Testo di Chiara Bucolo —
In un mondo dove (nel bene e nel male) il lavoro detiene un ruolo centrale per la tutela della struttura sociale per come la viviamo, il solo atto di vivere, infarcito di doveri e convenzioni a reggere l’assetto della nostra umanità organizzata, può essere considerato anch’esso un mestiere. Se questa visione della vita da un lato potrebbe suscitare una sensazione di costrizione, facendoci sentire come degli ingranaggi di un sistema che ci vuole sempre più performanti e ci percepisce come macchine di produzione – e da cui non si può scappare – dall’altro ragionare sul “mestiere di vivere” può divenire un prezioso strumento per relazionarci all’interno della fitta trama di rapporti che costituiscono la collettività. “Il mestiere della vita non si può fare senza gli altri” afferma Marzia Migliora, che dal 21 marzo al 25 maggio 2025, presso la Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, presenta Minuto Mantenimento, a cura di Elisa Fulco e Antonio Leone. La mostra nasce come risultato di un ciclo di workshop tenuto nel 2024 dall’artista all’interno del progetto Spazio Acrobazie. Laboratorio di riqualificazione e di produzione attraverso la mediazione artistica, destinato alle persone in Esecuzione Penale Esterna dell’UIEPE di Palermo: durante ogni incontro, i partecipanti si raccontavano rispondendo a domande sul loro percorso lavorativo e su sé stessi, ragionando su come potrebbe essere la “divisa” da dover indossare se vivere fosse, appunto, un lavoro.
Non è scontato saperne progettare una – in generale, una tuta da lavoro deve soprattutto essere comoda da indossare e da lavare, del materiale più funzionale per svolgere al meglio le proprie mansioni, e magari accessoriata. Ma se il lavoro da compiere è il “vivere”, che caratteristiche dovrebbe avere? Migliora ci presenta cinque opzioni possibili, esposte insieme ai bozzetti raccolti nel Quaderno 58. Minuto Mantenimento. Tute non convenzionali, con cui si può essere sirene, o burattini, o paesaggi, o animali – tute che sono tende da abitare, che aiutano a mimetizzarsi o a mostrarsi, a proteggersi e ad accogliere, con le quali possiamo “assaggiare” il mondo come fanno i polpi coi loro tentacoli.
Ai monotipi delle tute vengono “intrecciati” i racconti dei partecipanti del workshop – concepiti come “mappe concettuali”, grazie alle quali orientarsi attraverso il processo creativo con cui sono state realizzate.

“Ma il mio sogno non lo mollerò mai perché il mare è l’unica cosa che mi rende libero”, “sono il guidatore di un tir che dopo la mia famiglia è la mia seconda casa”, “Penso che dentro di noi, ogni persona abbia la facoltà di accogliere sempre” si legge negli stralci di dialoghi che contornano le stampe e i bozzetti delle tute, mostrati dall’artista senza pietismi stucchevoli, e capaci di rivelare i numerosi “non detti” che costellano lo svolgersi della nostra quotidianità: le sensazioni più intime e semplici dei lavoratori coinvolti, racconti di speranze, di delusioni, di traguardi e di fallimenti, di percezioni e di stati d’animo. Il pensiero di chi solitamente è inascoltato, lasciato ai margini, diviene centrale nel lavoro di Migliora, e punto di partenza per sviluppare un universo alternativo concretizzato proprio tramite il lavoro, che in Migliora assume una funzione sociale e terapeutica fortissima: capace di ricucire i fili delle relazioni interpersonali e di aggiungerne di nuovi, riconfigurando il significato che ha sempre avuto nella società con un atto creativo quasi catartico e liberatorio – il lavoro non deve essere per forza fatica, sacrificio e annullamento del sé, ma cura reciproca e espressione sincera del proprio io.
Lungi dall’essere alienante e avvilente, il lavoro diventa quindi un dispositivo artistico attraverso cui mettersi nei panni di ciò che è altro da sé, e con cui comprendere sé stessi – la tuta #4 Teatro del non detto diventa così un vero e proprio teatro portatile, strumento di evasione dalla realtà ma anche di “realizzazione” di essa (forse certe cose apparentemente concrete si riescono a capire solo con l’immaginazione).
Ragionare sulla questione del lavoro non può prescindere dal considerarne un aspetto fondamentale, e cioè quando a causa di certe condizioni lavorative e di sfruttamento si perde la vita: in proposito, risulta peculiare la scelta dell’artista di confrontare le tute e i bozzetti (pur trovandosi essi nella sala adiacente, salvo la tuta #4) con il famoso affresco quattrocentesco Il Trionfo della Morte, di cui l’artista ne riprende i particolari, ad esempio nei motivi floreali dei guanti della tuta #1 Casa ovunque o del cappuccio della tuta #2 Voce di paesaggio. Nell’affresco, la morte si dirige solo verso i ricchi e i privilegiati (dame, cavalieri, papi, musici), cioè verso chi non la cerca, mentre i poveri, i malati e gli emarginati supplicano inutilmente la sua venuta: un particolare che si potrebbe interpretare come una potentissima difesa verso quegli ultimi a cui la società spesso non da speranze di vita, ma la Morte sì.


