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Monasteri, bastioni, palazzi storici, antiche domus della Bergamo alta e persino una cannoniera: luoghi insoliti, spesso poco conosciuti ai più. Una delle caratteristiche fondamentali di Contemporary Locus è proprio quella di vivificare luoghi segreti e spesso di notevole rilevanza storico artistica. Alla densità culturale di questi siti ‘segreti’ legati ai tempi andati, il progetto somma un altro tipo di densità tutta contemporanea. Giunto alla nona edizione e a cura di Paola Tognon, Contemporary Locus presenta un nuovo progetto con Marie Cool e Fabio Balducci – artisti che vivono e lavorano tra Francia, Germania e Italia da oltre vent’anni – in un spazio disvelato appositamente per questa occasione: l’ Area Tesmec, spazio della periferia urbana di Bergamo che consiste in un vasto complesso industriale in disuso. Cool e Balducci propongono un progetto site specific che rianima, attraverso opere e azioni agite in prima persona, parte dei ritmi di lavoro dell’Edificio 1 – ex palazzina uffici – del complesso ex-industriale.
Discreti e silenziosi – in perfetta sintonia con la loro rarefatta ricerca – Cool e Balducci hanno delegato alla curatrice della mostra Paola Tognon, il compito di raccontare e motivare molte scelte legate al progetto che prende avvio dal 28 settembre al 15 novembre 2015.
ATP: Una domanda che esula dal progetto di Marie Cool e Fabio Balducci, in senso stretto. Perché gli artisti non rilasciano interviste? Più in generale, che opinione hai degli artisti che si ‘negano’?
Paola Tognon: La tua domanda apre a molte riflessioni. Ho incontrato artisti che amano farsi intervistare o, più in generale, parlare e scrivere del proprio lavoro; altri che sono restii; altri ancora che non si danno mai alla parola scritta o registrata. Artisti che fanno della parola scritta una parte consistente della propria pratica, altri che la negano obbligando “altrove” la nostra attenzione. Non ho pregiudizi al merito. Ritengo che sia diritto dell’artista scegliere e corrispondere alla strategia più consona al proprio lavoro e alla propria personalità.
Bisogna però dirci che il caso delle interviste agli artisti visuali è piuttosto particolare, potrebbe dirsi tautologico: si chiede all’artista di fare l’artista e in parallelo di auto-referenziare, attraverso un altro linguaggio, lo stesso lavoro. Si domanda di svelare fonti, logica, orientamento, tempi, strategie, casualità, materia e forma. Ho letto interviste interessanti fatte ad artisti (un accesso a elementi di senso, profondi e paralleli), altre invece che mi hanno fatto perdere ogni interesse al lavoro. E’ giusto questo? Non so. Ma riflettere sull’argomento significa porsi dentro il dibattito contemporaneo, e vale in parallelo per le immagini. Interviste agli artisti e immagini alle opere: le riflessioni si annodano in maniera concentrica e attuale.
Per quanto mi riguarda anche la pratica dello studio visit è una sorta di intervista a tutto campo. Se invece curo un progetto, credo utile confrontarmi con le volontà degli artisti. Se non rilasciano interviste e mi chiedono di rispondere “per loro” lo faccio: non rispondo “al loro posto” perché nessuna sostituzione di persona è credibile (a meno che non sia parte di una progettualità precisa). Mi sento autorizzata a corrispondere al mio compito di curatrice anche nella dimensione frontale, a volte autoriale. Ma non c’è alcuna sostizione.
Marie Cool e Fabio Balducci, gli artisti di contemporary locus 9, non accettano interviste su progetti o mostre in corso, delegano al curatore, e lo dichiarano sin dall’inizio. In ogni caso, tempi e geografia permettendo, parlano e si confrontano lungamente con chi desidera farlo. Più nello specifico: Marie Cool e Fabio Balducci non spiegano mai il loro lavoro. Lo fanno. Circa i loro presupposti, posizioni e logiche, si esprimono attraverso riferimenti letterari, filosofici, politici, mediali: non prendono a prestito altre discipline, non fanno camouflage, non s’inventano quali poeti o filosofi. Fanno il loro lavoro, nel loro linguaggio. Marie e Fabio mi hanno chiesto di corrispondere alle interviste legate al progetto contemporary locus 9. Lo faccio, con la mia testa, prima ancora che con la mia voce o la mia tastiera. Questo è il patto, rischioso per entrambi: corrispondente a una prassi, nel rispetto dei ruoli che ciascuno di noi sceglie di giocare.
ATP: Un’altra domanda prima di entrare nel merito del progetto dei due artisti. La scelta per Contemporary Locus 9 è caduta su ex-area industriale. Perché avete deciso questo particolare luogo, anche in relazione al progetto presentato dagli artisti?
PT: L’area Tesmec è un’immensa area industriale dismessa alle porte di Bergamo, che ha fortemente influito sulla nascita del quartiere cittadino limitrofo, ieri di operai e impiegati, oggi “residenziale”. La produzione Tesmec si è trasferita più lontana, ma l’aspetto interessante è che i proprietari dell’area non hanno abbattuto i capannoni per farne palazzine o centri commerciali (secondo gli standard più redditizi), al contrario hanno dato avvio ad alcune trasformazioni per accogliere attività produttive di nuova generazione. Oggi vi operano 8 diverse attività, un’area ancora ridotta nell’insieme della dismissione, ma la volontà è chiara. Contemporary locus ha scelto di agire nella “stecca” vuota fronte strada: un’enorme palazzina uffici su due piani. Era il cuore dell’azienda, oggi è uno spazio vuoto. Conosciuto più a fondo il lavoro di Cool Balducci ho proposto loro di intervenire nella Palazzina Uffici. Credo che vi sia una presa in carico, su diverse prospettive, di una riflessione comune.
ATP: Per molti versi, Cool e Balducci, con le loro ‘azioni’ vivificano o riportano in vita gli spazi dell’Edificio 1 (palazzina uffici) dell’Area Tesmec. In che modo compiono questo risveglio?
PT: Non so se si tratti di “vivificare” o di trasformare. Vivificare potrebbe avere una valenza positiva rispetto al lavoro che si svolgeva all’interno della palazzina uffici. E non sono certa che questa sia la volontà degli artisti. Diciamo che gli artisti si appropriano delle sue regole passate e della sua memoria. Hanno chiesto di non cambiare nulla, insieme stiamo pulendo alcune aree, ma l’approccio è volutamente di rispetto, potrei dire – prendendo a prestito un loro termine – parassitario. La racconto da un altro punto di vista: potrebbero invadere in assoluta libertà 3.000 metri quadri di vuoto con dei segni forti, partecipare all’opening e lasciare noi alla meraviglia o all’indifferenza dei loro gesti. Invece si adoperano ad abitare il luogo, giorno per giorno, in prima persona, con il lavoro di artisti.
ATP: In che senso è da intendere il fatto che gli artisti “svolgono il loro lavoro”?
PT: Nel senso concreto: gli artisti vi lavorano 8 ore al giorno dal lunedì al venerdì, per due settimane (28 settembre – 11 ottobre). Con o senza pubblico, con il caldo o con il freddo, vi svolgono un lavoro che non si racconta, si fa. Il progetto si sviluppa in due tempi: dal 28 settembre all’11 ottobre e dal 12 ottobre al 15 novembre.
ATP: Mi racconti in cosa consistono questi due parti e perché avete deciso di suddividere il tempo espositivo?
PT: Dal 12 ottobre al 15 novembre lo spazio sarà riempito da installazioni, video e video-documentazioni del lavoro fatto in precedenza. In pratica un’altra mostra, strettamente legata alla prima, con apertura il sabato e la domenica. Ciò sarà in loro assenza, secondo la richiesta e la volontà di Marie Cool e Fabio Balducci.
ATP: Nell’introdurre il loro lavoro, ma soprattutto della loro poetica, hai utilizzato la metafora della luce Me la spieghi?
PT: Dal mio punto di vista Cool e Balducci rispondono perfettamente a questa metafora. Sanno abitare il buio ed esprimerlo, nel silenzio, nell’assenza di speranza, nella sua immensa possibilità di vedere oltre, nell’utopia. Sanno abitare la luce e la sua capacità di mettere a nudo la realtà delle cose. Le loro azioni sono il continuo passaggio dalla luce all’ombra, dal bianco al nero. E viceversa. Vivono la luce, ma ne contengono l’ombra. Non mediano, non sfuggono alla prospettiva della limitatezza. Per questo agiscono il lavoro. Si è mai visto un giorno che non c’è?
Se vuoi conoscere il loro lavoro devi assistervi. Se vuoi comprarlo, qualora fosse in vendita, devi rivolgerti a loro, saranno loro a stabilirne l’esistenza. Ci sono delle video documentazioni. Da sole viaggiano su un altro binario. Sono un racconto. Per essere un’opera aprono un contenzioso con la loro volontà e una struttura ben precisa. Mi pare un diritto, come quello di lavorare o non lavorare. Ma ciò non ha fermato istituzioni e musei.