Testo di Gianmarco Gronchi —
Di recente mi è capitato di vedere, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra, due azioni performative di Jacopo Benassi (La Spezia, 1970). L’artista, che si è affermato da qualche anno come una delle voci più controverse e originali del panorama italiano, in queste settimane sembra vivere un periodo particolarmente florido, con la recente mostra Sàlvati Salvàti alla Galleria Francesca Minini e le sue opere esposte con successo all’interno della fiera di Artissima a Torino. Accanto a questi due eventi, una fitta serie di momenti performativi e esibizioni dal vivo, tanto all’interno della summenzionata galleria Minini, quanto in luoghi che divergono dalla programmazione mainstream e si avvicinano ai gusti e alle estetiche alternative care a Benassi stesso. La dimensione intima di questi eventi – e la conseguente estraneità rispetto ai grandi numeri di momenti più ufficiali – muove verso il tentativo di fermare nella prosa la loro dimensione effimera. Soprattutto, questo rende possibile stabilire un confronto tra alcuni aspetti formali, che sembrano rappresentare le due facce della stessa medaglia.
Il primo evento che vorrei richiamare è quello organizzato all’interno della cornice di Contaminazioni, progetto artistico ideato da Sara Van Bussel e Manuela Nobile. Le due curatrici dell’evento hanno ideato un temporaneo take over di Germi, locale e centro culturale nel cuore di Milano. Il format, che prevede la compartecipazione di un artista e una band musicale, ha precedentemente visto come protagonisti la pittrice Flaminia Veronesi con i Delicatoni e il fotografo Alessandro Calabrese affiancato da Clauscalmo. Il 22 ottobre è stata invece la volta di Benassi, insieme al gruppo torinese dei Larsen. Per l’occasione Benassi ha presentato un momento performativo che diverge lungamente rispetto alla sua pratica canonica, fatta di cacofonie gridate, movimenti corporei e, spesso, denudazioni. Non che in questa occasione il rumore mancasse, ma Benassi lo canalizza in maniera diversa. Nello specifico, da Germi l’artista propone un concerto di luci che, in un ambiente completamente buio, vengono coordinate per muoversi su una base di musica elettronica improvvisata live dai vari membri dei Larsen.
La distorsione delle chitarre elettriche, il riverbero degli amplificatori, il ritmo spastico del tono musicale generano un contesto dissonante e allo stesso tempo particolamente lirico, in cui l’irruenza del suono è mitigata da una scena visiva molto composta – Benassi a muovere le luci, i Larsen agli strumenti. E tuttavia la violenza che di norma caratterizza la gestualità delle azioni di Benassi viene delegata alla coreografia luminosa, che nel suo accendersi e spegnersi in maniera schizofrenica pone lo spettatore in un territorio incerto, di disturbo quasi fisico, tant’è che era sconsigliata la partecipazione a chi soffre di epilessia. Non è quindi un caso che il movimento delle luci sia preceduto da un’ouverture con la macchina fotografica, maneggiata da Benassi stesso che, muovendosi al buio tra il pubblico, scatta con il flash puntato direttamente in faccia degli spettatori. In questo caso, tornano in mente le parole di Susan Sontag relative alla fotografia come arma predatoria, come medium che sottrae qualcosa al soggetto rappresentato, come gesto che viola le persone e le trasforma in oggetti che possono essere posseduti simbolicamente. Qui soprattutto preme insistere sull’aspetto intrusivo della luce, intesa come elemento di disturbo fisico, volto a violare le intimità individuali e collocarle in una dimensione di brusio caotico vissuto in maniera collettiva.
Il 2 novembre ritrovo Benassi a Torino, durante i giorni di Artissima. Anche in questo caso si tratta di una contaminazione, perché l’intervento dell’artista spezzino viene ospitato all’interno dello studio dell’ottimo Edoardo Piermattei, aperto al pubblico per l’occasione. Sotto le pitture di Piermattei, che dissolvono l’architettura in batuffoli di colore, Benassi propone nuovamente un intervento con base musicale, affiancato nuovamente da alcuni membri dei Larsen. Che questa volta l’azione performativa fosse più vicina alle sue consuetudini lo si poteva intuire già guardando gli strumenti di scena: pedale di chitarra, una ciabatta, elmetto militare, un’ascia. E difatti, rispetto a quanto visto da Germi, lo svolgimento segue un’andatura decisamente più irruenta.
C’è ancora un rapido inizio con scatti fotografici al buio, a cui segue un crescendo di distorsioni elettriche che mischiano rock e techno. Tamburi e chitarra elettrica vengono suonati – o percossi – con la ciabatta, finiscono in terra, vengono lanciati. Di base, c’è un esplicito tentativo di decostruzione di tutto ciò che viene associato a una normale composizione musicale, che dichiara una certa riottosità neodadaista dedita alla distruzione e alla provocazione – le stesse matrici culturali del punk degli anni Settanta. L’intervento non poteva quindi non finire che con la chitarra sfasciata ad asciate, che, nella sua iconografia, richiama dei sacri del rock e del punk-rock come Jimi Hendrix, Paul Simonon, Kurt Cobain. Sembra possibile resuscitare per Benassi una lessicografia cara già a John Cage e Fluxus, quale aleatorietà, estemporaneità, improvvisazione. Nondimeno, tanto la componente musicale, quanto quella gestuale, nelle azioni di Benassi mantiene sempre una coerenza e una logica, pur nella loro dimensione formalmente destrutturata. Mi pare quindi che per l’artista spezzino la musica non sia un fine, quanto un mezzo, e l’obiettivo è quello di una confusione tra piani, una com-partecip-azione – fisica, sensoriale che sia – al gesto performativo.
È chiaro che si fa molta fatica a restituire in parole tutto quello che concorre a creare il contesto all’interno del quale si svolge una performance. Nel caso di Benassi questo comprenderebbe la sensazione di oppressione provocata dall’accalcarsi di molte persone in spazi esigui, l’aria viziata, il crescendo ritmico, il sudore. Quello che invece si può dire è che forse c’è una generale malcomprensione di quello che Benassi vorrebbe dirci, dal momento che, per sua stessa ammissione, l’obiettivo è il disgusto, la repulsione, e non la vuota ammirazione estetica. Tuttavia, è proprio su questo ambiguo, sottile crinale che si muove consapevolmente Benassi, in una dichiarata, appassionata fedeltà a una linea. Pur diverse nei loro aspetti formali – più dimessa e lirica quella da Germi, decisamente più violenta ed espressiva quella a Torino – questi due interventi performativi evidenziano la concezione che Benassi ha della musica e della ritualità gestuale come strumenti di un agire singolo che diventa collettivo. Momenti diversi di una stessa pratica – distruttiva e costruttiva allo stesso tempo – che ci ricordano che il punk continua a non morire: seguono applausi.