Intervista di Alberto Ceresoli —
Alberto Ceresoli: Ciao Elisa, come prima cosa vorrei ringraziarti per il tempo che dedicherai a questa intervista che ti propongo con il fine di indagare alcuni aspetti della tua pratica pittorica, scultorea, installativa e pensando ai tuoi tendoni e alle tue giostre direi anche performativa. Inizierei questo scambio chiedendoti di parlarmi del tuo intervento sulla giostra di San Benedetto Belbo. Come si è sviluppato e formalizzato questo tuo progetto site-specific nell’alta Langa in provincia di Cuneo?
Elisa Schiavina: Sono stata invitata due anni fa da Francesca Disconzi e Federico Palumbo di Osservatorio Futura -che insieme alla galleria Lunetta11 erano impegnati nella realizzazione di Buona Fortuna Ribelli, festival interamente dedicato all’arte contemporanea da svolgersi nel territorio dell’Alta Langa- a proporre un intervento in uno dei paesi della zona interessata dall’evento, la provincia di Cuneo appunto. Durante il primo sopralluogo, passeggiando ed osservando quel che mi trovavo intorno, ho subito notato una giostra collocata nella piazzetta adiacente ad una scuola materna nel paese di San Benedetto Belbo: ho capito in pochi secondi che mi sarei voluta assolutamente occupare di quella, perché poteva incarnare una sorta di idea di celebrazione estetica del gioco. Stavo lavorando da qualche tempo con diversi tipi di tessuto, sia come supporto per la pittura che come materia scultorea e ho pensato che la giostra potesse diventare un carosello di bestie intente in un infinito e circolare gioco predatorio. Ho pensato che il tessuto potesse essere colore nello spazio, oltre che supporto sopra il quale dipingere queste bestie (che poi sono un topo, un gatto e un serpente).
Ho scambiato alcune telefonate con il sindaco del paese che mi ha raccontato vari aneddoti legati alla storia della giostra, ma la cosa che più mi ha colpito a suo riguardo è stato il fatto che in passato era il parroco del paese a bloccare e sbloccare quel mega Giocattolo, ovvero era lui che con un lucchetto decideva quando era il tempo del gioco e quando era il tempo dell’impegno, del dovere. Mi interessava molto questa idea di limite imposto dell’adulto, questo confine. Volevo celebrare il gioco (anche quello predatorio) e osservare come dentro il paesaggio questa danza potesse manifestarsi. Durante i mesi successivi, che hanno preceduto l’allestimento, ho lavorato a diversi bozzetti per quest’opera e piano piano è nata “Tenzone Plurale 2000”. La variazione che ha succeduto la prima versione era composta da un ombrellone che ne formava la struttura: doveva essere questa volta una giostra nomade, doveva potersi inserire in tutti i paesaggi possibili. Con un ombrellone ho creato la struttura, l’ho rivestita e mi piaceva il fatto che mi ricordasse tanto le capanne che facevamo da bambini per incominciare a ritagliarci uno spazio privato o semplicemente per costruire, ‘fare casa’, riparo. Volevo fosse abbastanza leggera e volevo che bastassero due persone (oppure anche una soltanto ma fortissima) per portarla ed installarla pressoché ovunque. Ad un certo punto ho incominciato a pensare che l’avrei voluta ancora più leggera, e dunque perché non farla aerea, da appendere? L’ultima variazione è così, e sfrutta la circonferenza come struttura alla quale vengono annodati i tessuti, per creare un cono sopra ad un cilindro ( alcune di queste circonferenze le creo io in ceramica, oppure uso hula hoop in plastica, ma voglio provare altri materiali).
AC: Riporto qui alcuni titoli delle tue opere: “Super ingrandimento dell’anima del giglio bianco, tutto intento a giocare coi gatti spaziali”, “Sezione di scarpetta fatata”, “Giostra tutto mondo”, “Giocattolo per la dentizione”, “Gatto ragno porta le uova”, “Idolo, effetto incantesimo”, “Bang bang”. Il gioco, il fantastico e l’utilizzo di un’estetica e di un linguaggio appartenente alla dimensione del bambino caratterizzano tutta la tua produzione. Com’è iniziato e com’è maturato nel tempo il tuo percorso di ricerca artistica?
ES: Tutti i titoli che citi ricalcano il doppio binario del grande e del piccolo, di ciò che è innocente e di ciò che è malizioso ed adulto, di come queste due dimensioni si mescolano e di come il linguaggio magico possa a sua volta ricalcare il potere dell’immaginazione come strumento di trasformazione. Amavo già dipingere da bambina perché mio papà mi ha trasmesso l’interesse, perché insieme a lui dipingevo e perché a casa avevamo molti libri di pittura. Disegnavo scene fantastiche e ambienti popolati da creature surreali, per esigenza espressiva e per necessità di fissare sopra un supporto quello che osservavo e quello che immaginavo, mescolando reale e onirico, come fanno molti bambini, e poi praticamente ho continuato. Mi sono laureata in psicologia perché il mio interesse per l’umano era molto forte, ma ben presto ho capito che questo interesse era più filosofico che clinico e andava ad intrecciarsi a quello per le lettere, in particolare la poesia che è per me l’esatto corrispettivo linguistico della pittura, e per le le neuroscienze, non tanto per le strutture e tutto quanto ma più per come apparivano visivamente gli ingrandimenti di tessuto nervoso. Ho frequentato dei corsi alla pinacoteca Albertina di Torino, nel mentre vivevo in una casa-studio ad Alessandria. Usavo moltissimo a quel tempo il collage e il colore, non disegnavo figure ma i soggetti che emergevano erano sempre collegati all’individuo e alla sua trasformazione, all’organismo, all’infanzia e alla sessualità come aspetti fondanti della propria presenza nel mondo. Il colore accostato alla parola aveva sempre una valenza fondamentale: ci sono per me colori più dinamici, come quelli acidi dei device tecnologici e delle insegne luminose, e colori più fermi, cauti, quieti, come le terre (che ho ripreso ad utilizzare adesso dopo aver incamerato tante colline questa estate) e i blu fondi, i viola. Mi sono iscritta al biennio in pittura con Marco Cingolani, artista al cui lavoro mi ero già avvicinata, e la formazione con lui è stata sicuramente importantissima, come anche quella con la pittrice Silvia Argiolas, con la quale mi confronto molto e dalla quale ho molto imparato. Parallelamente in questi anni ho sempre lavorato come educatrice e insegnante con ragazzi e adulti di diverse età, e questo mi ha permesso di assimilare diversi registri di linguaggio, anche visivo, che entrano inevitabilmente all’interno del mio lavoro.
AC: Ho scoperto la tua pittura imbattendomi nei dipinti delle pistole ad acqua. Insieme al serpente e al gatto mi sembra siano gli elementi visivi più presenti nel tuo immaginario, sia in pittura che in scultura. Poi ci sono gli aquiloni, le bacchette magiche, gli happy meal, i tamagotchi, conigli e altre creature immerse in un rosa, viola, verde, giallo fluo. Possiamo parlare di un’iconografia dell’infanzia?
ES: L’infanzia nel mio lavoro è un mezzo di immediatezza formale, quello che mi è più congeniale. Uso la pittura quando mi serve, altrimenti la scultura o l’installazione. Sono per me modi diversi per parlare sempre delle stesse tematiche del reale, dell’umano e della materia e delle sue trasformazioni. Mi è capitato di usare anche il suono, insieme alla voce e alla parola, collaborando con un sound designer per realizzare una sorta di scenografia sonora in cui l’animale e l’uomo si interfacciano con impulsi e desideri. L’opera nasce sempre da un’immagine mentale, che spesso è la rielaborazione di cose che osservo e che accadono, altre volte è mescolata con la fantasia di poter vedere le cose da molto vicino, inserendo quindi nei dipinti parti organiche che immagino viste al microscopio, così come simboli di videogiochi, quadratini colorati che sono legende dei colori che ho visto. Per me è una sorta di mix del contemporaneo in cui inserire animali-archetipo, giochi per bambini, giochi per adulti, paesaggio, sesso, super ingrandimenti di tessuti organici e insetti con gli stivali. Mi piacerebbe poi che l’opera fosse aperta, che porti in tanti posti, non solo nell’infanzia ma in un ping pong di momenti evolutivi personali. Solitamente lavoro per serie di lavori con diversi ‘focus’ che sono poi le cose che voglio dire o che osservo e elaboro di più in quel momento. L’aquilone è una sorta di giostra volante; nella serie di lavori “Happy Meal con sorpresa” di pochi anni fa invece mi è venuto in mente di usare questo simbolo dell’happy meal con il suo scatolotto rosso, come fosse un pezzo di carne, una casa con al di fuori o al di dentro un predatore o una preda che giocano, e i colori qui sono come quelli della carne, dei rossi accesi, e lo scatolotto rosso è immerso in un paesaggio quasi da videogioco. I colori fluo e acidi per me sono un filtro del reale d’oggi, perché spesso vediamo insegne, schermi ecc. I colori usati per i giochi dei bambini sono accesissimi, e i colori accesissimi a contrasto tra loro o a contrasto con il paesaggio mi suscita un interesse estetico.
AC: Nel testo critico che ha accompagnato la tua recente personale a Reggio Calabria, in riferimento alla Serie Polaroid la curatrice Marta Toma scrive: In queste atmosfere umide, corpi puberali sbocciano in un effluvio di emozioni, alla avanscoperta di un autoerotismo edulcorato e palpitante. Sentimenti non ancora maturi, acerbi come un astuccio pieno di evidenziatori, si confondono nel leitmotiv di cuoricini, stelline, girandole e pistole ad acqua, che corre lungo le cornicette delle polaroid come il ricamo di una passamaneria e richiama la delicatezza della lingerie. Questi acquerelli e inchiostri su carta mantengono le stesse tonalità cromatiche che identificano la tua pittura e l’erotismo che rappresenti è vivace, giocoso, tra il serio e il faceto. Ti chiedo di parlarmi di questa serie partendo dal titolo di uno di questi fantastici acquerelli: “Quando mi sono tatuata una pistola ad acqua ancora non pensavo alla guerra, ancora non pensavo a te”.
ES: Questa serie nasce dall’idea di ritrarre corpi come fossero mie fotografie intime o fotografie intime di una qualsiasi coppia, stampate e sbiadite, dai toni rosa che sono come il magenta sbiadito di una stampante, o dagli azzurri color puffo che sono invece ciano sbiaditi. Come dicevo osservo la realtà e la pistola ad acqua era nata come simbolo di trasformazione, di desiderio infantile di rendere le armi ad acqua (alcuni disegni prima si chiamano “What if all guns were waterguns?), e in questa serie li cito, come in una narrazione fittizia in cui ci si tatua una pistola ad acqua e poi scoppia una guerra, e nel mentre si era appena iniziato ad amare. La guerra è entrata in questa serie come simbolo: l’orrore esiste, registro anche quello, lo elaboro con immaginazione, provo a tradurlo.
AC: So che a Giugno 2024 hai incontrato Luigi Ontani nel suo Studio a Roma e sappiamo bene quanto il gioco e l’ironia siano importanti per l’artista bolognese. In un’intervista del 2014 di Andrea Bellini per Flash Art si racconta così: Autodidatta dilettantesca, estraniandomi/distraendomi/concentrandomi dipingevo e acquerellavo giocando solitario avanguardisticamente perennemente. Immagino che sia stata per te un’esperienza speciale. Me ne parli?
Sì, semplicemente anni fa studiando Ontani o trovandomi di fronte ad una sua opera, non avrei mai pensato che avrei avuto l’opportunità di incontrarlo. Qualche anno fa, durante una residenza a Roma, avevo realizzato un grande vaso su cui ho dipinto una grande dea Pandora, con attributi maschili e femminili, una dea da me inventata. Alla fine della residenza avrei tanto voluto donare quest’opera a Ontani, perché il suo lavoro mi ha formata; ho provato a trovare il modo per incontrarlo facendomi dire dove avesse lo studio, ma non ci sono riuscita. Il vaso oltretutto andò in frantumi a causa di una spedizione fatta con una cassa troppo rudimentale. Incontrare Ontani ed attraversare il suo studio, così denso di opere e con esse di storia, passaggi, idee, è stato un momento quasi colorato da un’aura di altrove. Tutto nello studio di questo Maestro è incredibilmente è vivido di dire, e sentirlo illustrare le sue opere, con i loro titoli che giocano con il linguaggio e la parola come fosse materia plastica, didò, è stato qualcosa che definirei ultra-magico. L’uso del colore, i materiali ibridati tra loro, la tecnica che di volta in volta assume una diversa connotazione, la camaleontica capacità di usare i più differenti supporti: sono tutte cose che porto con me da questo incontro fenomenale. Ricorderò sempre la profondità di un artista che ha parlato, quel pomeriggio, di arte vita con la semplice vividezza e vitalità del genio-uomo.
ELISA SCHIAVINA
Elisa Schiavina (Pavia, 1992) – Artista visiva sperimentale, attualmente vive e lavora a Milano. Dopo una formazione classica ad Alessandria e la laurea in Psicologia conseguita presso l’Università degli Studi di Pavia, si trasferisce a Milano dove intraprende il Biennio di Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera e si forma a fianco dell’artista Marco Cingolani. Nel suo lavoro utilizza pittura, scultura e installazione come strumento di indagine della realtà fisica ed emotiva, con un focus particolare su tutto ciò che permane di infantile nell’età adulta e di ciò che, viceversa, durante l’infanzia ha a che vedere con il mondo adulto.
Cover: “Paesaggio”, olio, acrilico, pastelli morbidi su tela di cotone, 100×70 (dittico, 50×70 cm ciascuno), 2023-24