ATP DIARY

Contro lo spirito del secolo – Theater of Dis-Operations da ArtNoble Gallery, Milano

La mostra è un dispositivo dialettico su, attorno e sotto la guerra, una macchina scenica per una "ballata sulla disapprovazione del mondo"

Testo di C. Sidonie Pellegrino

Era il 1933 quando Bertolt Brecht iniziò a comporre il Die Kriegsfibel, pubblicato in Italia nel ’72 col titolo “Abicì della guerra” (B. Brecht, Abicì della guerra, Einaudi, Torino, 1972).  I novant’anni trascorsi dalla stesura dell’abecedario hanno costantemente tradito la promessa dell’Occidente di un approccio pacifico: così il conflitto, dopo essere stato un nucleo fondativo del secolo breve, lo è diventato anche nella contemporaneità, spesso sotto mentite spoglie (E. Hobsbawn, Il secolo breve – 1914-1991, Rizzoli, Milano 1995).
Tracciando una linea continua col drammaturgo tedesco, la mostra Theater of Dis-Operations (Atto I – A disarmament) inaugurata lo scorso 27 giugno presso ArtNoble Gallery, assume una forte posizione sull’antimilitarismo. 

La mostra, curata dal collettivo Sa.turn Platform – (Piattaforma di ricerca curatoriale […] che propone mostre […] come dispositivi per affrontare urgenze contemporanee, attraverso un “Situated Art Turn” – tratto dal pamphlet della mostra), costituito da Arnold Braho, Giordano Cruciani e Stefano De Gregori – è infatti un discorso “su, attorno e sotto la guerra”, come dichiarato da uno dei curatori. L’invito al disarmo passa attraverso lo sguardo dei dodici artisti e collettivi messi in relazione: quel che risulta è un racconto a più voci, un atlante di punti di vista sulla violenza. 
L’urgenza che trapela dalle trame dell’esposizione è quella di rispondere a un quesito: come sabotare l’idea stessa di guerra? E ancora, è possibile mettere in crisi la struttura di un dispositivo violento attraverso l’arte? 

Raccogliendo l’eredità brechtiana, è centrale il discorso sulla simbolizzazione: in mostra emerge la dimensione di boicottaggio del linguaggio bellico. L’arma – così come la divisa, lo Stato o la propaganda – altro non è che un simbolo: per sabotare l’idea assoluta di guerra, bisogna colpire prima i codici che la compongono. Essendo quindi la mostra profondamente semiotica, un elemento ricorrente è la quinta scenica. Oltre a dividere lo spazio, quest’ultima sta ad indicare la riduzione del palcoscenico al proprio grado zero: attraverso quest’intervento curatoriale, comprendiamo l’intento di disfunzionalizzazione del teatro di guerra contemporaneo attraverso gli elementi propri del linguaggio teatrale agit-prop.

La mostra, il cui titolo fa riferimento all’esposizione “Theater of Operations” (Mostra del MoMA, Theater of Operations – The Gulf Wars 1991-2011 a cura di P. Eleey e R. Katrib, 2019-20), si apre proprio col détournement della massima simbolizzazione dello Stato: Francesco Vullo ci presenta una bandiera composta da scarti di seghe circolari. Attraverso la deterritorializzazione di questa bandiera, l’artista ci offre dunque una dimensione operaia, lasciandoci immaginare che possa esistere un popolo il cui minimo comune denominatore sia la classe. Questa dimensione incontra l’archivio del sabotaggio del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali) di Genova proposto da Agnese Barbarani, la quale presenta un alfabeto degli strumenti utilizzati dagli operai per bloccare la partenza dei carichi d’armi verso il Medio Oriente. 

Zazzaro Otto, Theater of Dis-operations, presented by Sa.Turn and ArtNoble Gallery, Installation view8. Courtesy of ArtNoble Gallery. Ph. Michela Pedranti
Theater of Dis-operations, presented by Sa.Turn and ArtNoble Gallery, Installation view12. Courtesy of ArtNoble Gallery. Ph. Michela Pedranti

Parlando di antimilitarismo, emergono, per antitesi, i lavori di tre artisti in mostra: Delio Jasse, Stefano Serretta e Thiago Dezan. Il primo ci mostra, attraverso la stampa di un francobollo dell’indipendenza angolana, come l’iconografia delle armi possa essere usata a fini rivoluzionari. Serretta, invece, attraverso il disegno, ripropone immagini d’archivio di azioni di guerriglia e protesta avvenute in Italia negli anni ’70; mentre Dezan presenta le fotografie della componente femminista del movimento Zapatista in lotta contro i cartelli del narcotraffico messicano. I tre artisti, mostrandoci i fini rivoluzionari della lotta armata, sembrano infatti porre una domanda cruciale nell’interruzione del discorso bellico: quando si inneggia alla nonviolenza bisogna chiedersi di chi è il disarmo e a favore di cosa? 

In mostra spicca un filone di tecniche di sabotaggio attraverso il reenactement della propaganda: è il caso dei due collettivi esposti, Critical Art Ensemble ed Infinite. Il C.A.E. in “Marching Plague” mette in scena il coinvolgimento statunitense nell’utilizzo di armi chimiche e del bioterrorismo, mentre Infinite attua un’anti-propaganda delle pubblicità delle industrie belliche.

La desacralizzazione dei codici della violenza, invece, continua nel lavoro di altri quattro artisti: Zazzaro Otto porta il gusto dadaista che lo caratterizza nella figura di un bambino che gioca a fare la lotta, affermando che “per fare un tavolo ci vuole la guerra” (Zazzaro Otto, Per fare un tavolo ci vuole la guerra, 2024, mixed media). A offrire al nostro sguardo la performatività intrinseca della semiotica bellica è Gaia De Megni: le sue divise “mute” e le armi disfunzionalizzate ci permettono di riconoscerne e metterne in discussione il culto. Avvicinandosi al discorso di De Megni, Paolo Ciregia evidenzia come il linguaggio della guerra sia fatto di gesti attraverso le fotografie degli esercizi ginnici che precedono l’utilizzo di un’arma da fuoco. Di particolare interesse è come gli ultimi due artisti qui elencati affianchino ad un approccio più simbolico una restituzione della complessità del contemporaneo. Rispettivamente cogliamo un riferimento al genocidio palestinese grazie alla presenza dei rami d’ulivo nelle opere della prima e l’utilizzo di uno scudo originariamente dell’esercito russo e di cui si sono appropriati militari ucraini da parte del secondo. Il capitolo sulla performatività della lotta è completato da Arijit Bhattacharyya: l’artista attua una chiamata all’azione attraverso la proposizione di un costume utilizzato nelle proteste delle comunità Bangla marginalizzate in India.

Infine, uno dei risultati possibili del conflitto è la condizione dell’esilio forzato: è il caso di Shadi Harouni, la quale offre la propria condizione di dislocamento dal Kurdistan Iraniano. A concludere il percorso espositivo troviamo “Last Day of the Bombardments”, la fotografia scattata il giorno della fuga dell’artista dal paese d’origine, a ricordarci che i conflitti, ancor prima di essere semiotica e decodificazione, si consumano sui civili.

Theater of Dis-Operations (Atto I – A disarmament) vedrà la propria prosecuzione in altri due atti, rispettivamente attraverso un formato editoriale e uno screening: la mostra, dunque, è un dispositivo dialettico su, attorno e sotto la guerra, una macchina scenica per una ballata sulla disapprovazione del mondo (Semicit. Ballata sull’approvazione del mondo di B. Brecht, Poesie politiche, Einaudi, Torino, 2015.

Foto copertina: Agnese Barbarani, Theater of Dis-operations, presented by Sa.Turn and ArtNoble Gallery, Installation view. Courtesy of ArtNoble Gallery. Ph. Michela Pedranti
Paolo Ciregia, Theater of Dis-operations, presented by Sa.Turn and ArtNoble Gallery, Installation view17. Courtesy of ArtNoble Gallery. Ph. Michela Pedranti
Gaia De Megni,Theater of Dis-operations, presented by Sa.Turn and ArtNoble Gallery, Installation view17. Courtesy of ArtNoble Gallery. Ph. Michela Pedranti
Thiago Dezan,Theater of Dis-operations, presented by Sa.Turn and ArtNoble Gallery, Installation view17. Courtesy of ArtNoble Gallery. Ph. Michela Pedranti