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Gesto e Segno – Société Interludio di Torino | Intervista con Simona Squadrito

"Questa esplorazione del gesto e del segno, che attraversa diversi linguaggi intrecciando corpo, memoria, parola e materia, offre una riflessione sulla possibilità che ogni azione lasci una traccia." Simona Squadrito
Gesto e segno, installation view, Societè Interludio, Cambiano (TO), 2025. Ph Stefano Mattea

In occasione della mostra “Gesto e Segno”, ospitata alla galleria  Société Interludio di Torino fino al 31 agosto 2025, abbiamo intervistato la curatrice della  mostra Simona Squadrito. 
La mostra di ‘apre’ con una citazione da un opera di Giuseppe Chiari: una frase su un foglio bianco a pieghe dove l’artista ha scritto: “Devo compiere un gesto di…”. Il progetto espositivo sviluppato da Squadrito parte da un interrogativo che attraversa le opere e le ricerche degli artisti: quali sono i gesti che avvertiamo la necessità di compiere? Quali i segni che intendiamo lasciare o che, nostro malgrado, lasciamo?
Artisti in mostra: Giuseppe De Mattia, Giordano Falzoni, Alberto Grifi, Pesce Khete, Adriano La Licata, Lucia Leuci, Gina Pane, Marco Salvetti e Patrizia Vicinelli.

Segue l’intervista con Simona Squadrito 

Elena Bordignon: La mostra che curi da Société Interludio si apre con un interrogativo: quali sono i gesti che avvertiamo la necessità di compiere? Questa domanda è mutuata dalla frase dellartista Giuseppe Chiari: Devo compiere un gesto di…”. Partire da una domanda molto diretta: come curatrice, qual è il gestoche senti la necessità di dover compiere?

Simona Squadrito: Il primo gesto è stato aprire la mostra proprio con la frase di Chiari, che nel suo caso non è un vero e proprio interrogativo: quei puntini di sospensione funzionano come un invito, una proposta di riflessione aperta a chiunque e che chiunque può – anzi, dovrebbe – provare a completare.
È un invito a riflettere sulle nostre responsabilità individuali, sottolineando che ogni gesto lascia un segno e che il segno è sempre traccia di un’azione, anche se compiuta in modo involontario o inconsapevole.
Nel 1973, Pasolini interveniva al convegno sul cinema intitolato Erotismo, eversione, merce con un intervento intitolato Tesis, che si apriva con: «Una scelta estetica è sempre una scelta sociale», e proseguiva: «Essa è determinata dalla persona a cui si rivolge la rappresentazione e dal contesto in cui la rappresentazione si svolge. Ciò non significa affatto che la scelta estetica sia impura o interessata. Anche le scelte di un santo sono sociali».
Aggiungerei che qualsiasi scelta – non solo quelle estetiche – è una scelta sociale e politica. È passato mezzo secolo da quel motto “il personale è politico”: credo che non solo non abbia perso forza, ma che oggi più che mai sia necessario incarnare questa prospettiva.

Giuseppe Chiari, Teatro Santa Chiara a Brescia, 1973. Fotografia di Angelo Furia. Courtesy Studio Bibliografico Bruno Tonini.
Gina Pane, Azione sentimentale, 1973. Fotografia di Giorgio Colombo. Courtesy Studio Bibliografico Bruno Tonini.

E.B.: Per questa mostra collettiva, Gesto e segno”, i lavori degli artisti invitati sono stati scelti perché esplorano il gesto e il segno artistico in diverse valenze. Mi racconti, con degli esempi, i diversi significati emersi dalle opere?

S.S.:  Ti rispondo accennando ad alcuni lavori e pratiche, e lascio al resto dell’intervista la possibilità di raccontare più chiaramente buona parte della mostra.
Questa domanda mi porta a risponderti attraverso le mie ipotesi di lavoro.
L’idea di sviluppare questa mostra nasce quasi dieci anni fa: allora il taglio era più legato alla grammatica del segno e del gesto pittorico, forse una mostra troppo linguistica e tautologica, una mostra di pittura sulla pittura.
I tempi sono diversi, lo sono anch’io, così come il mondo che mi circonda, ho sentito, quindi la spinta ad ampliare le mie prospettive e riflessioni. Rimanendo in parte fedele alle intuizioni originarie, ho raccontato la pittura attraverso le opere di Pesce Khete e Marco Salvetti.
Tra i due, sono sicuramente le opere di Salvetti quelle che più marcano gli aspetti linguistici della pittura, nate da un pensiero che si arrovella sul linguaggio pittorico e sull’economia del segno. Una pittura che accoglie anche il grafema della scrittura in lettere, quasi fosse una poesia verbo-visiva. La fascinazione per le opere di Salvetti in questa mostra è proprio questo infinito discorso pronunciato sulla pittura, mai veramente risolto, e il suo sovrapporsi alla carta stampata, alla poesia che parla di sé stessa e delle sue leggi. Tra le opere più iconiche della mostra, capace di unire in sé più letture del tema, c’è Prova penna Staedler rossa di Giuseppe De Mattia, una sorta di ex voto del segno: l’incisione su una lastra di rame di un ricciolo, un segno che più o meno chiunque ha tracciato almeno una volta nella vita su un foglio. Nel caso di quest’opera, il riferimento è Made in Germany, una raccolta di segni automatici e di prova lasciati da un pennaio di Bologna. L’artista raccoglie i fogli di prova su cui restano impressi quei segni iniziali – fatti da gesti tecnici, meccanici, quasi calligrafici – che assomigliano a piccoli riccioli. In questa pratica si rivela il paradosso del segno ortografico, che ha origine nel disegno e, attraverso una lunga evoluzione, si è ridotto a pura funzione comunicativa convenzionale. È a questi segni inconsapevoli che l’artista si affeziona, riattivando la dimensione visiva e affermandone il valore poetico e plastico.
Così come Calpestio e pozzanghera di Lucia Leuci, che sottolinea ciò che non è esibito: il corpo nel suo camminare. Camminare diventa un atto di scrittura corporea, traccia impressa simultaneamente nella memoria e nello spazio. Il segno è anche quello registrato, disegnato e tracciato dall’artista, che riprende il grigliato di sampietrini o l’asfalto con le sue crepe e spaccature, diventando metafora della superficie ferita del tessuto urbano. Queste fenditure rivendicano la loro condizione di margine, esigono attenzione, domandano riconoscimento.
Decisamente più ironica è l’operazione di Adriano La Licata con Jingle Man (Una concentrazione di eventi). Qui il gesto è atto ludico, che esplora movimenti imprevedibili e performativi. Elastici lanciati su tela o altri supporti creano composizioni casuali o segnano la sagoma del corpo dell’artista, trasformando l’azione del gioco in una traccia visiva. Un gesto che ricorda l’infanzia, ma che è anche azione concettuale e linguistica. Il lancio degli elastici rimanda allo “scatto” fotografico – to shoot in inglese – un termine che porta in sé l’ambiguità tra atto ludico e tensione violenta.
Qui l’energia fisica si trasferisce direttamente all’oggetto, imprimendo l’orma del corpo sulla superficie.

Giordano Falzoni, Senza titolo, foglio A4 con disegno farfalla farf, senza data. Collezione Archivio Alberto Grifi, Roma
Gesto e segno, installation view, Societè Interludio, Cambiano (TO), 2025. Ph Stefano Mattea
Gesto e segno, installation view, Societè Interludio, Cambiano (TO), 2025. Ph Stefano Mattea

E.B.:Tensione politica e rivolta” sono prospettive forti in relazione al gesto artistico. Quali opere sono più prossime a tematiche sociali e politiche? Cosa rivelano?

S.S.: Per quanto possa sembrare strano, inizio parlando della pratica di Pesce Khete.
È facile – quasi ovvio – pensare che abbia selezionato il suo lavoro per sottolineare il gesto pittorico e il lascito di un segno scomposto, rude, a tratti violento. Ma ciò che mi interessa di più è ciò che appare meno evidente.
Khete non lavora d’impulso, anzi: la sua pratica pittorica è serrata e fortemente controllata, una lotta che lui stesso mette in moto contro gli automatismi. La sua pittura fa coesistere, senza accordo possibile, elementi profondamente dissonanti. “Felicemente disuniti” – per citare una formula dell’esperienza poetica dell’Antigruppo – significa non tanto risolvere il conflitto, ma contenerlo nella sua natura contraddittoria.
Un gesto che lega senza omologare, che ho messo in relazione con Ago di Leuci: un oggetto comune che richiama un gesto di cura, di rammendo, di tenere insieme, mostrando sempre una sottile linea che è traccia – segno lasciato da un gesto paziente, ma che è anche ferita mai sanata e sempre esibita.
In questo contesto entra anche Azione sentimentale di Gina Pane. Ormai iconico è il suo gesto, che imprime un segno politico e di denuncia rimandando tanto al martirio religioso quanto agli stereotipi imposti sul ruolo della donna: sposa, moglie, madre – figure costruite dalla società patriarcale. Una rosa, nella sua opera, trascende la natura ornamentale: diventa arma. Così come un gesto d’amore può contenere un segno di violenza.
Politico è anche l’universo Farf di Giordano Falzoni, che ha continuato a dipingere farfalle per tutta la vita. Per lui l’arte ha capacità terapeutiche: l’artista è un mediatore, un agevolatore. Falzoni pensa a un’arte incarnata nell’allucinazione e nell’estasi visionaria, dove ogni forma diventa possibilità di liberazione da una reclusione triste e solitaria. Nascono così gli Universi Farf. Per Falzoni non esiste un “mondo a parte” riservato agli addetti ai lavori: l’arte è diffusa, accessibile, qualcosa a cui chiunque può attingere. È forse lui, più di tutti in mostra, a rappresentare lo sfaldamento del mito dell’unicità dell’opera, mettendo in discussione l’autorialità dell’artista.
L’immagine della farfalla riflette inoltre sull’idea di un rapporto empatico con la natura, perché, come racconta Falzoni nel film Il grande freddo (1971): “se vogliamo imitarla, dobbiamo farlo dall’interno, in armonia con lei.”

Pesce Khete, Untitled, 2025. Oilstick, pittura a olio e artist tape su carta di cotone 212 x 412 cm. Ph Stefano Mattea
Marco Salvetti, st (22_11), 2022. Olio e pastelli su carta su tela 70 x 65 cm, st (22_15), 2022. Olio e pastelli su carta su tela 49 x 54 cm. Ph Stefano Mattea

E.B.: Al di là di prese di posizione strettamente politiche, mi interessa la doppia valenza e significato con cui hai letto gesto e segnonelle opere in mostra.

S.S: È chiaro che gesto e segno sono due cose molto diverse, eppure sempre inscindibilmente legate: un gesto produrrà sempre un segno, e un segno è sempre la conseguenza di un gesto.
Man mano che riflettevo su questo binomio – che, come ho già detto, mi interessa e affascina da diversi anni – ho iniziato a percepire come fondamentale rimarcare l’importanza, l’inalienabilità e l’inemendabilità del corpo. Un corpo che compie gesti, anche minimi e quotidiani, ma che lascia sempre un segno. Ritorno ancora alla frase sospesa di Chiari.
Nel momento in cui me ne sono resa conto – che poi è anche una banalità disarmante – ho compreso quanta responsabilità io avessi. Io, come tutti gli altri.
Questa esplorazione del gesto e del segno, che attraversa diversi linguaggi intrecciando corpo, memoria, parola e materia, offre una riflessione sulla possibilità che ogni azione lasci una traccia.  Nel voler affermare la centralità del corpo come strumento primario di conoscenza e comunicazione, ho voluto trasmettere l’idea che ogni segno – sia esso pittorico, performativo, poetico o politico – conservi in sé la memoria del gesto che lo ha generato, invitandoci inoltre a considerare la natura intrinsecamente politica di ogni traccia: scegliere di lasciare un segno significa affermare la propria presenza nel mondo, reclamare uno spazio, modificare – seppur minimamente – la realtà circostante.

E.B: Parlare di gesto” implica coinvolgere l’espressione psicologica e dinamica del corpo. Come si sono relazionati gli artisti in questa prospettiva?

S.S: Oltre al già citato Giuseppe Chiari – di cui in mostra si ricorda anche la performance Gesti sul piano – sono ovviamente Gina Pane e Patrizia Vicinelli le artiste a cui ho affidato il compito di ampliare la riflessione sulla dimensione psicologica e corporea del gesto e del segno.
Con Vicinelli, la parola diventa corpo, la sua è una poesia performativa. È lei, più di altre, a fare della voce uno strumento corporeo primario: grida parole frantumate, irriconoscibili, scomposte in sillabe, abbandonate al puro soffio. In questo modo coinvolge interamente il corpo, tra oralità e scrittura poetica, si  riscopre la materialità del linguaggio.
Questa dimensione fisica, psicologica e affettiva del gesto e del segno emerge anche in Il viaggio con Patrizia di Alberto Grifi, un diario amoroso e intimo rimasto a lungo inedito. Le immagini qui si caricano di una sospensione temporale peculiare: appaiono, svaniscono, riemergono dopo uno scarto che resta inaccessibile, troppo personale per essere pienamente disvelato. È il tempo sospeso di una relazione amorosa, restituito dalla telecamera che si sofferma sul corpo della Vicinelli. La visione di questi gesti è costretta in un tempo altro, che dilata e trascende i ritmi abituali della percezione visiva, esprimendosi attraverso la dimensione poetica.

Per concludere, ogni espressione e prospettiva citata viene in mostra amplificata da un atlante di libri posto sul pavimento, come fosse un tappeto, si tratta di una selezione di volumi prese da REPLICA (l’archivio italiano del libro d’artista). È una vertiginosa bibliografia dei gesti e dei segni nell’arte, che amplia il campo della riflessione: dai gesti performativi e concettuali raccontati in Come rubare libri di David Horvitz, ai segni urbani e politici del progetto Il sistema disequilibrante di Ugo La Pietra; dai collage dadaisti di Gianfranco Baruchello in La quindicesima riga, alla poesia verbo-visiva e concreta di Ugo Carrega, Arrigo Lora Totino, Henry Chopin, Mario Diacono, Adriano Spatola, fino ai pittogrammi di Luisella Carretta.

Gesto e segno, installation view, Societè Interludio, Cambiano (TO), 2025. Ph Stefano Mattea
Gesto e segno, installation view, Societè Interludio, Cambiano (TO), 2025. Ph Stefano Mattea
Gesto e segno, installation view, Societè Interludio, Cambiano (TO), 2025. Ph Stefano Mattea
Giuseppe De Mattia, Made in Germany, 2015. Prove recuperate di penne stilografiche montate su cartoncino. Ph Stefano Mattea
Gesto e segno, installation view, Societè Interludio, Cambiano (TO), 2025. Ph Stefano Mattea