Per la sua terza personale alla galleria Renata Fabbri – in corso dal 18 gennaio al 9 marzo 2024 – Giovanni Kronenberg (Milano, 1974) presente un progetto espositivo che riunisce la sua recentep roduzione: una serie di opere scultoree inedite in dialogo con una selezione di disegni. Resistenti a una facile interpretazione, enigmatiche nella loro chiusura formale, mosse da una perpetua negazione narrativa, le sculture dell’artista si impongono per una densa fissità contenutistica. Scevre da una ‘retorica critica’ che banalizza anziché dare sostanza, le opere di Kronenberg sono il risultato della manipolazioni dei materiali o degli oggetti che le compongono, siano essi manufatti, reperti naturali o materiali allo stato grezzo.
In occasione della mostra da Renata Fabbri, abbiamo posto alcune domande all’artista.
ATP: Questa sarà la tua terza personale in galleria da Renata Fabbri, cosa hai preparato?
Giovanni Kronenberg: Inevitabilmente si prova a proporre qualcosa di diverso, a livello spaziale: sia per coloro che conoscono il mio lavoro, che per altri che, invece, lo incontrano per la prima volta. Ho fatto la stessa cosa l’anno scorso da Sara Zanin, dove provai a creare un dialogo tra le mie opere e quelle di Richard Nonas, un artista con cui ho avuto la fortuna di studiare. Dopo diverse mostre conosci lo spazio e sai quali sono le sue parti da sfruttare o da escludere. Per questa mostra tutte le sculture nuove che presento, arrivano – con tempi di circolazione diversi – dalla città di Venezia. Ho addirittura pensato di intitolare la mostra Venetikà, il nome utilizzato sotto il dominio bizantino per identificare la città lagunare. Per questa mostra le sculture avranno delle dimensioni maggiori, rispetto alla mia solita produzione. Anche alcuni disegni che saranno esposti, avranno un utilizzo di materiali che non ho mai impiegato prima.
ATP: Sei uno dei pochissimi artisti che non titola mai le sue mostre personali; le tue mostre sono sempre e solo il tuo nome. Come mai questa scelta?
GK: Come dicevo prima, ho pensato, per la prima volta, di dare un titolo a questa mostra, visto la comune provenienza degli oggetti che formeranno le sculture. Ma poi ho desistito: le mie sono opere che agiscono sul potenziale immaginifico degli oggetti, e credo che una generale dimensione apolide sia più appropriata. Per questa mostra, la comune provenienza degli oggetti è un fatto concreto, ma più casuale che voluto.
ATP: Il disegno è ormai da anni un “collante” nelle tue mostre, lega e si amalgama spazialmente con le sculture. A livello di critica però, sei sempre considerato uno scultore. Come mai secondo te?
GK: Non saprei cosa risponderti, forse perchè per la maggior parte degli artisti il disegno ha ancora una valenza di progettualità, di passaggio iniziale o intermedio per arrivare poi a altre conclusioni. Posso dirti che per me un disegno ha la stessa valenza di una scultura, non faccio differenziazioni gerarchiche: per completare un disegno posso impiegare anche diversi giorni, tra l’utilizzo delle matite colorate e l’applicazione della foglia in metallo. Spesso è più il tempo che dedico ad alcuni disegni che quello che impiego per fare una scultura.
ATP: Leggendo la tua intervista sul libro Strata (Strata arte italiana dal 2000, curato da Vincenzo De Bellis e Alessandro Rabottini, ed. Lenz) emerge questo tuo modo peculiare di lavorare, che Alessandro Rabottini associa ad una “ecologia dei significati”: la possibilità che gli oggetti con cui lavori non vengano trasformati in opere compiute, ma “rimangano nel mondo semplicemente come tali (come oggetti ndr)”. Me ne parli?
GK: Lavoro con oggetti che incontro nel mio cammino, attraverso un attitudine sentimentale e mai intellettuale; quando riesco li prendo e li lascio decantare nel mio studio, senza sottoporli a dinamiche lavorative o fretta o bramosia di lavorarli. In maniera assolutamente naturale, sono poi loro a “chiamarmi” una volta “pronti”. Ci sono oggetti che ho in studio da anni, che probabilmente non diventeranno mai opere e rimarranno, come diceva Alessandro, oggetti nel mondo. Non ho nessun controllo su questa elezione: ci sono opere che ho fatto con oggetti a cui per anni non ho dedicato nemmeno uno sguardo. Poi improvvisamente ti si impone un’immagine, una forma. A cui non sai dare provenienza, risposta. E allora provi a lavorarli. A volte il risultato mi soddisfa e allora li espongo, a volte no e rimangono ancora dormienti in studio.