Testo di Chiara Bucolo —
Una delle caratteristiche dell’essere umano è quella di abitare uno spazio. Un luogo, che sia urbano o naturale, è sempre antropizzato: tramite le ‘tracce’ che vi lasciamo diamo un senso allo spazio e viceversa. Come afferma l’antropologo Edward T.Hall in “Il Linguaggio Silenzioso”, lo spazio è un linguaggio; il modo di usarlo trasmette informazioni su di noi, su cosa siamo, veicolando tipi di relazioni sociali, lì dove la comunicazione verbale da sola non è sufficiente.
Il rapporto tra gli spazi e tra l’uomo ed essi è una delle questioni cruciali per capire l’opera di Jàchym Fleyg (Villingen – Schwenningen, 1970), artista di base a Berlino e attualmente in mostra – dal 27 Settembre al 26 Ottobre – presso la Rizzuto Gallery di Palermo, con la sua personale Rearrangment. Le sculture di Fleyg occupano l’ambiente come corpi parassiti o nidi d’api, mettendone in discussione la convenzionalità e “ri-arrangiandone” il senso, quasi acquisendo la forma di rocce sedimentarie. Non siamo però di fronte a una semplice interpretazione del rapporto tra l’uomo e la natura, quasi sempre, nella visione comune, volta a manifestarne l’armonia: i riferimenti interpretabili come naturali presenti nel suo lavoro rimandano a una natura ben poco rassicurante e sottilmente temibile, che non riusciamo completamente a comprendere.
A riprova di ciò è peculiare la disposizione delle sculture: Fleyg contestualizza le opere nello spazio in maniera analitica, matematica, evidenziandone la natura duplice – nonostante si inseriscano perfettamente nell’ambiente che le ospita, sembrano fuoriuscire dal suolo come delle escrescenze, ricreando così un proprio territorio: “nel mio lavoro, l’arte mostra il suo lato possessivo e sinistro”. Nella sicurezza di detenere l’egemonia su ciò che la circonda, l’umanità ha spesso visto l’arte come un qualcosa creato da essa e che esclusivamente lei possiede, come qualcosa di rassicurante e facente parte della sfera del “bello”, grazie al quale ottenere un qualche tipo di validazione di superiorità.
I materiali di uso quotidiano alterati e falsati impiegati da Fleyg contestano tale visione ordinaria, costringendo lo spettatore quasi a provare un’inquietudine apparentemente inspiegabile, e a porsi un nuovo interrogativo: se non fosse l’uomo a ‘dare spazio’ all’arte, ma se fosse quest’ultima a prenderselo? Non arte intesa come spirito creativo, ma, in uno spostamento della prospettiva, arte intesa quasi come creatura detentrice di proprie leggi, a noi inintelligibili e misteriose.
Nonostante le installazioni possano sembrare innocue al primo sguardo, la sensazione è quella di trovarsi in un ambiente trasformato, invaso e quasi “infettato” da presenze estranee – “Con le loro mostruose escrescenze, le mie installazioni scultoree suggeriscono danni strutturali o l’idea che lo spazio sia invaso da esseri alieni”, afferma l’artista: create con materiali edili come poliuretano e plexiglass, le sculture si ergono verso il cielo con le loro forme biomorfiche, come tubi o tronchi d’albero, su cui sembra che delle spore abbiano attecchito trasformando la materia, deformandola. L’uso prevalente di varie tonalità di grigio le rende quasi “nude”, come la vegetazione primitiva di un pianeta appena nato o i resti di una foresta andata a fuoco.
L’ambivalenza tra comune/sconosciuto, pesantezza/leggerezza, armonico/disarmonico è manifestata dalla fisicità “morbida” acquisita dalle sculture, nonostante la durezza dei materiali; si è tentati dal toccarle, dall’instaurare un contatto con esse: Fleyg pone al centro la fisicità del processo creativo e la corporeità che caratterizza il nostro rapporto coi luoghi e col mondo – non a caso spesso distrugge le sue opere dopo averle esposte, rendendo letterale la loro temporaneità e mettendo in luce la crucialità degli effetti delle condizioni esterne sugli esseri viventi e non.
C’è da chiedersi: abbiamo davvero il controllo dei nostri spazi antropici, addomesticati, plasmati per soddisfare le nostre esigenze? Come osservatori e esseri umani, possiamo tentare di rispondere all’interrogativo, o accettare di fare parte di quest’ambiguità che è anche nostra.
La mostra è affiancata da 3 Rooms, una collettiva di tre artisti – Daniele Franzella, Mattia Barbieri e Luigi Presicce: tre stanze dedicate a tre visioni differenti della pittura come linguaggio e come strumento di decodifica, visitabile presso la Rizzuto Gallery dal 27 Settembre al 9 Novembre 2024.