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E’ stata inaugurata il 4 novembre 2015, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Rinascimento: la prima personale in Italia dell’artista argentino Adria?n Villar Rojas (1980). Emerso alcune anni fa per le sue opere di forte impatto – indimenticabile la sua presenza nel Padiglione Argentino nella Biennale di Venezia del 2011, ma potremmo citare anche le sue installazioni a Documenta 13 nel 2012, il coinvolgente allestimento ‘La inocencia de los animales’, MoMA PS1 2014 e il suo branco di animali galleggianti alla recente Biennale di Istanbul – Villa Rojas si sta rivelando con un originale e carismatico “racconta-storie”. Abbiamo pubblicato di recente una sua intervista in occasione della vincita del Prix Canson. Raccontava l’artista: “La tecnica dello “scouting”, per usare un concetto cinematografico, è diventata la prima fase dei miei progetti: quella in cui pianto il primo seme nel luogo e il luogo pianta il primo seme nella mia mente. Dopo quel coinvolgimento iniziale con il posto, l’albero con tutti i suoi rami comincia a crescere e non so mai quanto sarà alto o quanti rami avrà. Pertanto, non si tratta né di quello che voglio fare nel luogo, né delle necessità del posto, ma di ciò che il luogo merita. Quindi il progetto è il risultato di una complessa negoziazione con il contesto.” Per leggere l’intervista >
La mostra “Rinascimento”, a cura di Irene Calderoni, parte dall’elaborazione di un progetto passato – quello sviluppato per la Biennale di Istanbul – e la mostra presentata a New York, “Two Suns” alla Marian Goodman Gallery. Abbiamo posto alla curatrice della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo alcune domande su questo lungo progetto, iniziato a Torino e sviluppato per lunghi mesi.
ATP: Il titolo della mostra che la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo ospita nei suoi spazi di Adriàn Villar Rojas – Rinascimento – è decisamente rischioso. In Italia, a maggior ragione, dove il periodo in questione è stato tra i più alti in merito alla produzione artistica, letteraria e in generale culturale. Mi racconti perché avete scelto questo titolo, sia in relazione alla storia dell’arte, sia, ovviamente, al lavoro che l’artista argentino propone a Torino?
Irene Calderoni: La sua mostra precedente, “Two Suns”, aperta a settembre da Marian Goodman a New York, aveva per protagonista proprio un’icona del Rinascimento, il David di Michelangelo. Riprodotto più grande del vero, il colosso giaceva su un fianco, addormentato, vulnerabile. A parte il confronto con una delle opere più celebri della storia dell’arte occidentale (che l’artista ha espressamente cercato per “mettersi nei guai”), è il tema dell’eredità del passato che emerge con forza dall’opera di Villar Rojas. Lo scorrere del tempo è un’ossessione centrale nel suo lavoro, che cerca di dare forma tangibile ai processi di mutamento, decadimento e rinascita cui è destinata ogni forma di vita. In parte, quindi, il titolo della mostra di Torino viene da New York, ma è anche nato come omaggio alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, che quest’anno festeggia 20 anni di vita. La pratica di Villar Rojas esprime sempre un’attenzione particolare al luogo, allo spazio fisico e simbolico in cui interviene, e l’idea che questa mostra fosse un’occasione per l’istituzione di ripensarsi, di vedersi in modo nuovo, è all’origine di questo titolo.
ATP: E’ molto poetica la definizione degli scenari che Villa Rojas da vita con le sue opere: “Film fatti di sculture”. Mi spieghi, dal tuo punto di vista come curatrice del progetto, a cosa si riferisce in particolare questa definizione?
IC: Questa metafora è stata usata dall’artista stesso per render conto della dimensione processuale e della qualità narrativa delle sue installazioni, in cui ciascun elemento è sempre posto in una relazione significante con gli altri, proprio come in un montaggio cinematografico. Considera il suo lavoro a documenta 13, “Return the World”, che sfruttando lo sviluppo in verticale delle Weinberg Terraces, dava forma a diverse sequenze, incentrate sul rapporto tra scultura figurativa e scultura astratta, tema principale cui si intrecciavano numerosi altri spunti narrativi, storie parallele, episodi e visioni, in un crescendo di tensione che portava al paesaggio delle campane abbandonate e alla scena finale dell’ultima coppia sulla terra. La qualità cinematica del lavoro di Villar Rojas ritorna nella prospettiva dello spettatore, come specifica modalità di esperienza delle sue opere.
ATP: Emerge, dalle grandi opere dell’artista, una visione della società contemporanea quasi cupa, rovinosa, in altre parole post-apocalittica. Sondando la sua ricerca, hai scoperto perché l’artista predilige degli scenari così catastrofici?
IC: Direi che la sua visionarietà dai toni decisamente dark non dipende da una lettura negativa del mondo contemporaneo, come invece nella tradizione della narrativa fantascientifica, letteraria o cinematografica, che proietta in una altro contesto temporale le angosce del presente. Gli piace immaginare la fine del mondo, sicuramente la fine della civiltà umana, ma questo non deriva da un’analisi socio-politica della realtà odierna, quanto da un senso del tempo che sovrasta quello dell’uomo. E’ un tempo geologico, che assimila tutto nella propria logica, che rivendica una supremazia sulla dimensione umana della Storia.
ATP: In merito all’utilizzo di un materiale ‘povero’ ma molto duttile come l’argilla, perché l’artista lo predilige? Oltre all’alta malleabilità che gli consente di costruire sculture imponenti, ci sono anche altri motivi per questa sua scelta?
IC: Da un lato, l’impiego dell’argilla è il segno stesso della cultura, della civiltà, della presenza umana. D’altro canto, l’uso che ne fa Villar Rojas trasforma questo materiale in un simbolo dello scorrere del tempo, della caducità, del predominio delle forze naturali sulla volontà umana. Le crepe, le fratture che contraddistinguono le sue sculture e che si approfondiscono nel corso del tempo espositivo, determinate dall’impiego di una miscela di argilla cruda e cemento, caratterizzano la natura di oggetti che nascono già antichi, già in rovina, portando i segni della propria decadenza in fieri.
ATP: Perché l’artista considera il team che lavora con lui per la realizzazione delle grandi installazioni “compagnia teatrale itinerante”?
IC: La logica del lavoro in team è centrale per il lavoro di Villar Rojas, è un elemento importante di produzione di senso. La metafora teatrale (o talvolta cinematografica) si riferisce al ruolo specifico che viene svolto dai diversi componenti del gruppo. Ciascuno di loro, nella propria funzione, ha la responsabilità di interpretare la poetica dell’artista, la visione complessiva di un progetto, contribuendo con la propria professionalità e creatività. Si muovono in gruppo, proprio come una compagnia, una comunità nomade, viaggiando da un luogo a un altro, da un progetto a quello successivo. A Torino sono venuti in sette più l’artista, hanno vissuto un mese e mezzo in città, lavorando nello spazio espositivo alla preparazione e produzione dell’installazione. Per chi ha collaborato con loro, in primis il personale tecnico della Fondazione, è stata un’esperienza molto intensa, di condivisione e coinvolgimento nel progetto. E’ evidente, nel vederli lavorare insieme, il carattere performativo di questo processo, all’interno del quale Villar Rojas assume la posizione di un regista.
ATP: Mi hanno già ribadito che lascerete trapelare pochissimo prima dell’opening della mostra, ma mi puoi raccontare come hai vissuto tu la sua realizzazione? Visto il lungo periodo di preparazioni – mesi di lavoro – ci sono delle vicende o delle circostanze che ti hanno particolarmente coinvolto nella gestazione dell’opera?
IC: Quando lavori con un artista ambizioso come lui, che in ogni progetto cerca di spingersi oltre, di mettere alla prova se stesso e l’istituzione che lo ospita, il processo che porta alla mostra è sempre molto avventuroso. Sei chiamato a collaborare con, e in parte a dar vita a un vero e proprio cast per la realizzazione del progetto. La ricerca diviene in questo senso una fase cruciale del lavoro, cercare oggetti, luoghi, persone, aiutare l’artista a mettersi in relazione con un contesto, a fare delle scoperte che diventeranno elementi costitutivi del progetto.
ATP: E’una prassi consueta nella ricerca di Adrian Villar Rojas realizzare opere in stretta relazione non solo con lo spazio che le ospita, ma anche mantenendo un nesso con i lavori eseguiti da precedenti esperienze. Come se ogni mostra fosse un ‘episodio’ di una racconto molto più ampio. In merito a questa mostra, mi racconti a grandi linee i legami con queste due relazioni (memoria dell’esperienza precedente – influenza dello spazio in Fondazione o più in generale Torino)?
IC: La relazione con questo luogo è stato il primo tassello, a partire dai suoi sopralluoghi in Fondazione molto tempo prima che partisse la produzione effettiva. La sua lettura dell’architettura di Claudio Silvestrin ha portato a pianificare una serie di interventi sullo spazio che sono divenuti parte integrante del progetto. Dall’altra parte, il cuore della mostra è nato questa estate in Turchia, mentre lavorava al progetto per la Biennale di Istanbul inaugurata a settembre. La fase di ricerca, cui ho accennato sopra, è partita da là, dai luoghi e dagli incontri scaturiti da quella esperienza.