Sperimentare con il linguaggio come fosse un materiale o, viceversa, sperimentare con la materiale come se avesse una grammatica condivisa e sodata. Sottoporre qualcosa a continue verifiche per valutarne la malleabilità, l’adattabilità e, in fine, la resistenza. La ricerca di Sacha Kanah (b. 1981, Milano) ruota attorno a continue incongruenze intrinseche alla materia scultore. L’artista cerca le narrazione che si sviluppano attorno alle sperimentazioni con i materiali e la relazioni che intrattengono con lo spazio.
L’imprevedibilità degli esiti, lo stupore per un risultato incontrollato, lo stesso fallimento, fa parte della sua ricerca. Kanah mette in gioco materia e spazio cercando non solo nuovi esisti formali, ma anche un nuovo modo di fruire le stesse sculture, sempre che di ‘sculture’ in senso canonico si possa parlare.
Nella mostra Sleep Starts, ospitata alla galleria Clima – fino al 7 settembre – l’artista compie un’indagine sui modi in cui la matera organica può occupare lo spazio, condensandosi in forme tanto aleatorie quanto imprevedibili. Raccontati come ‘buchi realizzati in acqua’, le opere fluttuanti nello spazio della galleria sembrano galleggiare, forse memori dell’ambiente i cui sono state concretizzate.
L’artista ci lascia all’oscuro su come, tecnicamente, le opere sono state realizzate: un esercizio di spremitura di un alga bruna, chiamata kelp, che, a contatto con l’acqua, si gonfia come una membrana e, una volta formatasi e tolta l’acqua al suo interno, resta un involucro trasparente e leggerissimo.
Queste strutture che hanno nell’effimero la loro bellezza, trattengono o sono trattenute da una serie di piccoli oggettini di gomma: un arcobaleno, delle palline, uno scoiattolo, una piccola casa. Simboli di un mondo infantile che, invischiato da quelle che sembrano delle sacche amniotiche svuotate, ci restituiscono una dimensione ancestrale, primordiale dell’essere umano.
Attraversare queste forme trasparenti e senza corpo, trattenute da sottilissimi fili invisibili, da la sensazione di essere dentro ad una vasca d’acqua, che al nostro passaggio sembra riconfigurarsi con sempre nuove morfologie.
Ad amplificare ulteriormente la dimensione della mostra una ricercata prospettiva: quella del libro L’invasione degli ultracorpi, romanzo del 1954 dello scrittore Jack Finney. Clonazioni, copie del corpo umano, invasione dello sconosciuto, impossibilità di amare o, amare come sentimento alienante.. Temi che, da lontano, danno sostanza a queste forme impalpabili e precarie, che sembrano – da questa visione ultraterrena – i resti di corpi svaniti nel nulla, evaporati nello spazio.
Danny: Miles, like me you are a man of science and like me you are able to appreciate the intima- te beauty of this phenomenon. Just a month ago Santa Mira was still a city like any other, full of people with a thousand problems… When the incredible thing came true: seeds that had wande- red in space for years ended up in a field nearby. These seeds yield pods that give the power to reproduce any form of animal life with absolute fidelity.
Miles: Their origin… is the sky…
Danny: Your new bodies are now growing in there: they are reproducing you cell by cell, organ by organ. You will not feel bad, while you are immersed in sleep they will absorb your mind to make you reborn in a peaceful world, without problems.
Miles: But where everyone is equal.
Danny: That’s right.
Jack Finney – The Body Snatchers, 1954