Testo di Alessia Imprescia —


La pelle, l’allusione sensuale, il corpo e la sua rappresentazione: sono questi gli elementi principali da cui prende il via il lavoro della giovane artista Saskia Colwell (Londra, 1999), in mostra nella sua prima personale da Victoria Miro, a Venezia. I nove lavori esposti – concepiti durante la residenza che l’artista ha effettuato nella città lagunare la scorsa primavera – sono disegni a carboncino su pergamene di vitello, ognuno dei quali fissato su una tavola di legno. La scelta della tecnica risulta congeniale al soggetto scelto da Colwell: la pelle, infatti, è il supporto; ma diventa anche il soggetto delle opere esposte, in cui i corpi realizzati a carboncino si mescolano con le naturali venature della pelle di vitello. In lavori come The Cheerleader, sono proprio questi dettagli a conferire maggiore vitalità al soggetto, divenendo per l’artista al contempo simbolo di forza e vulnerabilità.
I lavori di Colwell sono caratterizzati da un forte contrasto cromatico tra il fondo nero – realizzato con tratti a carboncino molto fitti – e la luminosità della pelle, accentuata da tratti di gesso posti sui punti luce. La forte giustapposizione di luci e ombre e l’aspetto monocromatico dei lavori richiama il medium fotografico da cui l’artista parte nella realizzazione dei suoi lavori. Colwell, infatti, effettua alcuni scatti del proprio corpo per poi rielaborarli all’interno dei suoi disegni: idealmente, però, il corpo rappresentato non è più il suo, perdendo così una specifica identità. Nell’opera Praise the Lord, ad esempio, l’artista ha voluto rappresentare provocatoriamente i piedi giunti (il titolo potrebbe suggerire in preghiera) davanti alla propria vulva, suggerendo che la sensualità rappresentata sia un contatto intimo con il sé, con il proprio corpo. I riferimenti espliciti e religiosi, però, risultano soltanto delle provocazioni apparenti e divengono un mezzo attraverso il quale mettere in discussione cosa sia realmente osceno e cosa no.
Quelli rappresentati da Saskia, inoltre, non sono mai contatti esplicitamente sessuali: osservando le sue opere – come Homemade e Finger Crossed – si accede a un erotismo allusivo, a tratti ludico e canzonatorio, in cui la mente stessa di chi guarda crea riferimenti espliciti laddove in realtà non sono presenti. Il formato oblungo scelto per Cookie Jar, inoltre, suggerisce l’idea che alcune delle immagini che vediamo siano osservate da una fessura o un peep show – così come evidenziato da Hannah Hutchings-Georgiou nel testo di accompagnamento alla mostra – spostando nuovamente l’accento sull’osservatore e su una sua naturale tendenza voyeuristica. Si viene a creare un rapporto intimo e di prossimità con l’immagine, senza che questo diventi mai effettivo o che si trasformi necessariamente in un reale contatto con l’altro. La forte sensualità e l’ironia dei lavori di Colwell divengono così espressione della consapevolezza della nudità femminile e ristabiliscono un’idea di possesso che ognuno ha del proprio corpo, prima ancora che dell’altro.





