ATP DIARY

Formafantasma ☛ De Natura Fossilium #miart2014

Tra i vari appuntamenti dei miartalks dedicata al design – curati da Maria Cristina Didero – c’è ne uno in particolare che mette a confronto due generazioni di designer, Alessandro Mendini e lo studio Formafantasma (Andrea Trimarchi e Simone Farresin). L’appuntamento è previsto per sabato 29 marzo dalle 17:45 alle 18:45 e sarà moderato da […]

Formafantasma – Di Natura Fossilium - Gallery Libby Sellers
Formafantasma – Di Natura Fossilium – Gallery Libby Sellers

Tra i vari appuntamenti dei miartalks dedicata al design – curati da Maria Cristina Didero – c’è ne uno in particolare che mette a confronto due generazioni di designer, Alessandro Mendini e lo studio Formafantasma (Andrea Trimarchi e Simone Farresin). L’appuntamento è previsto per sabato 29 marzo dalle 17:45 alle 18:45 e sarà moderato da Marco Sammicheli.

I formafantasma sono presenti nello stand della galleria londinese  Gallery Libby Sellers, con ” De Natura Fossilium“: un progetto speciale caratterizzato da una approfondita ricerca su un materiale molto particolare, la lava. Tutti i pezzi in fiera sono ricavati dalla lava dell’Etna e frutto della fascinazione dei designer per la relazione imprevedibile che lega il processo di produzione alla forza superiore della natura.

ATPdiary ha intervistato i Formafantasma 

ATP: Il vostro duo unisce culturalmente tutta l’Italia, dal Veneto alla Sicilia, passando per Firenze. E ora vivete in Olanda. Come vi siete conosciuti?

FF: All’Isia (Istituto superiore per le industrie artistiche) di Firenze. Ci siamo incontrati lì. Durante gli studi abbiamo scoperto il Droog design e, in generale, il design olandese al Salone del Mobile. Abbiamo fatto un master alla Scuola di Design ad Eindhoven. Abbiamo avuto la sensazione di far parte di una generazione di designer molto diversa rispetto a quello degli anni precedenti e al design che si faceva in Olanda. Abbiamo deciso di iscriverci alla Design Academy di Eindhoven come un team e ci siamo in seguito diplomati con una tesi comune.

ATP: Perché vi chiamate Formafantasma?

Simone: Avevamo scelto questo nome quando eravamo ancora a Firenze. Poi abbiamo deciso di tenerlo perché il nostro modo di relazionarci al design non è formale, cioè, molti designer pensano molto, utilizzano molto tempo cercando di definire una forma, mentre il nostro tipo di ricerca è invece molto più concettuale. Facciamo un tipo di ricerca sui materiali e sul loro processo di lavorazione, quindi la realizzazione finale dipende da un processo, da una ricerca in altri campi. La forma, per molti versi, la consideriamo ‘fantasma’ perché può adattarsi o cambiare, non è il focus del nostro lavoro.

ATP: Il vostro luogo preferito è il ‘tavolo’. Ci sono designer che vogliono o vorrebbero cambiare il mondo, invece voi partite proprio dal tavolo, dove si mangia, si disegna, si studia, si progetta, ma soprattutto, attorno a un tavolo , si parla.

FF: Si costruisce il mondo, attorno al tavolo.

ATP: I vostri progetti nascono quindi in maniera dialogica, parlando.

Andrea: Una delle cose che caratterizzano il nostro modo di progettare è il modo in cui lavoriamo. Pensiamo spesso che, probabilmente, due teste facciano un buon designer. In realtà nessuno dei due ha particolari abilità: nessuno dei due sa disegnare benissimo, sa modellare bene ecc. Però abbiamo una grande affinità analitica, quindi prima di iniziare un progetto scriviamo, selezioniamo immagini e spunti, raccogliamo materiali vari, poi, come ultimo step, disegniamo. E’ anche per questo motivo che per noi la forma non è così essenziale nell’elaborazione di un progetto. Non è in ogni caso un punto di partenza.

ATP: A livello stilistico, infatti, le forme dei vostri oggetti sono spesso molto basic, semplici e immediate. Ad esempio, se guardiamo a un vostro vaso, esso ha spesso una forma quasi archetipica. Vi interessa più il processo, che non la forma finale.

Simone: La forma in se è sicuramente molto archetipica, in questo momento, ma non è detto che questo aspetto rimanga tale. Tutto dipende da cosa vogliamo veicolare come significato. Il focus non è la forma. La collaborazione tra noi due è indispensabile nella realizzazione dei progetti, tanto che abbiamo molte difficoltà ad avere altre persone coinvolte nel processo creativo.  Nella fase esecutiva ci possono essere persone che lavorano con noi, ma in fase ideativa e concettuale dobbiamo necessariamente essere solo noi due a sviluppare il concetto, perché sappiamo dove iniziare ma non sappiamo assolutamente dove finirà un progetto.

ATP: E’ come se l’esito di un progetto fosse una mezza via tra l’utilizzo giusto o sbagliato di determinati materiali. E’ probabile che l’esito di una determinata lavorazione sia spesso determinato dal caso. Penso alla lavorazione di un materiale imprevedibile, come la lava, ad esempio.. il risultato non di dipende unicamente da voi. Ma come il materiale evolve nella lavorazione.

Andrea: Nella maggior parte dei progetti che abbiamo realizzato abbiamo lasciato il materiale ‘parlare’. Questo aspetto, a volte, è per noi una fonte di estrema preoccupazione. Ad esempio, nel progetto Botanica, di qualche anno fa, abbiamo scoperto quasi a progetto finito che il risultato aveva un stile troppo Art Déco. Gli oggetti avevano una texture e delle trasparenze che richiamavo troppo delle lampade e dei vasi di Tiffany. Eravamo lontani da un’estetica che in quel momento  volevamo. I nostri oggetti sono assolutamente processuali.

Simone: Quando stiamo lavorando a un progetto nuovo, c’è un momento in cui ci rendiamo contro che il progetto sta prendendo una direzione, anche formale, che non ci aspettavamo. Spesso il risultato finale di un progetto non coincide con quello iniziale. Il lavoro può prendere direzioni inaspettate, ed è ciò che troviamo assolutamente interessante nell’idea di progetto.

ATP: Da una carrellata dei vostri progetti, è inevitabile che appaia una filo rosso. Il leitmotiv pare essere un aspetto antico unito all’idea d’avanguardia, una sorta di ‘archeologia del futuro’…. Guardate indietro per andare avanti.

Simone: Nei primi anni dello sviluppo del design industriale, la progettazione era una disciplina incredibilmente futuristica, positivista e che guardava a un’idea di processo molto lineare. Addirittura, negli anni ’60, il futuro, o meglio, le linee futuristiche, imperavano, penso a Giò Colombo. Non crediamo nell’idea di una progettazione lineare, dove il passato va scartato. Bisogna riguardare al passato per capire se ci sono delle altre possibilità. Nella disciplina del design, è fondamentale, per noi, il fattore ‘tempo’; il cuore del nostro lavoro è guadare al passato, ad aspetti inediti e meno noti della discipline del design. Crediamo che nel nostro lavoro ci si debba appropriare di estetiche esistenti e si debba le rimescolarle a seconda di ciò che si ha intenzione di veicolare con il progetto.

FORMAFANTASMA work of the project ‘Di Natura Fossilium’ Foto Luisa Zanzani  Courtesy Gallery Libby Sellers
FORMAFANTASMA work of the project ‘Di Natura Fossilium’ Foto Luisa Zanzani Courtesy Gallery Libby Sellers

ATP: Novità a tutti costi. Nel design, più forse che non in altri ambiti, è fondamentale rincorrere la ‘novità’. In realtà ripescare una tecnica del passato, desueta, può essere una grande novità.

Andrea: In questo momento, ad esempio, mentre noi stiamo guardando alle materie plastiche, ci sono i grandi centri di ricerca internazionali e molte aziende dove si stanno facendo ricerche indirizzate a scoprire nuovi modi di lavorazione e sintetizzazione delle materie plastiche. E’ a quel momento specifico che siamo interessati, quando le cose non sono state ancora scoperte, ma dove tutto è ancora in fieri.

Simone: Siamo interessati al ‘livello zero’, come ad esempio quando molte ricerche hanno cominciato a essere sviluppate, o quando queste stesse ricerche sono state scartate perché troppo piene di errori. Ecco, noi cerchiamo proprio quei punti ‘critici’ in cui i processi sono stati scartati perché imperfetti. Non ci interessa andare alla fonti di scoperte rivoluzionarie che sono diventate in seguito alla portata di tutti. Cerchiamo, paradossalmente, dei processi sbagliati, ma meritevoli di essere ripercorsi e approfonditi.

ATP: Ha da poco più di un mese aperto la vostra mostra allo Stedelijk Museum Den Bosch, dal titolo Prima Materia.

Andrea: A febbraio ha aperto un solo show al Stedelijk Museum Den Bosch. Per questa occasione, abbiamo presentato anche una pubblicazione che raccoglie i nostri progetti e una serie di testi di alcuni contributors, tra cui la critica di design del New York Times Alice Rawsthorn, la critica olandese Louise Schouwenberg, il giornalista Marco Petroni, accanto ai testi di Libby Sellers, Li Edelkoort e Joana Meroz, edito dalla case editrice olandese Lecturis.

Simone: Il progetto a cui stiamo lavorando invece in questo momento è ciò che presenteremo a Milano in due appuntamenti, al Miart e al Salone del Mobile. Alla fiera d’arte contemporanea Miart (28-30 marzo) prima, e al Salone del Mobile pochi giorni dopo, presenteremo un lavoro che ha come focus la lava e l’Etna. A questo progetto stiamo dedicando molto impegno, in quanto progetto nuovo.

ATP: Cosa ci raccontate della mostra Prima Materia allo Stedelijk Museum?

Simone: Il museo ci ha chiesto di fare una piccola retrospettiva del nostro lavoro. L’esibizione ha come titolo Prima Materia. Abbiamo scelto questo titolo in quanto evidente riferimento all’alchimia. Volevamo suggerire l’affascinante tema alchemico della trasformazione di materiali in oro. La prima materia era il primo stadio della ricerca.  Abbiamo voluto sviluppare la mostra in due parti: da una parte c’è la formalizzazione delle idee, quindi come elaboriamo il nostro lavoro; l’altra parte, invece, l’abbiamo sviluppata come un lungo corridoio dove ogni lavoro è rappresentato con quella che noi abbiamo chiamato ‘cloud’: in questi spazi raccogliamo tutto il materiale come immagini, prototipi, oggetti vari, video, audio che hanno implicazioni con i vari progetti. Non necessariamente, dunque, materiali con precise corrispondenze, ma un archivio di implicazioni e rimandi legati ai vari progetti. Questa parte dell’esposizione, per molti versi, mostra una sorta di ‘dietro le quinte’ dei nostri progetti; tutti quei riferimenti che, anche se non sono stati utilizzati, hanno in ogni caso contribuito a giungere al risultato finale.

ATP: Questa parte è “magmatica”, raccoglie immagini, sbagli, stimoli…

Simone: Esatto, anche perché quasi tutti i nostri progetti attraversano continui fallimenti. Ci capita spesso di sbagliare. Proviamo delle cose che poi non funzionano. Poi, tra tutti questi sbagli, spesso troviamo delle soluzioni estremamente interessanti. Questo modus operandi è usuale.

Questa è una parte della mostra, mentre l’altra, più disciplinata, è strutturata per presentare i nostri lavori assieme a dei video.

ATP: E’ come se voi vi foste posti delle domande molte semplici: come posso utilizzare il legno seguendo la sua natura? Cosa può raccontare il vetro? Come utilizzare la pelle in modo diverso? Cos’è la ceramica?

FF: La messa in discussione delle basi dei materiali, sbarazzarsi delle forme stereotipate per utilizzarle, lo stesso porre domande, anziché formulare risposte, è un’attitudine sicuramente più vicina all’arte che non al design. Ma per noi non c’è altrimenti, nel senso che abbiamo concepito da sempre un modus operandi di questo tipo: il progetto e la lavorazione determina una certa forma, e non il contrario. Il design, per lo meno nel passato, è stata una disciplina che ha dato molte risposte; nel nostro caso, non è così. I nostri progetti suscitano soprattutto domande.

ATP: Non vi spaventava fare una retrospettiva?

Andrea: Quella in Olanda non è una retrospettiva, è una ‘personale’. Ci piace avere la possibilità, dopo cinque anni di lavoro, di vedere tutti i nostri progetti assieme. Non ci è mai successo prima d’ora. Non siamo spaventati, anzi, siamo molto contenti. Ci piace l’idea che il nostro lavoro, con questa mostra, venga vissuto da un più ampio gruppo di persone. In modo da rendere il nostro lavoro più fruibile.

ATP: Nella vostra mostra oscillate un po’ tra il mondo del design e quello dell’arte. Siete emersi perché è come se aveste impostato una diversa velocità di marcia, sia nel progettare che nel produrre.

Andrea: Ci viene spesso posta la domanda se siamo più vicina all’arte o al design. Noi rispondiamo sempre che facciamo design 100%.

Simone: Quando il design è iniziato, molto designer erano artisti che vedevano l’industrializzazione dei prodotti come la possibilità per poter diffondere oggetti d’arte a un maggior numero di persone. Ora le cose sono un po’ cambiate, ma credo che quel tipo di atteggiamento non sia del tutto mutato.

ATP: Tempo fa il Rolling Stone ha incluso Studio FormaFantasma nella lista dei 20 progettisti più influenti per i prossimi 10 anni. A selezionarli Paola Antonelli, design curator al MOMA di New York e Alice Rawsthorn, design critic del NYT. Cosa si prova a essere nominati, da persone molto illustri, uno tra i 20 più promettenti  studi di designer del mondo?

Andrea: Molta contentezza, ovviamente. Quando è uscito quell’articolo, eravamo in un momento non proprio idilliaco ed esso ci ha dato una ‘scossa’ positiva. Ne avevamo bisogno perché è stata la conferma che quello che stavamo facendo stava andando per il verso giusto. Avevamo bisogno di supporto e questo è stato un riconoscimento inaspettato e molto positivo.

Simone: E’ difficile lavorare nel sistema del design contemporaneo e, a volte, si ha la necessità che qualcuno che ti dia una spinta per trovare la giusta direzione. Non è come nel mondo dell’arte dove è tutto riconosciuto e il sistema è più lineare, dove gli artisti lavorano con determinate gallerie, si fanno le mostre nei musei ecc. E’ un sistema che funziona. Nel mondo del design, quello più tradizionale, industriale, è difficile entrare, paga bene ecc. Poi però c’è il design di ricerca, nuovo, che deve essere sostenuto e supportato, non solo a livello economico ma anche critico. Non ci sono tanti curatori di design… Il mondo del design, per lo meno quello sperimentale che facciamo noi, lo percepiamo come era vista la fotografia oltre cinquant’anni fa, quando ancora non era riconosciuta come qualcosa di valido.

ATP: E quali sono, secondo voi, i caratteri peculiari da distinguere per comprendere il design contemporaneo e poterlo inserire in un sistema maggiormente organico?

Simone: Il design va letto sempre in un contesto. Quando lavoriamo per gallerie e musei, sviluppiamo certi concetti, quando invece ci relazioniamo con delle aziende anche il nostro lavoro cambia e cerchiamo di capire le esigenze dell’azienda.

Andrea: Quando ci relazioniamo con le aziende, non compiamo un atto rivoluzionario, bensì cerchiamo di introdurre in quel determinato sistema delle azioni, dei materiali o anche un modo di vedere le logiche di produzione nuovi e diversi rispetto al normale sistema di produzione. Cerchiamo di intervenire in modo sottile, in piccoli passi.

Per esempio, a volte, quando collaboriamo con un’azienda, anziché proporre un nuovo prodotto, lavoriamo sul loro archivio, per proporre magari oggetti già fatti riproponendoli però in una diversa prospettiva. Il nostro scopo non è principalmente consegnare dei progetti di prodotti finiti, come fa la maggior parte dei designer, bensì di proporre attitudini nuove per relazionarsi a un azienda. Pensiamo che sia fondamentale proporre un diverso modo di pensare la produzione, la lavorazione, la distribuzione degli oggetti, anziché concentrarsi solo sulle forme.

ATP: E questo significa creare nuovi modelli di business, no?

Simone: Secondo il nostro punto di vista, con le aziende, oggi come oggi, si possono proporre dei progetti ‘nuovi’ e sperimentali sono fino a un certo punto. Obbiettivamente. All’inizio, tutti i progettisti volevano lavorare con l’industria perché era un modo per democratizzare degli oggetti, mi riferisco al concetto utopistico del design democratico. Si è rivelato fallimentare perché, oggi, il design democratico è, per il 90% del mondo occidentale, quello dell’Ikea. Non siamo contro alla collaborazione con aziende per la produzione industriale, anzi, la sfida che vogliamo cogliere è quella di proporre dei business model diversi e, magari, ancora da inventare.

ATP: Parliamo ora del progetto che avete in serbo per Milano.

Simone: La prima presentazione del nostro nuovo progetto, De Natura Fossilium, sarà al Miart, e  pochi giorni dopo al Salone del Mobile. Al Miart saremo presenti nella sezione dedicata al design, con la nostra galleria londinese, Libby Sellers, e presenteremo alcuni pezzi. Al Salone, il progetto sarà ampliato e presenteremo tutta la serie di oggetti del De Natura Fossilium.

Il progetto, come altri che abbiamo già realizzato, è nato dalla fascinazione per la Sicilia, e in particolare per l’Etna e il distretto che gira attorno al vulcano. Abbiamo compiuto un’approfondita ricerca sulla lava come ‘materiale’ d’elezione per la realizzazione dei nostri oggetti.

Inizialmente volevamo intitolare il progetto ‘Grand Tour’: ci piaceva richiamare, con questo nome, il fenomeno del viaggio come forma di scoperta della natura in Italia. Ma anche richiamare l’aspetto turistico legato alle forme di “grand tour” contemporaneo.

Ci interessava puntare il dito sul cliché che al Sud non si produce nulla. In realtà, con il nostro progetto vogliamo, in modo simbolico, in qualche modo contraddire questo luogo comune.

ATP: Visivamente, a livello di immagine, cosa vi ha colpito dei vulcani?

 

Simone: Quando siamo andati a visitare l’Etna, la cosa che ci ha colpito molto (stava eruttando), è la mutabilità del paesaggio. Ad esempio siamo passati lungo una strada che, dopo poco, era completamente ricoperta di detriti. Ci piace pensare alla natura come a un minatore… La natura che “estende” il materiale. Ci piaceva l’idea che è la natura stessa che ci forniva il materiale per lavorare, un materiale che si deposita lì e che diventa paesaggio. E se trattassimo come una cava questo paesaggio cosa succederebbe?

ATP: Il cuore del progetto è la lava. Perché?

FF: Uno degli aspetti che più ci appassiona di questo progetto è proprio la lava, che è un materiale dalla forte energia, e dalle grandi potenzialità costruttive (oltre che distruttive), ma anche profondamente legato a un territorio; è anche il suo essere fortemente locale che ci interessa.

Da una parte dunque il progetto si caratterizza per una forte localismo, dato lo stretto legame con il distretto attorno all’Etna, e per un forte coinvolgimento internazionale: stiamo coinvolgendo un laboratorio a Venezia, un artigiano in Olanda che cercherà di lavorare la lava fusa e trattarla come fosse vetro, un ricercatore in Israele che sta cercando di sciogliere il basalto e, ancora, a Vienna siamo in contatto con un produttore di ottone. Questo progetto sta diventando qualcosa di enorme che coinvolge tantissime persone con diverse competenze.

Il progetto sarà poi completato anche da una piccole serie di immagini, realizzate da una fotografa che ci segue oramai da molto tempo, Luisa Zanzani, che mostrano sia l’Etna che Stromboli, altro vulcano da cui abbiamo tratto ispirazione.

Simone: Ci piace l’idea di lavorare ad un progetto iper-locale con una sorta di ‘famiglia’ globale. Per questo abbiamo collaborato con il centro di vulcanologia di Catania, con il museo olandese The Audax Textile Museum di Tilburg per la tessitura di fibre ottenute con la fusione delle rocce vulcaniche, con un laboratorio artigiano di Venezia e con il Glass  Museum a Leerdam (Olanda) per la fusione e la lavorazione di rocce vulcaniche come fossero vetro. Siamo anche in contatto con un esperto in stampa in 3d in Israele che ci sta aiutando a capire se è possibile usare i detriti delle esplosioni vulcaniche per produrre delle stampe…”

ATP: Sentite dunque forte anche il problema dell’identità, dell’appartenenza geografica.

Andrea: Noi ci sentiamo degli stranieri in patria, ma anche stranieri in Olanda. Dopo cinque anni che viviamo là, non abbiamo ancora imparato una sola parola di olandese. Non abbiamo cercato di integrarci, bensì siamo rimasti isolati per concentrarci nel nostro lavoro.

ATP: Riassumendo, i valori fondamentali del vostro lavoro sono i materiali, e la capacità di vederli da un punto di vista diverso da quello usuale, e la forza immaginifica, visionaria di questi stessi materiali, insieme al concetto di processo.

FF: Si. I materiali e il processo. La funzionalità viene spesso messa in secondo piano rispetto all’espressività dei materiali.

ATP: La sensazione che avete mentre lavorate ai vari progetti è dunque quella di scoprire una diversa anima del materiale, qualcosa in mutamento, che non era mai emerso prima?.

FF: Certo, come per esempio per quello che riguarda il progetto Charcoal al Vitra Design Museum, che voleva “riabilitare” il valore culturale del carbone e della sua produzione, e il progetto Craftica per Fendi, con l’accostamento di pelli pregiate dismesse dalla lavorazione e altri dettagli di animali e materiali rari e di valore, che si impreziosiscono a vicenda, per sottolineare le abilità dei professionisti che con questi materiali creano e l’intrinseco valore simbolico di tali materie.

FF: Perché no?

ATP: In che epoca vi sarebbe piaciuto nascere?

FF: Né Medioevo, né Rinascimento… Forse gli anni ’60 – ’70. Siamo affascinati dagli anni dei Radical, quando c’era ancora l’energia per cambiare il mondo. Per il design è stato un decennio molto importante… Oppure un bel ’68 … Che ci dia una bella scossa!

FORMAFANTASMA work of the project ‘Di Natura Fossilium’ Foto Luisa Zanzani  Courtesy Gallery Libby Sellers
FORMAFANTASMA work of the project ‘Di Natura Fossilium’ Foto Luisa Zanzani Courtesy Gallery Libby Sellers