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Wynnie Mynerva, Presagio | Fondazione Memmo, Roma | Intervista con il curatore Alessio Antoniolli

"La mostra parte dalla scoperta, da parte dell'artista, di avere una malattia cronica e si sviluppa attraverso tre stadi consecutivi, come in un racconto: la paura e l’angoscia iniziali, seguiti dall’elaborazione di una consapevolezza che permette di trovare uno stato di convivenza con la malattia"
Tesoros, 2024 270 x 150 x 124 cm vetro soffiato, legno e pittura acrilica Courtesy l’artista e Fondazione Memmo Ph. Daniele Molajoli

E’ in corso fino al 3 novembre alla Fondazione Memmo la mostra personale di Wynnie Mynerva (Lima, Perù, 1992), a cura di Alessio Antoniolli. La mostra, dal titolo Presagio, raccoglie un nucleo di opere realizzate a Roma nell’ambito della residenza che ha preceduto la mostra. Dal confronto con la città e la sua storia stratificata, Mynerva ha ideato una nuova cosmologia, un universo in cui attraverso la pittura prendono vita sistemi di pensiero capaci di individuare traiettorie multiple.

Gaia Grassi ha posto alcune domande al curatore  Alessio Antoniolli

Gaia Grassi: Presagio nasce dopo un periodo di residenza di Wynnie Mynerva a Roma. Come ha influito questa esperienza sulla sua pratica artistica? Con quali elementi della città e della sua storia si è confrontata? 

Alessio Antoniolli: La residenza è stata, sia per noi della Fondazione che per l’artista, un’opportunità di pensare a come gestire e presentare i concetti, le emozioni ma anche gli aspetti pratici di una mostra che per Wynnie si è dimostrata fin da subito molto intima e personale, dando a noi il privilegio di contribuire nel suo processo di elaborazione. Dovendo non solo facilitare la produzione, ma anche prenderci cura – utilizzo non a caso questa locuzione – dell’artista durante la residenza, tutto il progetto è stato il frutto di un lavoro intenso ed estremamente gratificante. Come curatori, sia io che la mia collega Angelica Gatto, ci siamo immersi nel mondo di Wynnie, inserendoci nel suo percorso e apportando idee e riferimenti, nonché usando Roma come filo per tessere un dialogo che arricchisce il lavoro e lo collega alla città e al suo straordinario patrimonio storico e artistico, così come al peso della sua eredità dogmatica e della decadenza di questa stessa eredità.  

GG: La mostra intreccia esperienze individuali e riflessioni universali, dando vita a una nuova cosmologia. Come si riflette questa visione nel percorso espositivo e nelle opere presentate? Quali simboli e metafore emergono per rappresentare questa realtà?

AA: La mostra, come racconta Wynnie, parte dalla scoperta di avere una malattia cronica e si sviluppa attraverso tre stadi consecutivi, come in un racconto: la paura e l’angoscia iniziali, seguiti dall’elaborazione di una consapevolezza che permette di trovare uno stato di convivenza con la malattia, e, infine, un momento di bellezza e armonia scaturite dalla visione di corpi che mutano e si estendono con il resto dell’universo. Wynnie spiega che questa è una fiction, una sua versione della realtà; ci chiede se ciò che per noi è un dato di fatto non sia, allo stesso tempo, una finzione, una maniera di raccontarci come vivere e relazionarci con il mondo che ci circonda e penetra.
Wynnie rigetta una visione binaria della malattia, che idealizza il corpo sano e rimpiange, addirittura castiga, il corpo malato. Rifiutando la farmacologica come unica soluzione per la malattia, l’artista crea una nuova narrativa che non stigmatizzi il malato ma lo aiuti a trovare un modo di esistere più positivo, scegliendo una presa di coscienza del corpo come un’entità porosa, che vive assieme ad altri elementi. Per questo si ispira, tra gli altri, al testo di Susan Sontag, La Malattia Come Metafora, in cui la studiosa lamenta la visione della malattia come qualcosa da sconfiggere, che vittimizza il malato e ne mortifica l’esistenza. Questo passaggio è evidenziato, nella prima sala, con dei carboncini che rappresentano il corpo in lotta con un’entità sconosciuta, dall’artista chiamata “Fantasma”. Questa lotta si trasforma presto in un abbraccio, con la consapevolezza che la malattia (lo spettro di essa) è una cosa con cui convivere ed evolvere.  

GG: La distinzione tra malato e sano è superata nelle opere di Mynerva attraverso la creazione di anatomie fluide, colorate e dinamiche. Quali sfide e opportunità ha presentato questo approccio durante il processo di curatela? 

AA: Nelle pitture della seconda sala Wynnie presenta un corpo smembrato dove gli organi, gli arti, ma anche entità come batteri e virus, si susseguono in una coreografia esoterica. Ispirata alla Melothesia, un’antica scienza che associava parti del corpo a determinati astri, e da questa corrispondenza cercava una cura, Wynnie crea una mappa astrale dove il corpo è riportato al cosmo ed esiste in armonia con esso. Non a caso ha intitolato i quattro dipinti con nomi di costellazioni e galassie (Cassiopea, Berenice, Andromeda e Hydra), proprio per evidenziare l’idea di un ecosistema dove il corpo umano non funge da barriera ad enti esterni, ma esiste in simbiosi, contiene l’universo ed è contenuto da esso. Questo è ulteriormente discusso nella sala finale, dove un universo di strutture organiche e amorfe, fatte di vetro soffiato colorato, ribadiscono idee di armonia attraverso la convivenza.
La residenza è stata cruciale nella realizzazione dei lavori, soprattutto perché durante questo periodo Wynnie ha maturato la decisione di includere carboncini e sculture in vetro soffiato nella mostra, materiali e tecniche che non aveva mai impiegato prima. Ci sono stati momenti di tensione, soprattutto rispetto alle tempistiche, dato che i vetri sono stati prodotti a Murano a velocità sovrumane; ma la chiarezza e visione di Wynnie erano così entusiasmanti e coinvolgenti che alla Fondazione ci siamo sentiti tutti partecipi e determinati a risolvere qualsiasi intoppo pur di produrre la mostra nella sua completezza. 

GG: La scelta di tele circolari appese al soffitto suggerisce un’inversione del punto di vista tradizionale dei dipinti, avvicinandolo ai modelli dei soffitti affrescati che “sfondano” la quinta prospettica per trasportare l’osservatore al di là dello spazio terreno. Quali sono state le considerazioni estetiche e concettuali dietro questa decisione e come essa arricchisce la narrazione della mostra?

AA: Appendere al soffitto tele di un diametro di circa tre metri e mezzo è stato particolarmente duro e delicato, ma la loro posizione è cruciale per lo sviluppo di questa mostra. Oltre alle idee convenzionali del divino e dell’ultraterreno, propagate da secoli di cristianesimo, Wynnie si è ispirata ad un testo di Virginia Woolf, Sulla Malattia, in cui la celebre scrittrice racconta di come lo sguardo di una persona malata, costretta a letto, sia necessariamente proiettato verso l’alto. Questa posizione libera il malato dalla prospettiva orizzontale, piena di riferimenti giornalieri, e offre una vista più contemplativa, da dove poter osservare il mondo sentendosi più collegati e in sintonia con la natura e il tempo. Per Wynnie, è una questione di aperture mentali verso nuove narrazioni. Guardare verso l’alto significa ammettere che gli strumenti in nostro possesso non funzionano più, sono troppo stretti, e che dunque siamo al punto di dover ricercare nuove risposte.

Dalla serie El Fantasma, 2024 180 x 120 cm (ognuno) carboncino su carta Courtesy l’artista e Fondazione Memmo Ph. Daniele Molajoli