È il 1998 quando Nicolas Bourriaud pubblica “Esthétique relationnelle” (Les Presses du réel, nella collana Documents sur l’art; mentre per l’edizione italiana si dovrà aspettare il 2010 con il volume edito da Postmedia Books). Rivendicando la propria appartenenza alla tradizione del materialismo francese, Bourriaud citava Althusser, ma soprattutto Gilles Deleuze e Pierre-Félix Guattari, ai quali dedicava un intero capitolo del suo saggio, chiarendo la mutuazione dei propri ragionamenti sull’arte e l’artista. Quest’ultimo crea “nuovi universi di riferimento” proprio attraverso la sua capacità di deterritorializzare – ovvero, la capacità di spostare, scardinare alcune strutture precostituite associandole a un nuovo universo sensibile.
Dopo trent’anni dalla “nascita” di questa celebre categoria estetica, la mostra 1+1. L’arte relazionale – curata da Nicolas Bourriaud, con la curatela associata di Eleonora Farina – ospitata nella Galleria 3, nonché in diversi spazi del MAXXI, cerca di fare il punto (oltre a comprendere alcuni precursori) su una fortunata etichetta finita col diventare paradigmatica, e sintomatica della nuova potenzialità, per gli artisti e il pubblico, di relazionarsi all’arte e alle sue incursioni, inscrivendosi in una storia della cultura visiva ampia e variegata. Dalla prima mostra, intitolata Traffic, che Bourriaud cura nel 1996 al CAPC Musée d’art contemporain di Bordeaux – mostra a cui partecipano, tra gli altri, Angela Bulloch, Liam Gillick, Douglas Gordon, Dominique Gonzalez-Foerster, Pierre Huyghe, Philippe Parreno, Vanessa Beecroft, Maurizio Cattelan, Carsten Höller, Rirkrit Tiravanija – al 2025 molte cose sono cambiate. Si è parlato sempre meno di movimenti, indugiando su un sentimento vagamente postmoderno in cui si sono posizionate ricerche tra loro molto distanti. Nelle parole di Bourriaud: «Quando, negli anni Novanta, parlavamo di relazione, la consideravamo materia dell’arte. Oggi lo è più che mai. A più di trent’anni di distanza, è il momento di fare il punto: questa nebulosa artistica può finalmente essere storicizzata, nonostante le idee e le forme che ha inventato siano ancora in movimento per molti giovani artisti».



Le terrazze della Galleria 3 presentano una selezione di opere dagli anni Novanta ai Duemila. Il percorso si apre con Name Announcer, la performance di Pierre Huyghe nella quale, sulla soglia della galleria, l’Announcer chiede il nome della persona che desidera entrare e lo annuncia all’interno dello spazio. La boccetta di fenetilammina – Love Drug (PEA) – di Carsten Höller, insieme ai due lavori dedicati agli odori, ricreati in laboratorio, dei genitori dell’artista, sollecitano un’interazione olfattiva che chiama in causa la capacità del visitatore di prestarsi all’attivazione stessa dell’opera. Fraught Times, il grande albero di Natale di Philippe Parreno segna la conclusione della prima terrazza e l’accesso alla sala video che ospita opere di Huyghe, Grace Ndiritu, Mark Leckey e Pia Rönicke. La seconda terrazza raccoglie installazioni di ampia scala: Column di Kutlug Ataman dalla Collezione MAXXI; la struttura di Liam Gillick, When Do We Need More Tractors? Five Plans, accompagnata dalle indicazioni necessarie per ricostruirla; i resti della celebre performance untitled 1990 (pad thai) di Rirkrit Tiravanija; e Exit Seating di Angela Bulloch, con le istruzioni date da diverse compagnie aeree per i posti d’emergenza. Lungo la rampa – che fa da connettore tra i complessi spazi delle terrazze – si incontrano opere di Maurizio Cattelan, Vanessa Beecroft e Santiago Sierra. La terza terrazza accoglie le sculture partecipative di Felix Gonzalez-Torres e una serie di lavori a parete con opere di Christian Jankowski, Monica Bonvicini, Gillian Wearing e Cesare Pietroiusti. Il percorso culmina con il grande schermo che proietta Riyo di Dominique Gonzalez-Foerster – in mostra anche il tappeto-spazio di lettura su cui vengono messi a disposizione centinaia di libri. List of Names (Random) è invece l’intervento di Douglas Gordon con i migliaia di nomi delle persone incontrate nel corso degli anni: un monumento impermanente al ricordo che avvolge lo spazio e ne guida una certa lettura anche architettonica. 1+1 dialoga anche con figure che hanno anticipato l’estetica relazionale – tra cui Lygia Clark, Ian Wilson, Sophie Calle, Hélio Oiticica e Franz West – ampliando la prospettiva del percorso verso un contesto più allargato, anche se solo parzialmente meno Western centered.



Completano la mostra due interventi site-specific: la cucina sociale del collettivo bengalese Britto Arts Trust e l’installazione na moita del collettivo brasiliano OPAVIVARÁ!. All’esterno, l’opera sonora di Jens Haaning diffonde barzellette in lingua romena, mentre la facciata di via Guido Reni ospita una fotografia della serie The Casual Passer-by I Met di Braco Dimitrijević. La mostra si attiverà settimanalmente con il progetto Pakghor & Palan di Britto Arts Trust dove, con la collaborazione di Slow Food Roma e del festival Multi, alcune comunità internazionali presenti a Roma attiveranno la cucina per renderla un luogo di incontro e scambio. Ogni fine settimana si attiveranno anche le performance di Pierre Huyghe, Name Announcer, e Alicia Framis, Confessionarium (venerdì, sabato e domenica dalle 11:30 alle 13:30 e dalle 16:00 alle 18:00). Assistenti di sala, addetti alla biglietteria ed educatrici attivano quotidianamente l’opera di Gianni Motti, GM Assistant, indossando le t-shirt gialle con il logo. Infine, il progetto in progress Frottage del duo Premiata Ditta (Anna Stuart Tovini e Vincenzo Chiarandà) svelerà il quartiere coinvolgendo associazioni e cittadini.
Nel complesso la mostra, prima grande retrospettiva al mondo dedicata all’arte relazionale, è capace di tracciare uno sviluppo puntuale delle pratiche e dei linguaggi insorti tra gli anni Novanta e gli anni Duemila in risposta a un processo di globalizzazione sempre più pervasivo. Concentrandosi sulla socializzazione dell’arte, gli artisti hanno approfondito da vicino il contesto e le strutture partecipative mettendo a punto un vocabolario in cui interazione, comunità, micro-utopia, relazione sono diventati concetti portatori di uno sviluppo più ampio, e altro, rispetto alla simbolizzazione del feticcio-opera d’arte.
Cover: 1+1. L’arte relazionale – Allestimento, MAXXI, Roma – Foto M3Studio



