Giorgio Barrera (1969) è un artista toscano che lavora con la fotografia, il video e la scrittura. La sua ricerca si focalizza sull’analisi e l’originalità dei linguaggi visivi, sulla creazione di immaginari, sul rapporto realtà e soggettività e sul rapporto fra opera d’arte e fruitore. La sua ricerca si estrinseca attraverso svariate sperimentazioni e metodologie progettuali. È tra i fondatori del collettivo artistico Fotoromanzo Italiano (2011). Attualmente è professore in organico presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo e docente alla scuola BAUER di Milano per la quale cura i seminari Diga del Panperduto (dal 2022) e Anatomia e dinamica di un territorio (dal 2020). In questa intervista abbiamo parlato insieme a Giorgio Barrera di M.E.M., un lavoro artistico e fotografico sulla morte di Enrico Mattei.
Sara Benaglia + Mauro Zanchi: M.E.M. è un lavoro artistico dedicato a Enrico Mattei. Quale immaginario hai voluto creare con questo progetto, costituito dall’ibridazione tra documento e ricostruzione?
Giorgio Barrera: Immaginario è un termine al quale tengo molto e il cui significato viene spesso semplificato contrapponendolo a quello di reale. L’immaginario, in estrema sintesi, potrebbe essere definito un complesso sistema semiotico e semantico in divenire. Anche il documento e la ricostruzione si intersecano con il tempo, il primo riguarda il passato, il secondo concerne un’azione che riguarda la rivitalizzazione, il rifacimento o la ricomposizione di qualcosa che è stato. Rivolgersi al passato significa voler incontrare la memoria, un’attività che nel mio progetto si estrinseca nella relazione con una cospicua serie di documenti, immagini, testi e testimonianze. La memoria, ed è ciò che ho voluto fare in questo lavoro, ha la capacità di mettere in crisi la dimensione del passato quale ambito in cui le cose vengono concepite immobili, o allontanate dalla vita. In questa direzione riportare a memoria, ricordare, significa predisporsi verso un’immaginazione attiva capace di ripresentare situazioni nel presente; la memoria non può esistere infatti se non nel presente, nel momento cioè in cui qualcosa è ricordato o evocato. In altri termini ancora, la memoria è la messa in discussione dell’idea di qualcosa di irreversibilmente passato.
Dopo circa due anni di lavoro ho compreso che l’immaginario di questo progetto si sarebbe configurato attraverso costellazioni di simboli. Le immagini e i testi che lo costituiscono, nei miei intenti, sono perciò irriducibili, perché sono originali, nel senso che provengono dall’immaginazione attiva di cui dicevo poc’anzi e, proprio perché si rivolge ad eventi passati, non può fare a meno di formarsi avvalendosi di documenti e testimonianze che hanno scatenato in me impulsi creativi.
Ricostruire storicamente un evento, o un personaggio significa riflettere in primis su concetti quali visibilità e invisibilità, seguendo questo pensiero si potrebbe dire che il passato è visibile formato come è da documenti e testimonianze, mentre la memoria è invisibile perché in ultima analisi è immagine immateriale. L’invisibile è però anche ciò che è occultato e l’immaginario di questo progetto ha la presunzione di rendere visibile ciò che non lo era al momento in cui era presente la possibilità di esserlo, oppure, che non lo è mai stato: per molti degli accadimenti che ho rappresentato non esistevano prima immagini, anche perché talune situazioni che posseggono una vocazione realista e che ho finzionalmente ricreate non è detto che siano davvero mai avvenute.
Del resto molte delle questioni che riguardano la morte di Mattei si sono fondate sull’invenzione di fatti, posti come reali, che hanno creato immaginari fittizi e credenze. Alla luce di quanto detto, forse più che di ibridazione si tratta di cercare una forma che vada oltre le classificazioni. È stata mia intenzione voler creare, e senza voler essere presuntuoso, un novum aperto, modulare e quindi componibile e configurabile sempre diversamente,formato da immagini simboliche che vogliono unire mimesi e memoria e che hanno la presunzione di essere capaci di creare engrammi, nuove, o ulteriori, tracce mnemoniche.
SB+MZ: La morte di Enrico Mattei – imprenditore e amministratore pubblico, fondatore della compagnia petrolifera italiana ENI – avvenuta nel 1962 nei pressi di Milano, è un avvenimento storico emblematico, che possiamo collegare a tutto quello che è rimasto irrisolto nella storia della Repubblica italiana, accanto ad attentati, stragi, macchinazioni del SISDE, manipolazione delle BR, trame dei servizi segreti americani e inglesi. Perché ancora oggi è così difficile parlare dell’“incidente” che ha causato la morte di Mattei ed esporre questo lavoro in un Museo?
GB: Molti fra giornalisti, storici e studiosi vedono nell’episodio della morte di Mattei, quando inserito in un contesto internazionale uno dei primi segnali di un cambiamento dello scacchiere globale del potere, mentre, per quanto riguarda il nostro Paese viene considerato l’atto inaugurale della lunga piaga terroristica denominata “anni di piombo” o “strategia della tensione” e che continuò fino agli anni novanta. Anche il finale del bellissimo film di Francesco Rosi “Il caso Mattei” non dà una risposta chiara e certa sulla morte del primo presidente di ENI. Non so perché sia così difficile parlare dell’“incidente”, è una domanda troppo grande per me, e credo per chiunque, ma ovviamente se qualcosa è difficile vuole dire in un certo senso che è irrisolta. Se fino alle indagini del giudice Vincenzo Calia, che su invito dei familiari del giornalista McHale le riaprì trentatré anni dopo, l’ipotesi dell’attentato, nonostante 12 consulenze tecniche, 614 testimoni, 350 immagini, 5000 pagine di fascicoli e altro ancora non riuscì a essere dimostrata, adesso che ciò è stato accertato non è stato comunque possibile risalire ai mandanti, perché ad un certo punto il procedimento si arrestò.
Questo mio lavoro – che si potrebbe anche definire un’inchiesta contraddistinta da una peculiare dimensione iconografica e testuale – ha ricevuto un certo numero di no. Io ho lavorato seguendo un percorso esplorativo e ho dato vita a un corpus estetico che segue e seguirà il suo percorso, anche di invisibilità, del resto nella storia delle immagini spesso queste sono state nascoste e perciò sottratte alla vista. I no che ho ricevuto riguardavano la mancanza di cogenza del lavoro, le richieste di stravolgimento del progetto che a mio modo di vedere non potevo accettare, dichiarazioni del perché resuscitare un tale episodio e domande riguardo il perché del mio interesse, ma anche di quello di un eventuale pubblico, verso una questione ormai sepolta.
SB+MZ: In M.E.M. hai operato una ricostruzione storica complessa della morte di Mattei, andando a recuperare materiale storico, con particolare attenzione all’iconografia dell’informazione giornalistica degli anni ‘60 e ’70. Questa è stata la base per un lungo processo di ricerca. Come ti sei mosso tra i residui, i reperti, le costruzioni e le reinterpretazioni della storia?
GB: Come accennavo è stato un lavoro di esplorazione, apparentemente disordinato, ebbra come è l’esplorazione che assume con meraviglia ciò che si presenta nel progredire della ricerca. Ho proceduto conservando e custodendo, appunti, immagini, materiali e cose di vario tipo che sono risultati essere il ponte che mi ha permesso di andare verso una sorta di annientamento delle immagini esistenti e quindi verso una forma di abisso o di nulla e da questo sono partito per giungere a un nuovo visibile. Come dice Massimo Cacciari “la meraviglia è pàthos, è emozione”, è un qualcosa che muove l’intimo, che si fa strada nelle viscere e che può risvegliare un atto intellettuale che spinga a conoscere le cose: è stato così che ho vissuto la ricerca. Ho visitato a Fiesole (FI) l’archivio Pietro Porcinai, il giardiniere del paesaggio che ha progettato il Memoriale dedicato a Mattei su incarico della Snam, ho letto libri, articoli di giornali, studiato film e documentari, ho messo il naso in diversi archivi online, ho conosciuto alcuni rappresentanti dei Pionieri Eni di San Donato Milanese, sono entrato in contatto con l’archivio Eni, ho rinvenuto alcune copie de Il Gatto Selvatico, rivista aziendale di ENI, ho ascoltato interviste e testimonianze e fra queste forse le più profonde e significanti sono quelle che compongono il programma “Ricordo di Enrico Mattei” (1967), un ciclo di incontri condotti da Sergio Zavoli nei quali il giornalista colloquiava con figure vicine e care a Mattei quali ad esempio la vedova del pilota dell’aereo Irnerio Bertuzzi, Giorgio La Pira, Ferruccio Parri, Arrigo Boldrini, la moglie di Mattei, Greta Paulas e altri. Il film di Francesco Rosi e il libro scritto a due mani dal giudice Vincenzo Calia e Sabrina Pisu entrambi intitolati “Il caso Mattei” sono stati di estrema importanza per comprendere lo scenario politico e culturale del tempo. Con la tecnologia oggi a disposizione analisi di laboratorio durante le indagini di Calia rilevarono, su un brandello dell’aereo conservato da un eniano la presenza di tritolo: “In quel pomeriggio dalla luce radente in un giorno che precede la fine del secolo: poiché lei mi chiede se sono a conoscenza dell’esistenza di qualche pezzo del velivolo di Mattei, trattenuto come ricordo del defunto presidente dell’ENI, voglio farle presente che subentrato al Costa io ho trovato in ufficio un pezzo del velivolo. Successivamente, dopo lungo tempo, l’ho portato a casa come ricordo e oggi glielo consegno perché ritengo che possa servire più a lei per le indagini che a me. Si tratta di uno strumento a forma cilindrica di colore nero sul cui quadrante appaiono tre lancette danneggiate e le scritte trip plan, flaps, stabilizer.”
SB+MZ: Il Memoriale Enrico Mattei, spazio quadrato recinto da alberi e siepi, ha un valore emblematico nel tuo lavoro. Come hai deciso di operare in questo luogo della memoria, che evoca tante amnesie e di rimozioni, sintomatiche di tante indagini irrisolte, che hanno plasmato un certo modo di pensare italiano?
GB: Il Memoriale è un luogo speciale del quale, presso l’archivio Porcinai ho visto i disegni preparatori e le fotografie della realizzazione dell’intervento. Questo luogo della memoria venne, su richiesta del committente, realizzato in tempi brevissimi, quasi come se quest’ultimo fosse consapevole di quanto riportato nell’abstract del libro di Andrea Pinotti, Nonumento (Johan & Levi, 2023), ovvero che il memoriale è afflitto da un paradosso: “costruito come dispositivo di rammemorazione, si ribalta nel suo contrario, e diventa macchina di oblio.”
I memoriali sono spesso luoghi di pacificazione, silenti e melancolici, l’intenzione di chi li inserisce nello spazio pubblico, normalmente e a vario titolo per la collettività, è che attraverso essi si custodiscano memorie. Quando ho iniziato il progetto mi è sembrato l’unico e possibile punto di partenza e l’ho vissuto quale luogo del delitto, il luogo cioè dove chi indaga ricava indizi e prove. Certo si capisce bene che a distanza di oltre cinquanta anni (adesso sono più di sessanta) dalla morte di Mattei rinvenire indizi o prove materiali è, in partenza, un’impresa fallimentare. Ma il punto sta proprio qui non era necessario trovare indizi o prove materiali. Mi sono recato davvero tante volte al Memoriale, per anni, in tutte le stagioni: l’acqua nella roggia che scorrendo ne percorre in parte il perimetro, le foglie rosse del Taxodium distichum che alla fine del mese di ottobre (il giorno dell’attentato era il 27 di quel mese) lascia cadere foglie rosso sangue, la neve, i caldi campi di mais altissimo, gli aerei diretti a Linate che in fase di atterraggio rombano e solcano il cielo con frequenza, le carpe che muoiono asfissiate nelle rogge perché l’irrigazione dei campi è terminata, gli aironi e i cavalieri d’Italia, i campi arati, la pioggia, la nebbia, le nutrie, l’umidità della pianura padana. Elementi evocativi. Il Memoriale è stato per me una sorta di Denkraum warburghiana,una stanza dove unirsi al pensiero, dove pensare. Ma come il Memoriale si trasformava di volta in volta durante gli anni e le stagioni, anche le mie immaginazioni hanno preso direzioni eterogenee modificandosi e sviluppandosi eliminando qualsiasi confine estetico e combinando il visibile del luogo con l’invisibile dell’immaginazione e della memoria. Per una consistente parte del lavoro questo quadrato situato nel pavese nord orientale è diventato la scenografia di una serie di fotografie che vedono protagonisti, fra gli altri, la vedova Mattei, la sorella e i fratelli del presidente ENI, ma anche Laurent, o i mandanti. Laurent è il nome che nel film di Rosi viene dato a colui che mise il Compound B nell’aereo e che venne innescato dallo sganciamento del carrello. Molti dei testi che ho scritto riguardano i pensieri che questi personaggi avrebbero potuto fare trovandosi lì, le domande che avrei posto e le risposte che avrei ascoltato. Sono fotografie che riprendono minime performance il cui scenario è il teatro della memoria realizzato per Mattei, il Memoriale è in questo senso un luogo in cui la memoria mette in gioco se stessa.
SB+MZ: Hai scelto una narrazione da Fake Photography per tentare una possibile ricostruzione potenziale di un fatto storico che ci è stato tramandato nei libri in modo parziale, se non travisato dai media e dal potere capitalista. C’è una relazione tra il racconto falso di un avvenimento e la scelta del medium per costruire una possibile sceneggiatura alternativa, che forse riesce a far luce rispetto a tutto quello che non è giunto fino a noi attraverso le fotografie documentarie?
GB: Capisco bene il concetto che intendete trasmettere parlando di fake photography. Credo che nel nostro tempo possiamo sempre più compiutamente definire la Fotografia quale Universale, ne parlava anche Barthes ne La camera chiara, e tenere questo termine quale unicum indicativo di una moltitudine di pratiche e di concetti così come si fa ad esempio quando ci si riferisce alla pittura. Oggi si potrebbe indicare, perciò, con fotorealismo l’insieme eterogeneo, malleabile e in divenire di tutte quelle immagini, fisse e in movimento, digitali, analogiche e o artificiali che dalla Fotografia quale Universale discendono. Abbiamo incamerato nei secoli una visione prospettico-matematica del mondo che ci porta ad assumere per vero ciò che è fotorealista, proprio nei termini indicali, in quello che è il noema o l’ontologia della fotografia. La fake photography è un genere che diventa interessante teoricamente perché mette in discussione le credenze che la fotografia ha inveterato, ma è pur sempre un artefatto, certo differente teoricamente ad esempio dalla straight photography, ma come quest’ultima crea una mimesi del reale, ne diviene parte e ha in potenza la caratteristica di creare immaginario e memoria. Io lavoro con le parole, che è una tecnologia che ha permesso nei secoli la trasmissione della cultura dell’umanità e le immagini (fotorealiste): qualsiasi avvenimento si racconta, nel senso che può essere raccontato ma allo stesso tempo racconta anche se stesso attraverso questi modi di espressione (anche non contemporaneamente). Oggi, se l’avvenimento è travisato o lo voglio fare credere vero anche quando sia distante o diverso dalla verità, devo usare media che mi permettono di formare credenze, convinzioni o di confermarle. La relazione sta proprio nel messaggio che ciascun medium trasferisce e incorpora.
Fare luce è una bella espressione perché presuppone che vi sia qualcosa di nascosto, di celato o nascosto dall’ombra, ma io non credo che il mio lavoro sia in grado di farlo, e probabilmente la sua poca diffusione è proprio la sua forza, credo che l’utilizzo della fotografia, dei testi o dei video o dell’unione di questi, come dicevo poc’anzi, sia un modo per trasferire una modalità processuale immaginativa e che questa contemporaneamente agisca come una scintilla per creare immaginari.
SB+MZ: Che relazione c’è tra immagine e testo nel tuo lavoro? Il testo è un’espansione del fotografico o una sua parte integrante?
GB: Testo e fotografico sono ingredienti che si combinano senza subordinazione mescolandosi per formare un insieme. Il progetto è composto di vari esperimenti, di stanze che posseggono estetiche differenti. Ad esempio, in alcune fotografie appaiono dei testi, dico appaiono perché ho creato un sistema che permette al testo di mostrarsi dentro la fotografia, sono perlopiù testi poetici che si riferiscono a testimonianze di veri accadimenti, all’adattamento di prove giudiziali o a perizie tecniche e che per la loro prossimità entrano per forza di cose in relazione con ciò che è mostrato dalle immagini fotografiche. Far convivere all’interno di un quadro il visivo e il testuale significa per me, in queste immagini fotorealiste, agire metalinguisticamente contrapponendo la fissità delle fotografie con lo scorrere del tempo, ma significa ancor più dilatare le significazioni dei linguaggi. Il testo che appare dentro le immagini, che ho mutuato dai testi scorrevoli che nelle produzioni video e televisive appaiono, solitamente, in sovraimpressione sulla parte inferiore dello schermo, si mostrano in una zona dell’immagini con una cadenza non ritmica, quasi come un battito cardiaco. In questa direzione l’uso del testo si avvicina alle modalità concettuali della poesia visiva. Questo genere poetico carpiva le trasformazioni linguistiche dei mass-media e le metteva in crisi intrecciando politica, storia, cultura e arte. Il mio progetto analizza anch’esso questi ambiti cosicché testi e immagini, e la loro combinazione, sono investiti di un velato valore informativo, che però non teme l’azione corrosiva del tempo.
SB+MZ: Ci parleresti dell’associazione mediale tra il realismo dell’illustrazione di Walter Molino sulla copertina del Corriere della sera (Domenica del Corriere), che nel 1962 dava una chiara lettura degli ultimi momenti di vita di Mattei, e la funzione della fotografia documentaria?
GB: Nel libro La Battaglia delle immagini (Postcart, 2016) introducevo un concetto che avevo chiamato fotograficità implicita, si tratta di una sorta di forma mentis che conduce ad agire e pensare in termini fotografici, a vedere e pensare il mondo nei modi che l’Universale fotografico ci ha insegnato, e a percepire la realtà attraverso mediazioni visive, a definire il reale attraverso finzioni. O più precisamente come asserisce H. Corbin accogliamo il fatto che nel nostro presente “invece di elevare l’immagine al livello del mondo a cui appartiene, invece di essere investita di una funzione simbolica che porterebbe a un significato interiore, si tende a ridurre l’immagine semplicemente al livello di percezione sensibile e quindi a essere decisamente degradata. Non si potrebbe allora dire che maggiore è il successo di questa riduzione, più le persone perdono il senso dell’immaginale e più sono condannate a produrre nient’altro che finzione?” In altri termini, come accennavo prima, l’immagine fotografica ha creato una letteralizzazione delle immagini e una credenza di lettura fotoealista del mondo in divenire che è ormai totalmente indipendente dalla realtà o dalla verità che l’immagine mostra. Per Fotografia occorre, secondo me, intendere oggi quella tipologia di immagine che assume in sé l’ontologia della fotografia pur non avendo con la fotografia delle origini in effetti nessun rapporto, se non puramente mimetico, se non puramente formale. Un esempio palese di tutto ciò è l’immagine fotorealista dell’immagine generata con l’intelligenza artificiale. Infatti, questa possibilità di lettura del mondo si è acuita e consolidata con la tecnologia digitale e se prima era quasi ad esclusivo appannaggio dei fotografi o degli artisti che lavorano con le arti che si basano sull’ottica, adesso si è estesa a tutti. Ritengo vi sia una sorta di annidamento della fotograficità nel pensiero di ognuno che si manifesta con l’attitudine a leggere, credere e creare la realtà attraverso questa tipologia di immagini. Del resto, alla pari di ogni tecnologia umana, come ad esempio è accaduto con la nascita e la diffusione dell’alfabeto, essa entra a fare parte delle modalità cognitive ed espressive di ognuno.
Il recente lavoro che ho realizzato per Strategia Fotografia 2023, che si intitola Cartofotografica, e che sarà esposto a Palazzo Butera a Palermo alla fine del mese di ottobre, si basa sull’analisi di dieci dipinti cartografici che ritraggono le città dei feudi della famiglia Branciforti. Sebbene nei dipinti sia presente una prospettiva “a spina di pesce” lo spettatore è comunque portato a utilizzare il modello interpretativo prospettico che lo porta a assumere e pensare veritiere le rappresentazioni pittoriche.
Questa lunga premessa è necessaria a spiegare il perché l’illustrazione iper-realista di Walter Molino che mostra Mattei, il suo pilota Bertuzzi e il giornalista McHale, nell’atto di precipitare, calcando le impressioni di realtà che la fotografia reca, si sostituisce a quella che è la funzione della fotografia documentaria o reportagistica o di cronaca si è arrogata di poter fare: cercare di rappresentare senza distingui la verità delle cose in un frammento visivo.
Ho comprato alcune copie di quel numero della Domenica del Corriere e in una di queste ho sostituito l’immagine e la didascalia che costituiscono la copertina con una nuova immagine e una didascalia, con i medesimi caratteri dell’originale, adatta all’immagine da me realizzata. La copertina così formata rende immagine le parole del contadino di Bascapé che per primo rese testimonianza dell’accaduto e che poi ritrattò.
SB+MZ: Che importanza ha Pasolini nella tua concezione della ricostruzione formale (fotografica e non) per mostrare un possibile reale?
GB: Petrolio, il libro di Pasolini dal quale ho tratto ispirazione, è un intreccio di osservazioni sul potere, è un romanzo ricco di grovigli, di trame e intrighi che si esplicitano attraverso visioni e evocazioni straordinarie. In molti, e tra questi Walter Siti, lo considerano il libro che ha per oggetto le questioni che concernono la morte di Mattei e l’ascesa alla presidenza di ENI (e poi di Montedison) della discussa figura di Eugenio Cefis, vice di Mattei in ENI e che l’italiano più potente al mondo dopo Giulio Cesare, conosceva già al tempo della sua militanza partigiana, quando questi agiva sotto lo pseudonimo di comandante Alberto. Alcuni ritengono, probabilmente non a ragione, che l’omicidio di Pasolini sia collegato proprio alla stesura di Petrolio.
Più che di ricostruzione formale direi che nel mio lavoro, la relazione con questo libro composto di appunti, si traduce in una sorta di acquisizione metodologica della quale a dire il vero mi sono accorto a posteriori, infatti a un certo momento ho scoperto che, e quindi devo essermi molto immedesimato nell’operare di Pasolini, in uno degli appunti da lui scritti durante la fase di progettazione del libro si legge che “Il carattere frammentario dell’insieme del libro fa sì per esempio che certi «pezzi narrativi» siano in sé perfetti, ma non si possa capire, per esempio, se si tratta di fatti reali, di sogni o di congetture fatte da qualche personaggio”.
La stesura incerta data dall’incompiutezza dell’opera e allo stesso tempo aperta perché più volte il lettore è chiamato a essere parte dell’opera stessa, così come il mescolarsi di realtà e illusione danno vita “a un dispositivo letterario capace di articolare un’opposizione contro egemonica a quella civiltà dei consumi che ha vanificato la mimesi” scrive Paolo Desogus ne “Il disincanto della mimesi attraverso Petrolio di Pier Paolo Pasolini”.
Qui, ricollegandomi a quanto risposto alla vostra prima domanda, si trova il punto nodale del progetto, dove il metaromanzo di Pasolini consente di abbracciare la fotografia che guarda e critica se stessa.
Il mio progetto è anch’esso un dispositivo aperto, la costellazione di cui parlavo all’inizio, che formata da immagini simboliche create da un’immaginazione attiva come avviene in Petrolio, vogliono porsi in contatto con lo spettatore rendendolo parte attiva del lavoro stesso in parte grazie ai testi che si distanziano da una forma prosastica e in parte proprio alla realizzazione di immagini fotorealistiche che raccontano di eventi forse inesistenti.
Pasolini era un visionario, lo è stato anche sulla critica della politica, della società, dell’economia.
La visione è la funzione, la capacità di vedere. Il senso comune però la associa spesso all’apparizione, o a qualcosa che si pensa di aver visto o addirittura al sogno; questa significazione, quantomeno in parte, ne insidia la forza del più solido concetto collegato al vedere inteso quale presa di coscienza diretta. Il vedere nell’antica Grecia significava anche comprendere, proprio nel senso che ho visto! e quindi so. Le visioni di Pasolini nascono così: ho compreso il reale quindi posso creare visioni e simboli, nel mio piccolo, credo anche le mie. Inteso come metodo MEM è un lavoro filologico che invece di ricostruire costruisce documenti per cercare una forma originaria, in questa direzione si esplicita la volontà di realizzare, per mezzo di un’elaborazione creativa, una forma di resistenza al disincanto.
SB+MZ: Questo tuo lavoro riprende alcuni quesiti che ti sei posto già nelle tue ricerche precedenti. Che relazione desideri instaurare con i fruitori delle tue opere? E con quali dispositivi? M.E.M. è un lavoro che non hai ancora esposto integralmente, per cui come immagini il display di questo progetto?
GB: Via via che realizzavo il lavoro ho pensato a molte e differenti modalità di restituzione di questa ricerca. Ad un certo momento, quando ritenevo di averlo ultimato e mi sono posto la questione concreta di esporlo, ho guardato molto al lavoro di Boltansky che tanto ha lavorato sulla memoria, e ho realizzato una serie di modelli installativi e disegni di strumenti espositivi. Intorno al 2018, ho iniziato a lavorare a questo progetto nel 2013, ho smesso di produrre. Poi nel 2020, non so cosa mi ha mosso, probabilmente una sorta di necessità di completezza e sintesi, ho scritto un testo di teatro civile, un monologo con suoni e musiche (appena accennate) della durata di circa quarantacinque minuti del quale sto producendo un vinile a 33 giri. Una delle cose belle di questo lavoro è che è stato pensato e ripensato, ha avuto tempi di realizzazione dilatati cosicché l’installazione si presta ad una molteplicità di possibilità. Ovviamente quella che il progetto si auspicherebbe è quella che ne rendesse la totalità. Ciò che mi preme è che l’installazione possa servire come un dispositivo che serve a orientarsi e, come dicevo riguardo a Petrolio, che lo spettatore venisse mosso da una pulsione a conoscere di più. Sin da quando ho cominciato a recarmi al Memoriale e quindi a approfondire la mia inchiesta, ho avvertito la sensazione di essere dentro un labirinto di immagini, fatti, storie, parole e per uscire dal labirinto, si sa, occorre doversi orientare. Se l’homo pictor necessitava di immagini per orientarsi al fine di trovare modi per sopravvivere, l’homo pictor contemporaneo necessita di immagini perché, eventualmente, si preoccupa di comprendere la realtà cercando di orientarsi nel pensiero, le necessità o le ragioni che hanno guidato le azioni che hanno costruito quella realtà. Le mie immagini sono se vogliamo immagini per orientarsi nel caso Mattei. L’installazione è una piccola galassia che forma un nuovo memoriale, dove potrebbe aver luogo una performance e che è un ibrido tra teatro, studio televisivo e radio, che consta di alcune teche, stampe fotografiche e immagini in movimento che prendono vita su diversi supporti, alcune luci.
SB+MZ: Perché alcune immagini che compongono il corpus di quest’opera sono sovrapposizioni di più frame o fotografie?
GB: Credo che vi riferiate in particolare a tre immagini, un ritratto di Mattei, persone presenti al suo funerale e la carcassa dell’aereo. La prima e la terza riguardano stratificazioni di volti, la seconda di pezzi dell’aereo: sono tutte immagini che ho recuperato attraverso internet.
Semplicemente volevo dare l’impressione di perdita di contorni precisi da una parte e dall’altra intendevo ammassare segni. Così come in geologia la disposizione e sovrapposizione di strati di sedimenti ha dato vita alle forme del nostro presente così la somma di documenti dà vita a immaginari. La stratificazione innesca la polarità dello scavare.
SB+MZ: Che immagini sarebbero state ritrovate all’interno della macchina fotografica del giornalista McHale?
GB: “Il bireattore MS 760 al cui comando era un pilota espertissimo aveva a bordo con Mattei, il giornalista americano William McHale. Era partito da Catania alle 16 e 57, un volo tra cumuli di nubi e sferzate di vento; a sette chilometri da Linate, poco più poco meno, l’aereo stava già atterrando. Alle 18 e 59 l’ultimo contatto radio, “tutto bene scendiamo” disse il pilota. A Bascapè, in mezzo a una semina di rottami fu trovata intatta la macchina fotografica del giornalista McHale. Conservava le ultime immagini scattate tre ore prima di Mattei vivo. L’ultima è indecifrabile, sembra anticipare il mistero di Bascapé.”
Le foto infatti vennero sviluppate è apparvero su un numero de Il gatto selvatico, periodico aziendale di ENI. Sono immagini di Mattei all’aeroporto di Fontanarossa che saluta i suoi accompagnatori siciliani, l’immagine indecifrabile di cui parla Sergio Zavoli nella trasmissione da cui è tratto il virgolettato è la fotografia presa da McHale durante il volo; mostra dall’alto la campagna italiana in una giornata soleggiata che ha come quinta la strumentazione dell’aereo.
Nella mia versione la macchina fotografica è stata rinvenuta da me nel Memoriale, è distrutta ma vi è un rullino e nel negativo così come nel provino a contatto che ho ricostruito molte fotografie sono mancanti, brutalmente sovra e sotto esposte, tanto che è impossibile vederle. Un po’ come per la vicenda, de Il caso Mattei.