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Lucerna, Milano | Conversazione tra Roberto de Pinto, Antonio Grulli ed Eleonora Mariani

In via Melzo 34 a Milano, lo spazio di Lucerna – nato dal sodalizio tra il curatore Antonio Grulli e Federico Pepe (Le Dictateur) – ha inaugurato il 29 novembre la sua terza mostra con un progetto personale del giovane artista Roberto de Pinto. Il piccolo bunker sotterraneo, intenzionato ad ospitare interventi precisi e mirati, è […]

‘Tulipani II’, 2023, Carboncino e pigmenti su carta. Crediti Tiziano Ercoli

In via Melzo 34 a Milano, lo spazio di Lucerna – nato dal sodalizio tra il curatore Antonio Grulli e Federico Pepe (Le Dictateur) – ha inaugurato il 29 novembre la sua terza mostra con un progetto personale del giovane artista Roberto de Pinto. Il piccolo bunker sotterraneo, intenzionato ad ospitare interventi precisi e mirati, è diventato dal novembre 2022 un luogo di concreto riavvicinamento all’arte, un’occasione per toccare da vicino il lavoro dell’artista e per addentrarsi nella riflessione teorico/critica del curatore che lo accompagna. 
Per quest’occasione de Pinto ha esposto 11 grandi nature morte, disegni di fiori in vaso realizzati a carboncino nero su carta preparata a mano con pigmenti di diverso colore.

Segue una conversazione tra l’artista Roberto de Pinto, il curatore Antonio Grulli ed Eleonora Mariani, amica e collega. 

Eleonora Mariani: Partiamo dal soggetto che caratterizza questo nuovo ciclo di lavori: la natura morta.  Ci sono stati tanti momenti nella storia dell’arte in cui i pittori hanno deciso di utilizzare e raffigurare frutta, oggetti e fiori, assemblandoli e organizzandoli in più o meno articolate composizioni. Il continuo sguardo degli artisti ha posto questi soggetti in una condizione privilegiata e, quasi come  sottoposti ad un processo di elevazione, sono diventati un vero e proprio genere pittorico.  Tantissime sono le mani che hanno prodotto still life e innumerevoli le immagini che le contengono. Roberto, dove senti di poterti collocare all’interno di questa grande storia? C’è qualche pittore o artista che hai particolarmente guardato?

Roberto de Pinto: Innanzitutto sono molto contento di essermi confrontato con un grande tema della pittura ed in generale dell’arte. La natura morta poi, chiama all’ordine tantissimi fantasmi, più o meno a me cari. Ho cercato di affrontare il tema nella maniera più personale possibile, evitando ogni genere di citazione. Per questo ho guardato i dipinti degli altri e li ho subito dimenticati. Dall’inizio ho fatto finta di non sapere che una natura morta andasse costruita e composta su un piano da tenere costantemente sott’occhio durante l’intera sessione di pittura: ho ignorato la luce che batteva sul soggetto e l’ombra che di conseguenza veniva proiettata; a volte ho ignorato la forma dei fiori ed in toto il loro colore, usando il nero del carboncino e affidando l’unica parvenza cromatica alle carte colorate. L’unica cosa di cui mi è importato veramente è stata creare un ritmo, accostando moduli di carta di colori simili ma diversi, creando ritmi differenti nel singolo disegno ed un ritmo d’insieme in tutta la mostra. Ciò che non ho ignorato è stato il petalo e la sua variazione nello scorrere del tempo: dopo pochissimi giorni alcuni petali cadevano e per questo motivo nei disegni, realizzati in sessioni di più giorni, coesistono fiori appena sbocciati ed altri secchi o privi di corolla.  Per esempio le echinacee che ho disegnato sono interamente senza petali, mentre i tulipani si presentano freschissimi. Ho abbracciato l’idea che il fiore potesse essere secco e in decadimento non per motivazioni e simbologie legate al concetto di vanitas, ma perché ho notato come la forma del soggetto può cambiare, aprirsi fino all’estremo, fino alla morte e alla non esistenza del fiore, che diventa frutto, accentuando la bellezza di alcune parti e forme che la perfezione del petalo fresco nasconde e mette in ombra e che solo a maturazione avvenuta si manifestano. Ho trovato quindi corrispondenze con i fiori di Mafai, rigorosamente secchi e disidratati ed allo stesso tempo con le nature morte di De Pisis, realizzate con pennellate sicure e ridotte all’osso, che in me si sono tradotte in segni di carbone “incancellabile” sulla carta. Sicuramente non sono riuscito a dimenticare i fiori di Van Gogh, così iconici da essere impressi nella mia mente ancor prima di iniziare a studiare la storia dell’arte: la fluidità dei suoi iris, la vita propria che sembra avere ogni girasole, il movimento che ogni mazzo genera, è qualcosa che non ho potuto ignorare, ma che anzi ho accentuato, forse più inconsciamente che arbitrariamente. Ancora, rimango senza fiato di fronte ai fiori di Twombly, in tutta la loro libertà espressiva e gestuale, e invidio la tozza eleganza ed i colori dei fiori in vaso di Tal R. 

EM: Anche tu, Antonio, sei molto affezionato a questo genere pittorico che da anni accompagna il tuo lavoro. 

Antonio Grulli: Si, la natura morta è un genere a cui ho dedicato parecchio tempo e mi intriga molto come critico e curatore. Per certi versi la nascita della natura morta è il primo vero momento in cui in maniera manifesta si prende un elemento secondario della vita di tutti i giorni e lo si rende degno di un dipinto. Fino a quel momento i soggetti che meritavano di diventare arte erano prevalentemente religiosi, legati alla classe dominante o comunque richiedevano sempre la presenza della figura umana. In questo senso la natura morta è stata un anticipo di decontestualizzazione duchampiana e senza questo passo probabilmente non si sarebbe arrivati al ready made.  Sono fermamente convinto (per usare le parole del grande artista Concetto Pozzati) che ancora oggi per un artista non vi sia nulla di più difficile da fare che dipingere o disegnare in maniera significativa un vaso di fiori: nessun sostegno, nessuna stampella intellettuale o etica. Un fiore è il soggetto più inutile che esista e forse proprio per questo potrebbe essere il modo in cui l’arte si manifesta in tutta la sua purezza. I fiori sono piccoli e fragili, non si possono nemmeno mangiare. Sono belli e basta, un qualcosa diventato quasi un tabù nel mondo dell’arte oggi. Inoltre, il loro essere un tipico tema da pittore della domenica non aiuta: parlare di guerre o di tematiche impegnate a volte agevola molto l’artista, perché il soggetto spesso diventa un esoscheletro che sostiene l’opera.

EM: Invece per dipingere un vaso di fiori le fonti d’ispirazione possono essere molteplici, ma anche nulle. Nel senso che l’unico vero motore d’azione può essere una sorta di fascinazione rispetto a quello che si ha davanti agli occhi, quando gli appigli intellettuali si azzerano. Sia io che Antonio abbiamo visto nascere questi disegni e anche quello che si può chiamare “l’ avvicinamento” al soggetto. Ricordo sabati mattina passati a guardare e scegliere fiori tra le bancarelle del mercato, che poi venivano portati in studio e fatti riposare in vasi  improvvisati…

RDP: Non sono mai stato indifferente ai fiori nella mia pittura, sono sempre stati un elemento che ho inserito nei miei dipinti. Posandosi sulle pelli dei miei alter-ego, gelsomini, zagare e petali si facevano simbolo di un tocco dolce e delicato, di un alito o di una carezza; non erano veri e propri protagonisti, avevano sempre un ruolo marginale o meglio complementare ad un corpo. Mi rimbomba spesso in testa un quadro di Lawrence Alma Tadema,“Le rose di Eliogabalo”, nel quale mi sono imbattuto per caso ma che ritorna come monito. Il dipinto prende spunto dagli esosi banchetti imbanditi dall’imperatore, il quale sorprendeva i suoi commensali con diluvi di petali di rosa che a volte soffocavano (almeno così si racconta) gli invitati: un’immagine estrema di delicatezza che si trasforma in violenza…Mai esagerare con i petali in un quadro! E se fino ad ora il fiore nei miei dipinti era sempre stato attaccato o caduto da un ramo, se prima cercavo i frangipani nell’orto di Palermo e le zagare sui limoni e sugli aranci della campagna pugliese dei miei genitori, adesso i fiori sono recisi.  Ho comprato il primo mazzo di fiori (degli anemoni bianchi, viola e magenta) per studiarli e inserirli all’interno di una grande tela con un viso che sputa, anzi “parla” fiori. Ma forse questa è una balla che racconto al me stesso ancora legato a certi pensieri relativi al contesto in cui sono cresciuto, una scusa per giustificare l’acquisto e il possesso di una cosa così futile e frivola come un bouquet.
Inoltre, fino ad oggi non avevo mai lavorato davanti ad un riferimento visivo o reale, poi ho disegnato quel mazzo di fiori su quattro fogli che avevo colorato di rosso l’ho dimenticato in studio. È stato proprio Antonio, durante una sua visita, a farmici soffermare e ci siamo accorti che quel bozzetto, poteva avere tutte le caratteristiche di un’opera e che poteva essere l’inizio di una serie più ampia. Da lì ho cominciato a comprare altri fiori, sempre diversi, dalle bancarelle del mercato rionale vicino al mio studio: lo spazio si è riempito di colori e di odori.  Questa serie nasce quindi da un gesto: mettere dei fiori in un vaso, che nel mio caso era il contenitore vuoto del gesso acrilico che uso per preparare le tele. 

AG: Ho subito amato quel primo disegno e ci ho visto un grande potenziale. E’ molto importante a mio parere andare fino in fondo ad un’opera, realizzarne una serie, per certi versi esaurirla. Spesso le cose evolvono anche dentro uno stesso corpus di lavori e poi si stabilizzano. Questo momento è molto importante per gli artisti, perché mi sembra capiscano molte cose del proprio lavoro (e noi critici di conseguenza). Inoltre, in questi disegni c’è come una concentrazione su uno degli aspetti portanti del lavoro di Roberto, ovvero il suo segno, già molto forte e ora completamente maturo: morbido, caldo, avvolgente, dolce, profumato, del sud mi verrebbe da dire – come tutto il suo lavoro -, in grado di portare dentro un’intensità particolare. Anche l’intuizione di usare quattro fogli, invece di adottarne uno singolo e grande, tingerli a mano con pigmenti puri ed accostarli, è stata un’intuizione geniale, perché porta il disegno su un ulteriore livello di complessità e gli permette di dialogare con la dimensione pittorica. Sono disegni a carboncino che hanno tutta la potenza di un dipinto.

EM: Confrontandoli con la precedente produzione pittorica di Roberto, in questi ultimi lavori c’è un evidente scostamento, ma a ben vedere anche una forte coerenza e continuità. È lampante l’assenza del suo volto e del suo corpo (che fino ad oggi sono stati il soggetto portante delle sue tele) eppure persiste una grande fisicità: è come se il corpo ci fosse anche se non è rappresentato. 

‘Papaveri’ , 2023, Carboncino e pigmenti su carta. Crediti Tiziano Ercoli

RDP: Formalmente e in superficie, lo scostamento è palpabile, ma in realtà questi ultimi lavori non sono altro che un modo per dire le stesse cose in un’altra lingua, quella del carboncino e della carta. E come dici tu, Eleonora, il mio corpo e il mio volto si sono eclissati, ma solo nella rappresentazione: compaiono sotto forma di allusioni formali e fisicità esecutiva. Mi piace pensare a queste opere come ad un atto fisico, un’amorevole lotta con i fogli di carta e il carboncino. Sono  stati infatti realizzati a terra, sul pavimento, a cavalcioni del supporto, con le mani che poggiano ovunque e si sporcano di carbone. I polpastrelli che vanno dal vaso (appositamente sporco di nero) al foglio e le ditate che diventano traccia e segno di questo aggrapparsi alla carta, dei miei 75 chili che pesano sulle punte delle dita e quest’ultime sul foglio. È stato un atto fisico anche la preparazione del supporto, avvenuta sfregando a mano pigmenti in polvere su ogni foglio. Come dicevamo prima, sparisce il corpo nella sua rappresentazione e di conseguenza anche il tocco e la carezza tornano come atto, come gesto d’esecuzione e d’azione.

EM: Sono fiori che alludono a qualcos’altro, forse in questo sta il loro aspetto romantico. In ogni petalo e foglia spiccano le particolarità che tu (come nei corpi) hai deciso di evidenziare. Sembra che ogni stelo o corolla siano stati toccati per restituirne la sensazione e l’uso del carboncino rende questo passaggio tangibile.

RDP: A parlare di allusioni, mi viene in mente l’incipit del“Diario del ladro” di Genet, dove l’autore accosta l’immagine dei fiori a quella dei carcerati, facendo coincidere la delicatezza dei primi con la malvagità dei secondi. Nello specifico, parlando della veste dei carcerati, dice: “Oltre che con le sue tinte, con la sua ruvidezza la stoffa evoca certi fiori dai petali leggermente villosi, particolare sufficiente perché all’idea di forza e di vergogna io associ quanto vi è di più particolarmente prezioso e fragile”. E così, in questa serie, il fiore allude spesso ad una parte del corpo, rimanda ad arti pelosi, barbe ispide, mani, testicoli… tutti elementi di un corpo che di delicato non hanno nulla.

EM: L’altra costante che noto è la presenza di una dimensione erotica. 

RDP: Un fiore che si trasfigura in carne. Penso soprattutto a Mapplethorpe, che con la fotografia, in maniera elegante e patinata, è riuscito a trasformare dei fiori in atti e parti sessuali. Da questo punto di vista mi sento molto vicino al suo lavoro, soltanto i miei fiori, rispetto alla pelle oleata e lucida, quasi pornografica, preferiscono diventare peli e ruvida epidermide, più naturale ma a loro modo sempre erotici e sensibili. 

AG: E’ vero. La tensione erotica che attraversa i dipinti di Roberto rimane intatta in questi disegni, pur mancando la figura umana. E’ una tensione calma e voluttuosa, intrisa di quella pace che segue la petit mort, in cui il piacere è ancora presente, in parte realmente e in parte come memoria nostalgica. Il segno grasso e spesso del carboncino lo rende bene, aiutato da tutto lo sfregamento di sottofondo, quel toccare onnipresente di polpastrelli, che diventa pattern e base fondamentale dell’opera.

EM: Antonio, lo spazio di Lucerna, benchè parecchio connotato, si sta rivelando molto versatile. In questo caso mi sembra perfettamente calzante, perché rimanda ad una dimensione quasi domestica che permette ancora di più di entrare nei disegni. Il pavimento e le pareti in legno mi fanno pensare ad un caldo parquet dove un bambino gioca carponi e con le mani sporche si rotola…

AG: La mostra di Roberto è la terza che con Federico ospitiamo a Lucerna. Tre mostre diversissime: la prima di Flavio Favelli era un’installazione minimale e a prima vista monocroma, che si sviluppava bidimensionalmente sulle pareti di legno; Giulia Cenci ha invece installato in fila una serie di grandi sculture che uscivano da una parete arrivando quasi al centro della stanza; mentre con Roberto abbiamo realizzato una classica mostra di disegni, tutti allestiti sobriamente – un po’ all’americana – con le cornici tutte uguali. Lo spazio ha retto bene con tutti e tre gli artisti, i quali lo hanno amato. Con Roberto l’ambiente è diventato più caldo, quasi fosse un cabinet di disegni e le pareti ricoperte con legno industriale, a cui si aggiunge la cattiveria del soffitto e della volumetria, danno alle opere un sapore più fresco.

EM: Un aggettivo che si sposa bene con questi disegni. Freschi, nonostante il soggetto, possiamo ormai dire, sia classico. Queste 11 nature morte si scostano definitivamente dall’essere una mera copia dal vero e al contempo non pretendono nessuna lettura concettuale o intellettuale. Credo che una delle loro componenti fondamentali sia quella emotiva: c’è una sensazione che fa da fil rouge in tutti i disegni e che probabilmente anche Roberto, guardando e tenendo in mano questi fiori, ha provato ed è poi riuscito a trasportare sulla carta. Una meraviglia: fresca, intensa, a tratti impacciata, come uno stupore che chiede partecipazione. La stessa meraviglia che ho provato davanti ad un sole che sorge, all’accennarsi di un sorriso, ad una creatura che cresce tra le mani.