Robert Mapplethorpe. Le forme del classico, presentata presso Le Stanze della Fotografia, rappresenta il primo episodio di una trilogia di esposizioni che verranno presentate in Italia tra Venezia, Milano e Roma nel corso del 2025-2026.
A trent’anni dalla retrospettiva curata da Germano Celant presso Palazzo Fortuny, Mapplethorpe torna a Venezia con una mostra che include oltre duecento immagini, alcune delle quali esposte in Italia per la prima volta.
La volontà del curatore Denis Curtis è quella di omaggiare il lavoro di uno dei più grandi fotografi del Novecento e di liberare la sua pratica dallo stereotipo della provocazione in cui spesso è stato confinato. Mapplethorpe è molto di più. La mostra apre con una serie di collage e ready-made realizzati dall’artista verso la fine degli anni Sessanta, periodo in cui non si era ancora avvicinato alla fotografia. Queste prime opere, realizzate unendo feticci religiosi, objets trouvés e immagini ritagliate da giornali omoerotici, riflettono la ricerca d’identità e di collettività, temi che lo accompagneranno per tutta la sua breve carriera.
L’intimità con l’altro, tanto desiderata da Mapplethorpe, trova la sua massima espressione nel rapporto con Patti Smith: amica, sorella nonché unica musa del fotografo. Mapplethorpe riesce a catturare l’intimità più profonda della poetessa, mostrando dietro al suo sguardo austero e penetrante la vulnerabilità di questa donna e il rapporto viscerale che c’era tra i due. Una storia d’amore e di amicizia, di venerazione e rispetto reciproco che raggiunge il culmine quando, scavando nei cassetti di una piccola zona d’archivio, ci si trova di fronte a una breve ma straziante poesia scritta dalla Smith sul biglietto commemorativo del funerale dell’amico.


Le fotografie di Mapplethorpe sono da sempre un tributo ai corpi e alle loro diversità. Emblematiche sono quelle scattate a Lisa Lyon: culturista dal fisico androgino che il fotografo raffigura con maestria, mettendo in risalto la potenza e la plasticità del suo corpo, senza mai dimenticare la delicatezza del suo volto.
La mostra prosegue con una serie di ritratti, scattati rigorosamente in bianco e nero, ad altre figure simbolo di quegli anni: Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Truman Capote, Keith Haring, Yoko Ono, Susan Sontag, Isabella Rossellini e molti altri. Le pose sono spesso frontali, con uno sfondo nero che crea l’illusione di una spazio quasi aulico. Ciò che ancora oggi sorprende del lavoro di Mapplethorpe è la sua straordinaria capacità di far emergere l’unicità dei soggetti. Mettendoli a loro agio di fronte alla macchina fotografica, riesce a cogliere la loro espressione più autentica.
Anche il suo stesso corpo diventa oggetto di indagine identitaria: nei celebri autoritratti,
Mapplethorpe si traveste da ladro, da diavolo – come nell’iconico Self-Portrait with Horns (1985) – oppure da dandy, diventando un inno all’ironia e alla creatività. Il corpo, che si stava affermando come principale veicolo di libertà, trova nei suoi scatti l’espressione più alta.

Senza mai abbandonare il suo registro stilistico, Mapplethorpe riesce a far convergere aspetti estremamente dicotomici come il sacro con il sensuale. Questa coesione trova piena espressione nella serie che mette a confronto la statuaria classica – come l’opera Wrestler (1989) – con i corpi nudi di modelli e modelle, i cui nomi danno sempre il titolo ai lavori, ad esempio Derrick Cross (1983). Queste immagini non sono mai volgari, anzi, superano la semplice sfera dell’erotismo per collocarsi in una sensualità affine a quella delle opere di Michelangelo, di Bernini e di Caravaggio. Ed è proprio in questa tensione tra plasticità e nudo che risiede il cuore del suo lavoro. Come lui stesso affermò: “La fotografia è proprio il modo perfetto per fare una scultura”.
L’intento di Mapplethorpe non è mai stato quello di creare delle immagini provocatorie, bensì di esaltare la bellezza e la dimensione scultorea dei corpi. L’aspetto che continua a mettere in crisi la percezione del suo lavoro è il confronto con i corpi nudi raffigurati, i quali obbligano a riflettere sul concetto di pudore, di malizia e di desiderio. Un invito questo, a mettere in discussione le proprie convinzioni più intime.
Nonostante la prematura scomparsa a causa dell’AIDS, l’eredità di Robert Mapplethorpe rappresenta uno degli sguardi più audaci del panorama fotografico. Le sue immagini sono un vero e proprio elogio alla fisicità, che ci sfidano a guardare il corpo umano in tutta la sua forza e vulnerabilità, celebrando l’estrema varietà di forme, di identità e di emozioni.



