L’anno scorso ho passato l’autunno e l’inizio dell’inverno a Nizza, in Francia. Vicino al porto di Nizza c’è una zona di scogliera ai piedi di un promontorio, un sentiero si inerpica sulla roccia costeggiando il mare per un paio di chilometri. Su un altro lato di questa scogliera, ai piedi del Mont Boron, si trovano le Grotte du Lazaret, in cui sono stati ritrovati resti umani del paleolitico: si pensa che i Neanderthal abbiano vissuto in quella grotta circa 190000 anni fa. Una delle prime immagini legate a quella scogliera sono delle forme ovoidali in gesso, ispirate dall’opera di Costantin Brâncusi, portate in spalla da dei camminanti. Qualche mese prima avevo già realizzato una scultura da caricare in spalla, si tratta di Backpack, un’opera realizzata in occasione del XXVII CSAV Artists’ Research Laboratory presso la Fondazione Ratti di Como. Quest’opera era formata da una cassetta di plastica della frutta coperta da una porzione di una vela lacerata; all’interno si trovava la foto di una pianta secca scattata di notte su una duna. Due spallacci, sottratti a un vecchio zaino da trekking, erano posti su un lato, permettendo all’oggetto di essere indossato. Il modo in cui i materiali della scultura erano assemblati ricordava il modo in cui i pescatori costruiscono le loro baracche o i loro strumenti. In quel caso l’opera era stata realizzata attraverso la memoria di un luogo per trasportare idealmente un paesaggio. Nel caso di Nizza, invece, si trattava di realizzare un lavoro per un luogo, inoltre con l’intenzione di omaggiare il lavoro di Brâncusi. La scogliera che si estendeva sul mare richiamava in orizzontale la Colonna Infinita. Le sculture in gesso da portare in spalla lungo i sentieri rocciosi sarebbero state un’ulteriore sovrascrittura di quel luogo. Una volta realizzate, la coppia di sculture era composta da un modulo romboidale e un ovoide: sono state indossate e trasportate in spalla sulle ripide salite intorno a Villa Arson a Nizza, ma alla fine non hanno mai raggiunto la scogliera.
A giugno di quest’anno ho realizzato una performance dal titolo Al suono di un flauto, ideata per uno spazio molto stretto che si chiama Megadue, a Bologna. Due performer si fanno carico di una coppia di sculture in gesso. Anche qui le forme ovoidali e romboidali citano le opere di Brâncusi, come la Colonna Infinita o Inizio del mondo. Si tratta di dispositivi in gesso, legati ai corpi dei performer con corde e stoffa, che fanno risuonare al loro interno delle registrazioni di flauti autocostruiti. Non c’è un tentativo musicale, piuttosto mi interessava dare fiato alle canne. Un flauto di metallo suona all’interno del romboide, mentre all’interno dell’ovoide suonano due flauti di bambù. Il vuoto della scultura fa risuonare i flauti e crea un ponte tra l’interno e l’esterno dello spazio, generando dei riverberi nei portici adiacenti alla strada. La tecnologia del flauto ha a che fare con il respiro e con lo spostamento di piccole masse d’aria. Inoltre, il flauto è uno dei primi strumenti musicali mai esistiti, uno dei flauti più antichi mai ritrovati è stato realizzato con un osso di un uccello. Entrambi, l’ovoide e il flauto, sono portatori di un immaginario legato alla figura dell’uccello.
La performance di Al suono di un flauto è stata attiva per tre giorni, ogni pomeriggio si alternava una coppia di performer. Si trattava di colleghi artisti a cui avevo chiesto di prendersi cura dell’opera e di farsi carico del peso delle sculture. Uno degli aspetti centrali era la presenza del loro corpo: i performer hanno occupato il suolo e le pareti, senza uscire dallo spazio e consumando un’energia in potenziale all’interno del piccolo e stretto spazio espositivo. I loro movimenti erano brevi e lenti, da un angolo al centro della stanza sfiorando le superfici, fino a stendersi al suolo come a riposo per la notte. La coppia di manutentori di sculture ha collaborato nel compito: si aiutavano per indossare le sculture, si sostenevano a vicenda per appoggiarsi a terra o per alzarsi. Qualcuno tra gli spettatori è entrato dentro per ascoltare da vicino quei suoni uscire dal modulo di colonna e dall’ovoide, instaurando una sorta di relazione intima con i performer; talvolta qualcuno si è trovato messo all’angolo o contro una parete. Altri seguivano l’azione da fuori, nel portico, davanti all’unica apertura-ingresso, finestra verticale che consentiva la visione.
A settembre di quest’anno ho realizzato il secondo capitolo di questo lavoro, intitolato Montagna su barca. Il titolo di questo secondo momento è stato suggerito dal testo scritto da Massimo Bartolini in occasione della performance. Ho realizzato questa seconda parte del lavoro in Abruzzo, nelle acque dell’Adriatico: desideravo far trasportare una colonna brâncusiana dal mare. La scultura era posta su una base galleggiante, una sorta di zattera di legno e polistirolo, lasciata in acqua per la durata di una giornata. Non era la prima performance di una scultura in mare: l’anno scorso c’era stato l’evento di Struttura Fluttuante, un’opera realizzata con delle sagome di vecchie vele. Anche in questo caso, per la messa in atto, la scultura aveva bisogno di una partecipazione notevole di braccia e di portatori di carichi. Si trattava nuovamente di una citazione della Colonna Infinita, divisa in quattro moduli di gesso. Quasi tre metri e mezzo di colonna poggiavano su una struttura di legno. Per galleggiare senza ribaltarsi c’era una zavorra sommersa, una sorta di deriva perpendicolare alla colonna. Il tutto doveva essere messo in acqua da riva. E’ stato scelto un punto in cui il fondale, a distanza di un paio di metri dal bagnasciuga, è subito profondo. Questo ha consentito di poter mettere in piedi la scultura evitando che la parte sommersa si spezzasse urtando il fondale. La mattina della messa in acqua, circa dieci persone alzavano la scultura. Quando la colonna ha iniziato a galleggiare autonomamente è stata attaccata con una cima a una barca e portata a largo. L’imbarcazione doveva andare molto piano per evitare di far ribaltare la struttura. L’oggetto è stato poi lasciato in balia della corrente. Il vento della valle la spingeva a largo e l’onda lunga la faceva ondeggiare sulla superficie dell’acqua. Dietro Montagna su barca si intravedeva il Gran Sasso velato dalla foschia. Il sole caldo illuminava la colonna, facendo riflettere il gesso come sagoma bianca e sottile emergere dallo scuro e cupo mare.
Cover: Gianlorenzo Nardi – Particolare, Al suono di un flauto – Megadue, Bologna 2024
Gianlorenzo Nardi ha fatto parte della residenza Nuovo Forno del Pane Outdoor Edition 2024 promossa dal MAMbo, Bologna
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.