Durante il festival del cinema di Locarno del 1989 un giornalista svizzero incalzava Kaurismaki con domande riguardanti il suo rinomato cinismo. Gli veniva chiesto come mai fosse così avvezzo a trattenere e a non mostrare mai i suoi sentimenti. Il regista finlandese, dopo aver inghiottito l’ennesima corposa boccata di fumo, rispose con un laconico “ask my dog”.
Kaurismaki è sicuramente un regista singolare e austero, come le sue opere, ma non si sottrae mai alle interviste e non sfugge alle domande provocatorie di giornalisti ansiosi di ricevere l’ennesima risposta tagliente; assomiglia molto ai personaggi dei suoi film la cui recitazione è caratterizzata da un apparente distacco e la gestualità è ridotta al limite.
Quando mi approcciai per la prima volta ai suoi lungometraggi ero poco più che ventenne, frequentavo i primi anni di accademia e rimasi folgorato da quello strambo e apatico modo di raccontare una storia. Tutto, all’interno dei suoi film, era contenuto ai limiti dell’essenziale e l’atmosfera che ne scaturiva mi rivelò un nuovo linguaggio: per me quella modalità narrativa era una novità e al tempo la sentivo molto vicina alla mia sensibilità.
Quel distacco mi sembrava potesse rappresentare un’opportunità e, nonostante tutto, creava un legame oggettivo con lo spettatore riportandolo costantemente su un piano di realtà; tutto ciò che poteva rappresentare un coinvolgimento emotivo veniva escluso, ma è proprio la surreale e siderale fissità della messinscena che creava delle suggestioni atipiche.
Mi viene in mente una scena del film Funny game in cui uno dei personaggi, grazie ad un banale telecomando, riavvolge il nastro della pellicola del film modificando a suo piacimento il percorso naturale degli eventi, lasciando incredulo lo spettatore che fino a quel momento si era trovato di fronte ad una storia bizzarra ma quantomeno realistica.
Quella scena cerca simbolicamente di trovare un accordo con lo spettatore, ricordandogli che tutte le emozioni che sta provando sono rivolte a qualcosa che in realtà non esiste.
Questa consapevolezza condivisa tra autore e spettatore si presentava in quel periodo come uno spunto interessante su cui riflettere, poteva fornire delle basi su cui iniziare a lavorare.
Ricordo come la pittura al tempo flirtava con la fotografia, in particolare la fotografia d’archivio: le opere di autori come Luc Tuymans rendevano l’opera e l’immagine di provenienza legate ad uno stesso filo. In quel caso la pittura riusciva ad evocare una realtà sotterranea, nascosta da un’immagine innocua perché amatoriale; lo stesso Tuymans parlò spesso del suo lavoro come “una falsificazione autentica” della realtà.
Quel tipo di processo, insieme all’utilizzo di immagini preesistenti, permetteva anche a me, e al processo creativo che stavo adottando, di trovarmi in una zona di comfort che leggevo come una solida base concettuale sulla quale poter costruire delle certezze. Lavorare e ragionare con immagini create da altri mi dava la possibilità di espormi il meno possibile; tutto il mio bagaglio biografico e ‘segnico’, che involontariamente parlavano di me, rimanevano esclusi: tutto ciò che evocava l’autore assumeva una valenza negativa.
Già da qualche anno non penso e non lavoro più in questo modo, non sento più la necessità di dichiarare un legame simbolico con il mezzo fotografico e mi sono allontanato da quel metodo di codifica e decodifica che instaura un accordo tra autore e spettatore.
In un certo senso, sento di poter dire di aver deciso di assumermi i rischi che comporta l’esporsi in prima persona e con il tempo ho capito come essere più indulgente nei miei confronti, ho cercato di ristabilire un contatto con quella parte di me che avevo coscientemente esiliato.
Durante i suoi ultimi anni Philip Guston viveva una sorta di serenità creativa che lo portava ad essere un autore prolifico; ai suoi studenti spiegava come fosse riuscito a ‘collocare’ sé stesso, aveva la sensazione, diceva, di sentirsi come un “complice fidato”. Dopo aver letto la biografia di Guston, scritta da sua figlia, mi è sembrato di capire cosa intendesse quando parlava di questo tipo di “complicità”.
Complicità e fiducia in effetti sono stati i primi strumenti con cui mi sono confrontato per attenuare un conflitto composto da paure ed insicurezze.
Da quella tregua poi sono emerse, come fantasmi del passato, figure spigolose e sproporzionate, con teste piccole e arti lunghi; si sono affacciati personaggi che non avevano vergogna di palesarsi in tutta la loro fragilità o di mostrare la loro natura.
Le sembianze di queste figure, troppo stilizzate, mi sono sempre sembrate più appropriate ad un contesto illustrativo che pittorico, la qualità segnica che le definiva mi portava ad abbandonare quel tratto per forzarlo verso una direzione lontana dalla spontaneità.
Oggi, per fortuna, la questione dell’appartenenza stilistica mi sembra una problematica superata e trascurabile.
Rispolverare tutto questo repertorio iconografico è stato un modo per riappropriarmi di una simbologia familiare carica di significati: queste figure hanno vissuto per anni i confini dei fogli di carta da fotocopie e non hanno mai avuto la pretesa di essere più di un bozzetto. In un certo senso dare credito a questi personaggi sghembi e grotteschi ha significato riallacciare i rapporti con una parte di me seppellita e dimenticata.
Non c’è una volontà specifica per cui nasce un determinato soggetto, come non esiste la volontà di razionalizzare meccanismi di rappresentazione. Credo sia più efficace l’esercizio dell’interpretazione che riporta l’immagine alla sua primordiale potenza.
Allo stesso modo la figura del vagabondo compare senza troppa predeterminazione: personaggio nomade senza patria o appartenenza, un eterno viandante estraneo alla sua stessa terra.
Per sua natura incline a una condizione sfuggente e indefinita, riconducibile a un’epoca che sembra voler appartenere esclusivamente a un passato dimenticato.
Cosi come fa anche Kaurismaki quando sceglie l’espediente narrativo dell’amnesia per scollegare un suo personaggio da ogni vincolo col passato: trovandosi in un limbo senza memoria è costretto a ricostruire ciò che è partendo dall’esperienza del presente.
Una contemplazione rivolta all’ignoto può essere propedeutica anche allo stesso atto creativo, come il viaggio che il viandante percorre per allontanarsi da ciò che conosce.
Ha collaborato Simona Squadrito*
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.
Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi