Intervista di Alberto Ceresoli —
Elia Brignoli, finalista sezione fotografia della quinta edizione di “Artefici del nostro tempo” promosso dal Comune di Venezia, Fondazione Musei Civici di Venezia, Padiglione Venezia della Biennale, Fondazione Forte Marghera, Venice Spa.
Alberto Ceresoli: Mi interessa la tua fascinazione per l’oggetto fotografico, per le vecchie fotografie ammucchiate sui tavoli nei mercatini delle pulci, per le lastre, le pellicole. Che cosa cerchi, che cosa ti aspetti di trovare nelle tue continue esplorazioni tra i vari mercatini in provincia di Bergamo e Brescia?
Elia Brignoli: Il mio intento è riportare alla luce storie ed esperienze del passato, quelle che altrimenti rimarrebbero sommerse nell’oblio, invisibili agli occhi del presente. Mi dedico a ciò che è stato escluso o dimenticato, scavando nei margini della memoria collettiva e individuale per ridare vita a ciò che è stato ritenuto superfluo o inopportuno. È nelle pieghe del tempo e nelle assenze più silenziose che trovo il mio terreno di ricerca, alla scoperta di emozioni e significati che il trascorrere degli anni ha celato. Le fotografie, le pellicole, le lastre, i frammenti materiali del passato, non sono solo immagini, ma testimonianze vive, capaci di raccontare scenari e vissuti altrimenti perduti per sempre. Nel mio lavoro queste tracce diventano porte aperte verso un’altra dimensione, un dialogo tra ciò che è stato e ciò che può essere ancora interpretato e compreso. Un tempo, fotografare era un gesto solenne, un rituale che imprimeva significati profondi nel tempo. Ogni scatto custodiva un’anima, una carica emotiva che trascendeva il semplice atto tecnico. Recuperare questi frammenti non è solo un atto di preservazione, ma un processo che restituisce valore e dignità a ciò che sembrava irrimediabilmente smarrito. Attraverso la mia ricerca, offro a queste memorie una nuova possibilità di essere viste, ascoltate e contemplate, restituendo loro un posto che meritano nella nostra storia e nel nostro immaginario.
AC: A proposito di lastre fotografiche, fino a dicembre è in mostra al Padiglione 29 di Forte Marghera (VE) un tuo lavoro selezionato per il concorso “Artefici del nostro tempo” rivolto ad artisti under 35. Mi parli di PROPAGAZIONE X, del ritrovamento di questo materiale e soprattutto della narrazione che ne è emersa?
EB: PROPAGAZIONE X è un progetto nato da una scoperta fortuita, un ritrovamento inaspettato che ha aperto le porte a una narrazione affascinante e carica di suggestioni. Durante una visita a un mercatino dell’usato, mi sono imbattuto in una scatola contenente vecchie lastre fotografiche e documenti, una vera e propria testimonianza materiale di un’epoca. Esaminandola, ho trovato tracce di una ricerca ossessiva e visionaria, condotta da una persona impegnata a esplorare i confini tra scienza, emozione e fotografia durante la Seconda guerra mondiale. Al centro di questa ricerca, emergeva il tentativo di decifrare i sentimenti umani attraverso un linguaggio scientifico, unendo la fisicità del corpo alla metafisica dell’anima. Un articolo della Domenica del Corriere del 1941, incluso nel materiale ritrovato, rappresentava un tassello chiave. L’articolo descriveva esperimenti in cui, introducendo sostanze nel flusso sanguigno e osservando gli individui in ambienti schermati, isolati da radiazioni esterne, si cercava di rivelare i pensieri e i sentimenti attraverso “diagrammi del pensiero”. Questi studi, condotti da neuroscienziati, proponevano l’idea di una fotografia del pensiero: una tecnologia ipotetica in grado di catturare l’inconscio, distillando emozioni e stati d’animo in un’immagine. Il progetto PROPAGAZIONE X nasce proprio dall’interrogarsi su questo paradosso. È possibile tradurre l’intangibile, come il pensiero e l’emozione, in un’immagine tangibile? E quale significato potrebbe assumere un’ipotetica “fotografia dell’anima” nella nostra comprensione dell’essere umano? Queste domande hanno guidato lo sviluppo del lavoro, che unisce la dimensione storica e documentaria del ritrovamento con una riflessione contemporanea sul rapporto tra scienza, arte e il bisogno umano di dare forma all’invisibile. L’opera si pone come una narrazione stratificata, dove il recupero del passato dialoga con l’immaginazione di futuri possibili. L’estetica delle lastre fotografiche, con il loro carattere grezzo e misterioso, diventa il mezzo per evocare non solo il senso di scoperta e di sperimentazione, ma anche l’inquietudine e la meraviglia di chi cerca di superare i limiti della percezione umana. In questo senso, il lavoro non offre risposte definitive, ma invita a una riflessione aperta sul nostro desiderio di comprendere e controllare ciò che ci sfugge: i sentimenti, l’inconscio, l’anima stessa. Questo progetto, in mostra fino a dicembre al Padiglione 29 di Forte Marghera (VE), è stato selezionato per il concorso “Artefici del nostro tempo” nella sezione fotografia.
AC: Non parlerei di fotografia narrativa, ma pensando ai lavori “Roma, 9 maggio. 1997”, “Querido Amelia”, “Anamnesi”, mi sembra che le proprietà narrative della fotografia e l’esperienza della narrazione ti coinvolga talvolta anche in prima persona e coinvolge l’osservatore nella fruizione.
EB: Non definirei la mia pratica come fotografia narrativa in senso stretto, ma riconosco che nei lavori come Roma, 9 maggio. 1997, Querido Amelia e Anamnesi emerge una dimensione narrativa che mi coinvolge profondamente, tanto quanto coinvolge l’osservatore. La narrazione, per me, è un gioco fluido e aperto di esperienze vissute, una sorta di flusso di pensieri che si intrecciano e si manifestano senza l’obbligo di una linearità o di una struttura convenzionale. È come un testo surrealista privo di punteggiatura, in cui il ritmo è asimmetrico e mutevole, sempre in divenire. In tutti i lavori citati c’è sempre un punto di partenza, un riferimento che funge da radice, ma da lì si innesta qualcosa di nuovo: un’aggiunta, un elemento inaspettato che trasforma il vissuto originario. Mi piace pensare a questo processo come a una reinterpretazione del cadavre exquis surrealista, in cui ogni contributo arricchisce e stravolge il significato precedente, creando una narrazione stratificata e collettiva. È un modo di combinare l’esperienza personale con l’emotività, lasciando spazio al coinvolgimento diretto, sia mio che di chi osserva. La narrazione, in questo senso, diventa un atto di costruzione aperto, simile al tracciare costellazioni in un cielo notturno. Le stelle sono lì, “statiche”, ma siamo noi a scegliere quali linee unire, quali forme immaginare, quale direzione dare al racconto. Ogni spettatore, ogni partecipante, contribuisce con il proprio sguardo e le proprie emozioni a completare questa mappa celeste di significati. È, dunque, una narrazione di emozioni, un viaggio che invita a perdersi nei dettagli per ritrovarsi in qualcosa di nuovo, trasformato dall’esperienza e dall’immaginazione. Per me, il fulcro del racconto risiede nella memoria, nell’esperienza e nell’emozione, in quel nucleo profondo che si crea sia nella storia che mi viene narrata sia in quella che vivo in prima persona. Ogni mio lavoro parte da questa connessione intima e viscerale, da un sentimento forte che guida l’intero processo creativo. Tuttavia, questo sentimento non resta puro e incontaminato: va elaborato, trasformato, e infine restituito in una forma che riesca a unire polarità opposte, una componente calda e una fredda, una tensione tra l’immediato e il meditato, tra l’intimo e l’universale. La narrazione non è mai un flusso continuo o lineare, ma un susseguirsi di intervalli, di parentesi che si aprono e si chiudono all’interno di una trama principale. È un ritmo irregolare, un gioco di pieni e vuoti, dove le pause hanno la stessa importanza degli eventi. Ogni parentesi diventa un microcosmo che amplifica il senso della storia complessiva, portando con sé frammenti di memoria, emozioni e suggestioni che si intrecciano e si arricchiscono a vicenda. Ribadisco che la narrazione per me è un territorio fluido, dove il personale e il collettivo si mescolano, dove il passato dialoga con il presente, e dove la memoria si trasforma continuamente, adattandosi al contesto e al sentimento di chi la attraversa. Questo intreccio di emozioni e narrazioni frammentate è il cuore pulsante del mio lavoro, il luogo dove le storie trovano una nuova vita.
AC: Sono tre anni che partecipi a “Essere nella distanza” a cura di Davide Tranchina e a settembre2024 hai vinto il premio e.n.D 2024. Mi racconti di questa esperienza all’Isola del Giglio?
EB: A settembre ho avuto l’onore di vincere il premio e.n.D 2024 con l’opera Equilibrio instabile. Partecipare a Essere nella Distanza – Giglio Summer School è stata un’esperienza unica nel suo genere, una residenza artistica particolare. Questa esperienza si distingue innanzitutto per la sua ambientazione: l’Isola del Giglio, un luogo che non è solo uno spazio fisico, ma anche un territorio interiore, collocato nella lontananza e nella quiete. L’isola crea una sorta di sospensione dalle abitudini quotidiane e, allo stesso tempo, favorisce una forte vicinanza con gli altri partecipanti. Questo isolamento condiviso genera un’atmosfera di intensa connessione umana e creativa, dove, giorno dopo giorno, è possibile ritrovare o riscoprire le coordinate del proprio lavoro. La residenza è inoltre un’occasione straordinaria di confronto. In un contesto tanto suggestivo quanto ispirante, ho avuto modo di dialogare con esperti del settore artistico, tra cui curatori, artisti, direttori di musei e galleristi di fama internazionale, oltre che con docenti di altissimo livello. Questo scambio è stato arricchente e ha contribuito in maniera significativa alla mia crescita personale e artistica. L’Isola del Giglio è un luogo magico, capace di nutrire l’anima con una vitalità straordinaria. Qui si vive un’esperienza che non è solo artistica, ma anche profondamente umana, lasciando un segno indelebile nel cuore e nel pensiero di chi la attraversa.
AC: Grazie all’attenzione e allo studio di alcuni critici, penso in particolar modo a Mauro Zanchi e Sara Benaglia, anche loro bergamaschi, da qualche anno in Italia c’è una grande riflessione sul linguaggio fotografico. Si parla di metafotografia, di fotografia come medium estendibile, di confini sottilissimi tra fotografia e arti visive, tra fotografia e immagine. Cosa ne pensi e soprattutto quanto ti riguarda?
EB: Mauro Zanchi e Sara Benaglia offrono una riflessione profonda sul linguaggio fotografico, concentrandosi in particolare sulla metafotografia, un concetto che oggi si pone come un fulcro di rilevanza nel panorama artistico e culturale contemporaneo. Riferendomi al concetto di metafotografia, vorrei sottolineare che personalmente considero queste tematiche fondamentali, poiché la fotografia, per sua natura, è un linguaggio in costante trasformazione, capace di ridefinire il proprio significato e il proprio ruolo nel tempo. La sua essenza non si esaurisce nella funzione di catturare o rappresentare la realtà visibile; al contrario, essa si sviluppa come uno strumento critico e riflessivo che interroga le dinamiche della visione, della memoria e dell’identità. Nell’ambito della metafotografia, questa evoluzione appare ancora più evidente: la fotografia non è più soltanto un mezzo per documentare ciò che esiste, ma diventa un veicolo attraverso cui esplorare ciò che è invisibile, immaginario o potenziale. Essa si posiziona al confine tra presenza e assenza, tra realtà e finzione, aprendosi a una pluralità di letture e significati. Questa continua trasformazione evidenzia quanto la fotografia non sia mai un atto neutrale o statico; al contrario, è un linguaggio profondamente influenzato dal contesto culturale, dalle tecnologie che la rendono possibile e dalle modalità con cui viene percepita e interpretata. In un’epoca in cui le immagini sono prodotte, consumate e condivise a ritmi senza precedenti, il suo ruolo diventa ancora più cruciale, spingendoci a riflettere non solo su ciò che vediamo, ma anche su ciò che scegliamo di ricordare o dimenticare. Per questo motivo, ritengo che le tematiche sollevate dalla metafotografia siano imprescindibili per comprendere la complessità della contemporaneità. La fotografia, quindi, evolve non solo come mezzo tecnico o artistico, ma come dispositivo culturale che plasma e interroga il nostro modo di essere nel mondo. Questa riflessione mi collega a un progetto che ho sviluppato nel 2022, intitolato Ad Honorem. L’opera nasce come una sorta di certificazione della presenza nell’assenza. La fotografia, infatti, rimane ancora oggi un simbolo di testimonianza, veicolo di una verità che, pur relativa, conserva il potere di celebrare la traccia del vissuto e della memoria. I ritratti protagonisti di questo progetto rappresentano un paradosso: sono immagini destinate all’oblio, generate da un algoritmo che crea volti inesistenti. Tuttavia, attraverso il loro trasferimento su carta fotografica logora, queste figure artificiali vengono “riesumate” e onorate, ricevendo una nuova veridicità e attestazione. Così, ciò che non esisteva acquista una forma, un’identità visiva. In questo processo si rievoca simbolicamente l’assenza, trasformandola in presenza; si commemora l’inganno insito nella fotografia contemporanea, celebrando l’inesistente, il nulla, il nessuno. Questo atto diventa una riflessione profonda sul rapporto tra realtà e finzione, memoria e dimenticanza, autenticità e costruzione narrativa. Ad Honorem si configura quindi come un omaggio all’immaginario, un’ode all’ambiguità e al potere trasformativo dell’arte.
ELIA BRIGNOLI
Elia Brignoli (Bergamo, 1996) ha conseguito il Diploma di 1° Livello presso la Libera Accademia delle Belle Arti, LABA di Brescia, proseguendo poi con il Diploma Accademico di 2° Livello all’Accademia di Belle Arti di Brera. La sua ricerca artistica si concentra sull’intersezione tra immagine e installazione, esplorando temi legati alla dimensione dell’altrove e dei ricordi. I suoi progetti mirano a ridare vita a materiali e fotografie considerati scarti, integrandoli in un percorso che fonde memorie e sentimenti con l’esperienza personale. Per Brignoli, la fotografia supera il mero aspetto visivo, diventando un mezzo per trasmettere profondità emozionali. La sua pratica artistica si sviluppa attraverso una delicata armonia tra elementi di freddezza e calore, mantenendo intatta la purezza del sentimento e dell’esperienza vissuta. Le sue opere evidenziano il desiderio di creare connessioni profonde, integrando elementi apparentemente eterogenei in una sintesi poetica. Nel corso delle sue esperienze più rilevanti, Elia Brignoli, nel 2021, ha preso parte alla residenza “Essere Nella Distanza”, un evento curato da Davide Tranchina sull’Isola del Giglio, dove ha vinto il premio E.n.dnel 2024. Precedentemente, sempre nel 2021, ha esposto presso il Mo.ca di Brescia e ha partecipato alla residenza Walking in Studio – Non Riservato a Milano, curata da Cecilia Guida e Rossana Ciocca. Nel 2022 ha esposto al Careof di Milano, in una mostra curata da Elisa Medde. Nel corso degli anni 2022 e 2023, ha partecipato al Premio Francesco Fabbri per le Arti Contemporanee, nella sezione di fotografia contemporanea, curata da Carlo Sala.
Cover: Elia Brignoli, Propagazione X, fotografia, 2024