È L’ idiota.
È mattina presto, i colombacci tubano in un giardino sontuoso e rimesso a fresco dopo la tosatura settimanale del sabato. È domenica e sono comodo e disconnesso col mondo seduto su una sedia gialla sulla terrazza della galleria dove tra un paio di settimane esporrò un lavoro complesso dal titolo Viral Impurity – Fake Inner. Dormono tutti qui. Fumo un sigaro dopo aver sorbito un caffè cattivissimo. Devo pescare nella rete dello spazio, mentale e fisico, un’opera. Non è semplice la scelta perché l’occhio vede l’intero, un cosmo, sarebbe come dire a James Joyce di scegliere un capitolo dell’Ulisse. Impossibile forse anche se tutti amiamo Molly Bloom. C’è ancora molto lavoro da fare. Stamattina prenderà forma Fucking Viral, l’impiccato, già sognato nel 2017 nello studio di Luigi, un disegno che lasciai come benvenuto nel suo nuovo spazio di rientro da una residenza newyorchese. Entrando nel suo studio, vuoto allora, dove stavo per dipingere i miei remix, riuscivo a vedere un impiccato, o me stesso impiccato in una trave di quello spazio che abitavo come la Tana. Leggevo La cantina dell’amato Thomas Bernhard, l’esito era inevitabile: un suicidio per impiccagione, un inno alla vita. L’impiccato d’oggi mi somiglia assai, è alto 7 metri, è grottesco e a suo modo fa ridere. Non fa ridere invece l’opera che inaugura la mostra, o il titolo. È alle mie spalle per il momento, all’interno e spogliato di cornice. È L’Idiota l’opera di cui probabilmente vorrò parlare. Un corpo defunto. Mio padre.
È mattina presto. Stamattina i versi che governano l’aria sono più vivaci e delicati del tubare dei colombacci. La luce attraversa le fronde degli alberi, quelli che fanno quasi da muro, e ne illumina altri. Si azionano gli irrigatori che inzuppano il prato che, come spugna, prende, assorbe, e distribuisce alla rete delle radici l’acqua, che ringraziano. Il sibilo dello sputo dell’acqua sembra la voce di un rettile. Un cardellino, lo riconosco, si aggiunge ai grumi degli strumenti naturali del risveglio del giorno, lunedì. L’idiota, di Dostoevskij, ultimo libro letto del grandissimo romanziere russo, 1993. Afferrato dall’orrore della lettura, non sostenendo quanto il Principe Myškin subisce e dalla sua idiozia che lo rende inerme alle umiliazioni subite, faccio a mille pezzi le pagine del romanzo. Non riesco a terminare la lettura. Il libro, edito da Einaudi, diventa carta straccia e occupa l’intero pavimento della casa che mi ospitava allora.
La stessa reazione mi successe anni prima con il Chisciotte. Terminato il primo volume non ebbi il coraggio per affrontare il secondo. Dieci anni dopo, più freddo, mi decisi di affrontare L’idiota, terminandolo. Il Cristo di Holbein lo vidi a Basilea nel 1991. L’ho pensato drammaticamente nel 1993. L’ho rivisto con gli occhi del Principe nel 2003. L’ho pensato, di nuovo, nel 2023 e tradotto su tela, e nelle stesse inusuali tragiche dimensioni del 1521. Ieri sera, alle 17 in punto, lo abbiamo eletto a parete, la parete d’ingresso della galleria, nel piccolo tunnel che conduce verso lo spazio che, attraversato, sboccia come un fiore. Il tunnel di 303 centimetri ci sposta da una soglia all’altra, da un esterno verso l’interno utero, entrando, e da un utero verso l’esterno, in espulsione, uscendo. Gli occhi passano e scorrono il cranio sigillato della morte del corpo e si perde, affossandosi, nell’abisso dell’inesistenza: entrando. Uscendo: l’abisso si compone nel corpo di un cadavere e si ferma nel cranio albino tornito da pennellate fredde e singolarmente contenenti velature preziose, e quasi invisibili, di polvere dorata. La pittura è un fresco, spettrale, il colore smorto. Idiotism è un capitolo che chiude un libro di Byung-Chul Han pubblicato in Italia nel 2016. Quell’anno vengo invitato a curare una mostra cui diedi titolo: Idioti. Quattro gli artisti. Altri tre rifiutarono l’invito: quel titolo pareva insostenibile per un pittore. Nell’occasione, su due tavoli, esposi una nutrita bibliografia sull’idiotismo. Libri di Sartre, Flaubert, Deleuze e molti altri erano consultabili dal pubblico. La sera dell’inaugurazione Antonio Signati, giovane idiotista, leggeva L’idiota di Dostoevskij seduto su una sedia, ed espelleva le pagine lette del noto romanzo riempiendo il pavimento dello spazio della galleria ospitante, di Giovanni Bonelli, di carta straccia. Mio padre era già morto. È morto nel 2016 in un giorno di aprile. Arrivai a Ispica il giorno dopo la sua morte. Mentre mi conducevo a casa sapendo che nella mia Tana c’era il cadavere di mio padre, mia madre a piangerlo e il mio gemello, scivolando in via Torino e osservando il cielo di un azzurro brillante solcato da voli e il chiasso delle rondini, mi dissi che era da stupidi morire in quei giorni. Finché è stato in vita il rapporto con il mio defunto padre è stato singolarmente violento. È stato un uomo a modo suo bestiale: ho raccontato molto delle sue imprese, pubblicati i racconti. Solo negli ultimi anni della sua vita ho ammorbidito il mio rapporto con quella violenza e quella violenza è diventata dolce.
Già un paio di anni prima che morisse ne decretai il lutto tanto che quelle poche volte visto in vita lo attraversavo come fosse morto, uno spettro, tanto che entrando nella Tana lo incontrai nella bara così rimpicciolito, trasparente, quasi evanescente, lo vidi già dipinto come un affresco. Era un affresco. Era sereno. Ero sereno. Aveva un’aura che lo rendeva bello come mai lo avevo visto in vita. Ho ringraziato il suo cadavere perché mi donava un punto di vista inedito tra la vita e il seppellimento di una vita: era cadavere, ultimo accesso di quanto è stato un corpo vissuto, simulacro, una svista. Io sono l’idiota,pittore.
È mezzanotte e il coro di cani comincia a diffondersi prima del previsto, ma confido nella notte profonda. Generalmente in queste notti prima del coro mi sveglia una musica, un carillon triste, quindi i cani cominciano il lamento. È un lamento malinconico che nella notte profonda mi proietta su altre notti, lontane e ormai dimenticate, perse anche per chi mi era vicino allora, bambino. Fantasticavo sul fischio del trenino notturno e su mio padre assente, che non conoscevo. Il coro adesso tace. È possibile, come spero, torni verso le ore profonde della notte, le tre o le quattro del mattino. Gianluca dice di sentirlo verso le cinque, sei. Sento il mio respiro affannoso, la sete, il sonno, i sogni che ho fatto in questo posto incantevole, nel giardino di casa Collica. Passa una moto. È ancora troppo presto perché i fantasmi siano tutti svegli.
Ore 4:34.
È come un fischietto, o piffero stonato che suona e sveglia il coro dei cani. Dura pochissimo, alcuni secondi, il tempo di suonare una melodia sbrindellata come fosse una sveglia, un allarme e si scatena una caciara canina lamentosa, spaventosa. Nel sogno una fiumara di gente attraversa una via che era schermo luminosissimo. Ero assieme ad alcuni bambini finché dinanzi alcuni attori hanno iniziato a cantare. Dopodiché, come uscenti da costole di via, a destra e a manca, alcune bambine dalle voci possenti e androgine, vestite con armature verdi, uscirono disorientando la gente lungo la passeggiata. Cercavamo Qui, Quo, Qua ma fino a quel momento non li avevamo trovati. I bambini, curiosi, chattavano e la ricerca in rete fu bruscamente interrotta dal canto, triste, ancora udibile adesso, di un barbagianni. Annunciavano la vittoria di una giovane pittrice che sapevo che avrebbe avuto successo già da alcuni anni. Giuliana Rosso. Nel frattempo, tutto s’era spento e andammo in cerca di una gelateria in una notte fonda, l’ultima trascorsa qui dove i cani, a frotte, inseguono un suono brillante di un piffero, e piangono.
Canta il primo gallo.
I cani dormono adesso. Io sono stanco.
Pendolo nella notte, appeso ad una trave del tetto della galleria. Viral Impurity – Fake Inner. L’Idiota, all’ingresso, giorno e notte, ci attende.
Ha collaborato Simona Squadrito*
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.
Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi