Il lavoro di Virginia Sommadossi sulla comunicazione culturale è stato riconosciuto anche a livello nazionale, entrando in una pubblicazione di riferimento come OnLive. Il libro bianco sullo spettacolo dal vivo (a cura di Simone Arcagni e Lucio Argano), in un capitolo scritto da Maria Paola Zedda.
Qui Centrale Fies viene indicata come una delle realtà italiane che hanno saputo trasformare la comunicazione da semplice strumento promozionale a pratica culturale autonoma, capace di provocare, tracciare e sovvertire immaginari, muovendosi tra umano e artificiale, tra locale e globale. In questa intervista Virginia Sommadossi – che lavora a ogni progetto assieme a Elisa Di Liberato – racconta come la comunicazione a Fies sia un campo di sperimentazione che unisce postura politica, rigore e immaginazione, non un canale accessorio, ma un luogo in cui le comunità si incontrano, gli immaginari si ridefiniscono e la cultura si traduce in pratiche concrete.
Negli ultimi anni Centrale Fies ha contribuito a ridisegnare un modo in cui le realtà culturali comunicano. Da dove nasce questa scelta?
La comunicazione a Fies è concepita come una pratica culturale autonoma, che mira a oltrepassare le logiche del marketing. Non si limita a dichiarare temi o posizionamenti, ma li traduce in una serie di pratiche concrete profondamente allineate alle istanze etiche e filosofiche che attraversano il centro di ricerca e produzione culturale. Alla base c’è sempre un domanda reale su quale trasformazione si vuole attivare, quale comunità coinvolgere o con cui si vuole risuonare, e quali immaginari proporre e come, spesso risemantizzandone gli elementi per aprire nuovi orizzonti di significato.
In questo senso la comunicazione da canale di trasmissione, diventa focolare simbolico, un luogo dove gli immaginari si alimentano, si contaminano e si trasformano. Questo modo di procedere fa sì che la comunicazione diventi parte integrante della programmazione, con l’obiettivo esplicito di trasformare le tematiche in pratiche vive e condivise, come per Witches / Brand New Self.
In questo format di Centrale Fies la figura della strega è stata risemantizzata attraverso il coinvolgimento di persone con pratiche e professioni lontane dallo stereotipo come attiviste, artisti, ricercatrici, lavoraorii del sociale, performer, studiose di linguaggio e di nuove tecnologie. Figure che, come le streghe di un tempo, abitano zone liminali, agiscono in comunità, custodiscono saperi non ufficiali o minoritari e li mettono in circolo. Non si è trattato dunque di un recupero folklorico o iconografico, ma di un processo collettivo che ha trasformato la strega in un dispositivo metodologico. Un altro esempio è il progetto Feminist Futures, all’interno della rete europea apap. Centrale Fies è stata scelta per creare la nuova identità visiva, sviluppata con un processo di co-design thinking che ha coinvolto tutti i 13 partner europei. L’idea non era tanto parlare di femminismo come tema, ma praticarlo come metodo: immaginare modelli orizzontali di relazione, condividere strumenti e linguaggi, rinegoziare la comunicazione con i pubblici. è stato naturale sperimentare questa orizzontalità attraverso la creazione dell’identità visiva. Abbiamo messo a disposizione una griglia di immaginari visivi -dal girl power al making kin, dal new queer allo xenofemminismo– che le strutture partner hanno discusso e fatto collidere, fino a creare una sintesi comune. Da qui è nata l’immagine della stella a cinque punte con al centro un capezzolo senza genere: un simbolo collettivo, fluido e inclusivo, reinterpretato poi da ciascun partner. Questo processo ha reso evidente che anche l’identità visiva può diventare un atto politico, un esercizio di collaborazione e di posizionamento culturale.
Per me questo si configura come un’espansione dell’identità del centro. È la mia postura personale, quella di chi apre spazi, rischia, e accetta che non tutto debba rassicurare. Personalmente non inseguo mai la neutralità, preferisco disturbare se serve a spostare prospettive, e in comunicazione è una caratteristica che, se tradotta in metodo, può dare risultati sorprendenti.


In che modo la comunicazione di Fies dialoga con queste comunità che la circondano?
Penso alla comunicazione come a un organismo che respira insieme a chi lo abita, dunque il dialogo che costruiamo con le tante comunità che ci circondano non può mai essere unidirezionale. Qui le comunità trovano riconoscimento reciproco, costruiscono linguaggi comuni e generano nuove possibilità di azione culturale e politica. C’è la comunità del pubblico locale, la comunità artistica, quella professionale del settore culturale, ma anche comunità più invisibili, come quella queer sensibile a un ventaglio ampio di temi portati dall’arte quando si occupa di diritti umani, o la Black Italy con il suo approccio decoloniale che sta iniziando anche in Italia a creare delle fenditure nel sistema di pensiero. Si parla anche di comunità temporanee, ossia persone che ci raggiungono solo per un progetto, pubblici che ci scoprono attraverso il digitale e che si avvicinano per istintiva curiosità, reti affettive e politiche che si formano attorno a un immaginario condiviso.
In fondo, ogni contenuto che produciamo si rivolge a più cerchi concentrici, come chi abita il territorio, chi attraversa la scena internazionale, chi cerca nel nostro linguaggio uno spazio di riconoscimento, e questo dialogo avviene proprio nel movimento tra centro e comunità, nella reciprocità, proprio perché i contenuti non sono mai un messaggio calato dall’alto, ma nascono dall’ascolto, dalla traduzione e dalla restituzione.
Ascolto significa raccogliere tensioni, desideri, fratture delle comunità, non solo quello che viene detto esplicitamente, ma anche ciò che resta sottotraccia e che fa male. Traduzione vuol dire trasformare quelle tensioni in linguaggi, immagini, formati che possano circolare senza perdere complessità. Restituzione è l’atto finale, il non dare un contenuto chiuso, ma rimandarlo indietro come possibilità di attivazione, qualcosa che possa generare a sua volta nuovi gesti, ma anche differenti capacità di critica e autocritica. Nel 2017, con Supercontinent, la comunicazione di un festival è diventata anche comunicazione di un territorio, il Trentino/Südtirol, portando alla luce aspetti spesso rimossi dalla narrazione turistica ufficiale. Era importante mostrare che Centrale Fies non è un corpo estraneo calato dall’alto, ma nasce da qui e ne riflette le stratificazioni. Per questo abbiamo raccontato l’investimento coraggioso in ricerca scientifica e tecnologia (dal FBK al Cibio, al Polo Meccatronica), le esperienze di chi, con background migratorio, ha dato vita a nuove attività (come Agitu Ideo Gudeta e tanti altri imprenditori e imprenditrici), e la pluralità di culture e lingue che abitano il Trentino (come Luserna). Restituire tutto questo significava radicare il progetto nel suo contesto, riconnetterlo alle comunità e mostrarlo come parte viva del territorio. Il pubblico dialogava con 5 personaggi, chiamati “Nuovi Trentini” attraverso chatbot che lo conducevano a scoprire luoghi, storie e prospettive tanto speciali quanto poco raccontate del territorio. Con Ipernatural 2019, invece, esploravamo il concetto di “un’altra natura” attraverso un ambiente corporeo e la creazione di una realtà ipernaturale, in un ribaltamento del paradigma antropocentrico, contro le tassonomie dicotomiche, sterili, gerarchiche. Il claim “biodiversity strives for hight visibility” parlava di corpi e differenze come risorse vitali, risuonando profondamente con la comunità queer e con la sua lotta per visibilità, riconoscimento e autodeterminazione. L’idea era nata dalle frasi tradizionali stampate sulle bustine di zucchero, che molti turisti avevano percepito come sessiste. Ci siamo chieste come ribaltare in chiave femminista e inclusiva una lingua che, a prima vista, sembrava non offrire spazio a questa trasformazione. Insieme al direttore del Museo Ladino di Fassa ci siamo chiesti se fosse possibile tradurre in ladino uno slogan come “support your girl gang”. La ricerca ci ha portato a scoprire che il ladino custodisce un potere antico di connessione tra le creature, una visione interspecifica che oggi è fondamentale riscoprire. E se la traduzione letterale non era convincente, la lingua ci ha offerto un’altra possibilità: “tegn a una co la stries” tradotto “stringi alleanze con le streghe” . Un risultato che ha trasformato l’atto della traduzione in un gesto politico e immaginativo. Ma gli esempi sarebbero moltissimi, in vent’anni di lavoro. Credo sia interessante lavorare nel segno del non comunicare “eventi”, ma trasformazioni, non “cosa succederà”, ma “quale cambiamento stiamo attraversando”. È un modo per riconoscere che ogni artista, pubblico, ogni alleanza che nasce qui ha il potere di spostare, anche di poco, il mondo che condividiamo.

Centrale Fies nasce come luogo ibrido, in cui avviene la produzione di arte visiva e di performance art, ma anche di teatro e danza contemporanea. Quali elementi di questi linguaggi hai portato dentro la comunicazione?
La comunicazione di Fies tiene insieme due eredità, quella delle performance art afferente alle arti visive con le sue caratteristiche di immediatezza e attenzione politica all’oggi, e spesso attivismo, dall’altro l’eredità del teatro e della danza con la loro complessità narrativa. Vi è dunque una convergenza tra la forza etica del posizionamento politico (insieme alla concretezza di una pratica che abbandona la rappresentazione per tradursi in azione) e l’idea di un racconto complesso da preservare: una drammaturgia comunicativa in cui ogni elemento risuona con gli altri. Linguaggi, social, immagini, così come gli spin off della programmazione non sono strumenti isolati, bensì parti interdipendenti di un unicum. La riconoscibilità generale si costruisce così attraverso una semiotica viva e in continua trasformazione, una comunicazione che non rincorre l’algoritmo, ma accumula, lascia tracce, genera scarti pronti a germogliare in altri tempi e luoghi, rilancia e accoglie.
Accogliere però vuol dire anche riceverne problematiche o fragilità delle comunità di riferimento…
La comunicazione di Fies sceglie di non nascondere le fragilità del settore, ma di trasformarle in materia condivisa, dapprima riconoscendole e poi tentando di renderle percepibili, discusse e generative. Aprirsi a problematiche e fragilità significa esporsi, diventare vulnerabili, ma anche preservare credibilità. Vuol dire, inoltre, riconoscere che il dialogo non è mai neutro. Ascoltare comporta assumersi la responsabilità di ciò che si raccoglie e restituirlo in forme che non semplificano, ma che ne rispettano la complessità. Le condizioni che attraversano il nostro lavoro come marginalità, precarietà e invisibilità, riguardano tanto gli artisti quanto numerose altre comunità di riferimento. La marginalità è lo stare ai bordi, lontani dai centri di potere e di riconoscimento, come accade a pratiche artistiche non canoniche o alle comunità queer e razzializzate che faticano a trovare spazio e giusta rappresentazione. La precarietà è fatta di contratti intermittenti, redditi instabili, assenza di continuità e di tutele. L’invisibilità è la difficoltà a essere riconosciuti, significa lavorare senza che il proprio contributo venga valorizzato, restando fuori dai canoni estetici o narrativi dominanti, e di conseguenza avere un minor accesso alla rappresentazione. In questi casi la comunicazione di una realtà istituente come Centrale Fies non può ignorare le fragilità strutturali né le istanze delle comunità, spesso vere e proprie fratture che le attraversano. Sceglie piuttosto di farsi cassa di risonanza, contribuendo a creare un ecosistema di codici e trasformazioni, capace di generare nuove forme. Il lavoro comunicativo si muove dunque tra il nominare le fragilità, dare loro forma e liberare il loro potenziale estetico per aprirle e conferire loro energia senza mai svuotarle di valore, e renderle terreno fertile e possibilità di nuove azioni. È un equilibrio delicato, che rispecchia anche un mio modo personale di vivere le relazioni e la creatività.

Se la comunicazione fosse una promessa, quale sarebbe quella di Fies?
C’è la meta-promessa, quella fattibile ossia lavorare a una comunicazione che sia atto di risonanza con il mondo, e non concentrata unicamente sul parlare di sé, aprendo spazi in cui immaginare e costruire insieme ad altri; e quella sperata, l’essere tassello di un cambiamento sociale, culturale ed etico. Ogni volta che comunichiamo lo facciamo con questa tensione. Immaginare di essere un portale, o anche solo un piccolo pezzo, di mondi diversi che prendono forma, a volte in grande, a volte in scala minima, insieme a chi ci segue. Tanto di questa spinta nasce anche dal radicamento specifico di Fies: una centrale idroelettrica del Trentino trasformata in spazio culturale, che genera altri tipi di energie. È da lì, da un luogo preciso e non replicabile, che si aprono traiettorie sovra-locali e iper-locali. Personalmente mi riconosco in questa tensione, tra radicamento e apertura, tra rigore e desiderio di libertà. Per me comunicare non è solo raccontare, ma lasciare tracce capaci di trasformare.
La comunicazione di Fies emerge come una pratica autonoma politica e schierata, capace di muoversi tra immaginari, metafore e linguaggi simbolici, ma anche di tradursi in azioni e pratiche concrete. In quali casi, invece, senti la necessità di mettere da parte il metalinguaggio e scegliere una comunicazione diretta, esplicita, senza mediazioni?
Ci sono momenti in cui la complessità del linguaggio non è la strada migliore, ovviamente, e la responsabilità di una realtà come Centrale Fies, che ha un posizionamento molto chiaro, è dire le cose in modo diretto senza mediazioni. È stato così con lo statement pro Palestina. Fies è stata la prima realtà istituente in Italia a prendere pubblicamente posizione sul sito ufficiale, azione discussa internamente, condivisa e scritta assieme a Mackda Ghebremariam Tesfau’, sociologa residente di Centrale Fies e Simone Frangi, resident curator di Centrale Fies. Mettendo in campo ogni giorno pratiche tese a decostruire l’eredità coloniale e che ridisegnano il presente per ricostruire contesti di senso da punti di vista marginalizzati, non potevamo non esporci sulla questione palestinese. Quel gesto è parte della nostra idea di comunicazione come pratica culturale autonoma, dunque non solo accompagnamento ai progetti, ma volontà di incidere sul reale, di dichiarare un posizionamento politico esplicito quando è necessario. A volte è la metafora ad aprire immaginari; altre volte è la parola netta a costruire alleanze e a segnare un punto fermo.
Centrale Fies ha adottato da subito i linguaggi ampi, un tempo chiamati “inclusivi”, ma non ha mai smesso di sperimentare, dall’uso della schwa al girare le frasi, dando una grande importanza al linguaggio…
Da anni c’è una grandissima attenzione al linguaggio, soprattutto dal punto di vista politico. Siamo in una fase di fermento e trasformazione, e la lingua italiana assorbe queste tensioni. I nuovi movimenti femministi, i processi di decolonizzazione e, più in generale, le lotte contro le discriminazioni hanno trovato nel linguaggio un terreno d’azione decisivo. Lo vediamo nell’uso congiunto del femminile e del maschile, nel ricorso al plurale e ai singolari, nell’introduzione della schwa come segno di apertura oltre il binarismo, ma anche in un’attenzione particolare verso il linguaggio decoloniale. Cambiare linguaggio significa segnare un cambiamento immediatamente percepibile. L’arte contemporanea si muove da tempo su queste stesse linee, perché affronta le grandi sfide culturali e politiche del presente, spesso trasformandole anche in forme di attivismo. Gli artisti e le artiste stesse esercitano questa apertura quando scrivono di sé o del proprio lavoro, modificando bio e sinossi come atti politici. Tutto questo per dire che il linguaggio è oggi un punto cruciale e delicato, da seguire con attenzione nelle sue evoluzioni. Per chi comunica diventa inevitabile chiedersi: qual è la mia posizione? Perché se comunicare è un atto politico, anche la scelta delle parole lo è. Il linguaggio ci posiziona, racconta di noi e della nostra azione.
Cover: 2019 – Festival Drodesera – Centrale Fies