Una decina di anni fa durante una studio visit, Antonio Grulli che stava guardando un po’ distrattamente – almeno così mi pareva – quello che gli stavo mostrando, girando per l’atelier ferma l’attenzione su una decorazione che avevo fatto un po’ a caso, un ritaglio di carta dentro a un espositore da libreria. E mi chiede “e questo cos’è”? Questa domanda, a cui non sapevo bene cosa rispondere, mi è rimasta in testa per anni, perché in effetti quel ritaglio insignificante piaceva molto anche a me; non solo mi piaceva il suo aspetto, ma corrispondeva anche a qualcosa che mi piace fare.
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Questa faccenda del piacere in arte è continuamente ostacolata; c’è tutta una costruzione sociale che rende complicato far uscire quello che realizziamo; il nostro tempo è pieno di cose che con la pratica artistica non hanno niente a che vedere e viene richiesto di giustificare, appunto di spiegare quello che facciamo. In qualche modo ho sempre cercato di reagire a questo strapotere dell’apparato discorsivo cercando di ribaltare la questione e di utilizzarlo portandolo all’interno del mio lavoro.
A dire il vero avevo già praticato questi ritagli decorativi proprio in una delle mie prime opere verbo-visive sCulture, una serie di libri presi dalla libreria di mio padre e legati alla sua attività politica negli anni ’70, che avevo scavato internamente per ricavare uno spazio in cui nascondere degli oggetti, secondo una nota strategia carceraria. In uno di questi testi li avevo sovrapposti come grate alla fotografia di tre bellissime zingare, incontrate in stazione. Realizzo solo ora che c’è una certa analogia tra quella prima opera e quella di cui (non) parlo qui.
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Il tentativo di compenetrare il registro verbale e quello visivo in senso fenomenologico, facendo leva sull’apparato percettivo di chi osserva, è presente in quasi tutti i miei lavori; ma per arrivare ad una sintesi convincente – almeno per me – ci sono voluti anni. Durante il periodo del Covid, per reagire al senso di frustrazione che tutta quella situazione determinava, ma anche potendo trascorrere più tempo in studio, per amore o per forza, a un certo punto invece di ritagliare motivi decorativi incomincio a ritagliare delle parole. Per effetto di simmetria il risultato è comunque accattivante. Ma all’interno si celano delle parole; in qualche modo questa compresenza armoniosa di parola e immagine mi ricorda dai miei studi di neurologia, le circonvoluzioni cerebrali. Da qui il titolo dell’intera serie, Forma Mentis.
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Di tutta questa serie, ormai piuttosto numerosa e articolata, il mio preferito è Prigioniere Politiche, perché mi pare che sintetizzi bene la situazione della mia libertà espressiva, in quanto donna. Quest’anno grazie a Serena Carbone, ho tenuto un laboratorio proprio in prigione e con le detenute abbiamo ritagliato parole notevoli. E a proposito di pezzi della propria vita che vanno in qualche modo a sistemarsi, questo lavoro mi riporta a tempi lontanissimi, in cui accompagnavo mia madre alle manifestazioni femministe e – non so bene con quale forza d’animo – cantavo sul palco le canzoni di protesta. Da allora abbiamo fatto tanto, ma il cammino è ancora lungo: dedico questo lavoro alle compagne di strada.
Cover: Chiara Pergola, una fase della lavorazione di Prigioniere Politiche, pigmenti a secco su carta, 2024. Courtesy l’artista.
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Ha collaborato Simona Squadrito
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.