laboratori con i quali Vittorio Dapelo lavora da tempo e hanno poi viaggiato dalla Liguria a Zurigo per una mostra personale di Daniel presso BolteLang Galerie, che THEVIEW ha co-prodotto. Il film di Cramer per il progetto Sant’Ilario Pavilion avrà come cuore narrativo il viaggio dei suoi pezzi ed è possibile includa altre immagini e frammenti di luoghi. Ad esempio abbiamo girato con un drone alcune scene tra le stanze seicentesche di Villa Durazzo a Santa Margherita: con la stessa cura con la quale cerchiamo di mettere a disposizione per gli artisti maestranze e materiali, cerchiamo di allestire scenari funzionali ai progetti. Il ruolo di THEVIEW è forse simile a quello di un produttore cinematografico: mettere a disposizione strumenti tecnici, economie e pensieri.

ATP: Quali progetti avete in serbo per il futuro prossimo?

FG: Stiamo lavorando a un’edizione di un’emergente artista italiana come Serena Vestrucci che esplorerà temi quali ìl rapporto tra opera e Tempo, tra produzione e consumo, la figura dell’artista come lavoratore ovvero la metamorfosi di un modello economico, così come il problema dell’iperproduzione e della visione oggi. L’edizione mescolerà il tono quasi elegiaco di una serie di disegni dell’artista con la costruzione di un discorso critico sulle questioni della dispersione dell’opera e le meccaniche della sua produzione. Stiamo lavorando alla selezione di altri artisti per Sant’Ilario Pavilion e iniziando ad immaginare il libro che ne chiuderà la serie e raccoglierà le fila del progetto, ma ci sono altre idee alle quali stiamo lavorando. L’intento di THEVIEW è quello di cambiare spesso formato, provare sempre ad allestire scenari nuovi. Speriamo di riuscirci.

Peter Wächtler,   Mascot (sea otter),   2015 -  Produced by THEVIEW Studio for Sant’Ilario Pavilion,   June 2015 © Photo by TheView Studio
Peter Wächtler, Mascot (sea otter), 2015 – Produced by THEVIEW Studio for Sant’Ilario Pavilion, June 2015 © Photo by TheView Studio
Haris Epaminonda,   Untitled (Suikinkutsu),   2015 -  Produced by THEVIEW Studio for Sant’Ilario Pavilion - August 2015 © Photo by Delfino Sisto Legnani
Haris Epaminonda, Untitled (Suikinkutsu), 2015 – Produced by THEVIEW Studio for Sant’Ilario Pavilion – August 2015 © Photo by Delfino Sisto Legnani