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AUGMENTED IMAGES — Intervista a Francesco Verso

L’immagine generata da un software, l’immagine soft, digitale, algoritmica, computazionale, operativa, non umana, in rete, non è più un elemento solido e finito, bensì mutevole, legato a processi che si intersecano con le rimediazioni tecnologiche attuali e non. ‘Augmented Images’ è il titolo di questa rubrica di Sara Benaglia e Mauro Zanchi dedicata alle immagini che, a torto o […]

Fishing Fortress Science Fiction Academy

L’immagine generata da un software, l’immagine soft, digitale, algoritmica, computazionale, operativa, non umana, in rete, non è più un elemento solido e finito, bensì mutevole, legato a processi che si intersecano con le rimediazioni tecnologiche attuali e non. ‘Augmented Images’ è il titolo di questa rubrica di Sara Benaglia e Mauro Zanchi dedicata alle immagini che, a torto o a ragione, sono escrescenza di un fotografico zombie, che risponde dalla sua vita ultraterrena. Il nome della rubrica è nato davanti a un caffè con Elisa Medde, nel paese natale di Andrea Zanzotto.

Segue l’intervista con Francesco Verso —

Sara Benaglia – Mauro Zanchi: Cos’è Future Fiction e come è nata?

Francesco Verso:  Tutto è iniziato 15 anni fa perché, da lettore, ero piuttosto stanco di andare in libreria e trovare spesso (se non quasi sempre) sullo scaffale della fantascienza lo stesso tipo di libro, scritto da un autore bianco, della classe media, di lingua inglese (presumibilmente cristiano, eterosessuale e residente negli Stati Uniti o nel Regno Unito). Mi mancava una parte enorme della rappresentatività del mondo “reale”, una sorta di “biodiversità narrativa” che in altri generi – per quanto paradossalmente possa sembrare nella fantascienza che per definizione dovrebbe esplorare l’altro da sé – non è così estrema.
Il progetto Future Fiction si è sviluppato quindi nel corso di quasi 10 anni più come una casa editrice indipendente di stampo culturale (formalmente siamo un’associazione di promozione sociale) che come un editore commerciale e adesso – grazie a una squadra di traduttrici e di traduttori che mi ha aiutato a tradurre e pubblicare più di 200 racconti, 70 libri in italiano e alcuni in doppia lingua (cinese-italiano, inglese-italiano, inglese-cinese, russo-italiano, romeno-italiano), 14 fumetti e 60 audiolibri – ho capito che la missione era proprio quella di raccogliere e promuovere le “voci mancanti” della fantascienza mondiale.
Alcuni potrebbero definirla una ricerca di “biodiversità” (un termine che sta diventando sempre più popolare nel mondo anglofono) ma poi ho pensato: “Diverso da chi?”, chi si occupa di stabilire quali sono gli standard di “diversità?”, e di nuovo sono tornato al privilegio originario della cultura anglofona. Così adesso tendo a chiamarla “Sense of Wander” (in italiano Senso del Vagamondare) cioè vagare in giro per il mondo alla scoperta di innovazioni autoctone e futuri ignorati in quanto scritti in lingue diverse da quella inglese: come il deposito dei semi alle Isole Svalbard è stato costruito con lo scopo di preservare la biodiversità delle piante da una possibile catastrofe ambientale, io mi sono messo alla ricerca di storie di fantascienza minacciate da una possibile catastrofe culturale. Come sarebbe il mondo se ci fosse una sola voce a raccontare il futuro? E una sola religione, una sola cultura, una sola economia, o stile di vita a rappresentarlo?
Credo che il futuro non si possa declinare al singolare quanto piuttosto al plurale.

SB+MZ: Che relazione c’è tra lingua anglofona e Science Fiction? Quando hai maturato l’idea di tradurre autori che scrivono in lingue altre dall’inglese e di portare avanti una ricerca di qualità su territori non mappati e in molti casi trascurati?

FV: Negli ultimi 10 anni mi sono reso conto che tradurre solo dall’inglese rappresenta un’enorme perdita culturale per la narrativa mondiale. Sono stato invitato a molti convegni di fantascienza in Francia, Spagna, Croazia, Cina, India, Montenegro, Perù, Finlandia, Svezia, Norvegia, Bulgaria e Portogallo e ho sempre fatto agli editori la stessa domanda: “Da quale lingua traducete?”. La risposta è stata sempre la stessa: “Inglese”. 
C’è stato un tempo (dagli anni ’60 agli anni ’80 del secolo scorso) in cui importanti opere di narrativa di genere venivano tradotte da un Paese all’altro in tutto il mondo, soprattutto in Europa, Russia e America Latina. Oggi, invece, l’egemonia dell’inglese ha creato una situazione per cui tutti vogliono essere tradotti in inglese, il che significa che tutti sanno tutto della SF statunitense e britannica, mentre ignorano ciò che succede nella porta accanto, per esempio tra Francia e Germania, tra Cina e India, tra Brasile e Argentina, tra Polonia e Finlandia. In realtà, la fantascienza di alta qualità viene scritta ovunque e in ogni lingua, è solo che per la maggior parte degli editori le preoccupazioni commerciali vengono prima di qualsiasi altro elemento, per cui il pubblico dei lettori non ha necessariamente accesso alle opere migliori, ma solo a quelle “migliori” disponibili in inglese. La perdita culturale di un approccio così miope è enorme. Uno studio dell’Università di Rochester ha scoperto che solo il 3% di ciò che viene pubblicato negli Stati Uniti proviene da una traduzione (e in quel 3% sono incluse tutte le lingue del mondo). Allo stesso modo, su qualsiasi scaffale di fantascienza in qualsiasi libreria da Tokyo a Mumbai, da Berlino a Nairobi, da Roma a Rio De Janeiro, ci sono migliaia e migliaia di libri tradotti dall’inglese ogni anno (una cifra che in alcuni mercati arriva all’80%), e pochi di autori o autrici locali o di paesi non-anglofoni. È ciò che Antonio Gramsci chiamerebbe “egemonia culturale”.
Per diventare davvero internazionale la fantascienza dovrebbe includere le voci e le esperienze di persone che parlano portoghese, arabo, cinese, francese, spagnolo, hindi, giapponese, bengalese, russo e tedesco, solo per citare le lingue più parlate. Inoltre, pretendere che le storie debbano “nascere naturalmente in inglese” significa imporre un peso enorme e ingiusto a tutte quelle persone che non parlano inglese, molte delle quali non hanno accesso all’insegnamento della lingua inglese e/o non possono permettersi di studiarla. C’è molto lavoro da fare in questo senso, non solo sui mercati ma soprattutto sulla percezione della realtà contemporanea.

SB+MZ: Parlando di contemporaneità (realtà aumentata, blockchain…) durante una nostra chiacchierata hai parlato di “innovazione nativa”. Cosa intendi con questa idea?

FV: Per innovazione nativa intendo che lo strato di ciò che oggi viene considerata la “tecnologia distribuita globale” – quando esce un nuovo device, che sia uno smartphone o un’auto, si tratta dello stesso modello ovunque –  può essere adattata alle esigenze degli utenti locali e piegata alle necessità di popolazioni che, sebbene in teoria abbiano accesso alla stessa tecnologia, in realtà differiscono per le infrastrutture che le sostengono: un conto infatti è avere il 5G a Tokyo, un altro usare una banda instabile nella Pampa argentina, un conto è guidare su un’autostrada cinese a otto corsie, un’altra su un’autostrada del nostro meridione. Quindi culture diverse fanno con lo stesso oggetto cose diverse, un concetto che evolve e modifica in maniera radicale il vecchio adagio dello scrittore di fantascienza William Gibson per cui “il futuro è già qui ma non è equamente distribuito”. 
L’innovazione nativa è uno strumento collegato alla “creatività frugale” – il concetto indiano di “jugaad” che noi tradurremmo un po’ con “fai-da-te” – e si declina tramite modi ingegnosi di risolvere questioni critiche come l’alimentazione, il riscaldamento, il trasporto, l’istruzione, l’assistenza sanitaria e la produzione di energia, con quanto è disponibile qui e ora. È un metodo per immaginare e stimolare la creazione di strumenti e pratiche sostenibili nel lungo periodo, per implementare progetti a livello locale che altrimenti non vedrebbero mai la luce, senza dover per forza spedire tonnellate di merci in tutto il mondo, danneggiare i territori con produzioni commerciali aliene (come gamberi o palme), imporre standard globali a particolari aree fragili, dislocare intere comunità per creare un parco a tema, un centro commerciale, un’industria di fast-fashion o un allevamento di bestiame. Le tradizioni autoctone sanno come alimentare la biodiversità industriale e culturale con cui fronteggiare e opporsi alla standardizzazione, alla mercificazione, all’omogeneizzazione dei punti di vista, delle idee, dei prodotti e, in definitiva, dei futuri.

SB+MZ: La fantascienza ha sempre intercettato ciò che stava per avvenire 30-40 anni prima, muovendosi in controfase rispetto al mainstream. Innanzitutto, è corretto chiamare “fantascienza” ancora la letteratura di cui ti occupi? Essa mantiene ancora una relazione privilegiata con il futuro o la direttrice spazio-temporale è uscita dai suoi radar?

FV: Ottima osservazione, in effetti quella di cui mi occupo io è probabilmente una narrativa un po’ diversa dalla fantascienza classica tanto che l’ho chiamata appunto Future Fiction, un omaggio al maestro Anthony Burgess, il quale, nella prefazione al suo romanzo “Il seme inquieto” ha detto che se dovesse definire proprio “Arancia meccanica” e “Il seme inquieto” li chiamerebbe “FutFic” o Future Fiction. Questo perché la fantascienza si è spesso occupata di teorie di fisica, di invenzioni ingegneristiche, di scoperte astronomiche, tralasciando tanti aspetti del cosiddetto futuro: in realtà, invece, il futuro arriva anche con la moda, la lingua, la musica, l’architettura e l’arte. 

Chengdu High School

SB+MZ: Di cosa si occupa questa “fantascienza” oggi?

FV: Di fatto la fantascienza di qualità oggi s’interroga su come superare il nostro atavico antropocentrismo mediante riflessioni sul post-umanesimo e l’anti-specismo, si occupa dell’impatto che la società capitalistica sta avendo sull’ambiente, analizza le identità cangianti che social media, IA, avatar e assistenti virtuali stanno avendo sulle generazioni dei nativi digitali, sull’impatto dell’editing genetico in termini etici e morali sia per quanto riguarda le colture (basti pensare alla carne sintetica) che per la medicina (cura di malattie gravi), e in generale sui mestieri che faremo tra 30-50-100 anni visto che l’obsolescenza non è più soltanto insita negli oggetti che utilizziamo ma anche nelle persone che stiamo per diventare: nel giro di cento anni siamo passati dal secolo della velocità (nel ‘900 abbiamo via via utilizzato il cavallo, la bicicletta, il treno, l’auto, l’aereo e lo shuttle) al secolo dell’accelerazione (computer quantistici, Big Data, nanotecnologia, IA, realtà aumentata) per cui tentare di prevedere la curva iperbolica della trasformazione tecnologica è diventato inutile, se non del tutto impossibile, tanto che qualcuno – il matematico e scrittore di fantascienza Vernon Vinge – nel 1993 ha  parlato di punto di Singolarità.  

SB+MZ: Che cosa è il Solar Punk? Come si differenzia dalla fantascienza?

FV: Se ricordate la scena di apertura di Blade Runner la scritta riportava “Los Angeles – Novembre 2019”, ecco quel futuro così famoso e celebrato è già passato. Quel futuro – fatto di multinazionali più potenti degli stati, di inquinamento generalizzato, di globalizzazione a senso unico, nei fatti è diventato il sistema operativo della nostra realtà e si chiama cyberpunk, il quale è percolato nel presente e si è insinuato nella fantascienza fino al punto di renderla obsoleta e mainstream… Quindi dove andare a cercare altri futuri, altri scenari, altre visioni e quei preziosi segnali deboli che diventeranno i mega-trend di domani? Narrativamente il solarpunk prende il testimone dal cyberpunk (la stessa ribellione contro un sistema centralizzato, autoritario e opprimente, il lato punk del termine) e lo innesta nel tessuto mondiale dei prossimi 30-50-80 anni introducendo questioni, e soprattutto soluzioni, che il cyberpunk (tipicamente un movimento americano, bianco e in larga parte fatto di autori middle-class) non ha considerato come l’ambiente e l’inclusività radicale. 
Il solarpunk è un movimento speculativo che nasce in Brasile intorno al 2012, con al centro la pratica politica e la sperimentazione di tecnologie alternative volte alla tutela e alla difesa del patrimonio ambientale e culturale dell’umanità; provenendo dal basso, cerca di fondere soluzioni ecologicamente sostenibili con le tecnologie della stampa 3D, dei Big Data, delle IA e dell’editing genetico, sforzandosi di costruire “exit strategies” plausibili e percorribili nel breve periodo in risposta alle grandi sfide poste all’umanità dal Capitalocene e dalla Biopolitica. Per fare ciò, il solarpunk muove dalla narrativa più marginalizzata di tutte, la fantascienza, e dai movimenti democratici e partecipativi dell’ambientalismo, del femminismo e dell’altromondismo, per promuovere infrastrutture decentralizzate, coinvolgimento comunitario dal basso e un atteggiamento fai-da-te in opposizione al tecno-soluzionismo e alle politiche neoliberiste della destra e al green-washing dell’ultimo turbocapitalismo accelerazionista.

SB+MZ: Che cosa è il “solartivismo”, neologismo da te coniato?

FV: Spesso mi sono ritrovato in contesti dove la desinenza “punk” era vista in modo sospetto, con una certa diffidenza, per cui mi sono sforzato di elaborare un termine che non spaventasse troppo chi si avvicina a questo movimento senza saperne nulla. 
Sono quindi partito dall’artivismo, che pure è una corrente artistica poco conosciuta, ma che nel momento in cui si pronuncia il nome di Bansky diventa subito riconoscibile: e cioè arte rivolta all’azione politica e attivismo come modalità di risveglio sociale e coinvolgimento dal basso. Inserendo nell’equazione anche l’elemento “solar” si può produrre il meglio del combinato di “arte-attivismo-solare” affinché emerga qualcosa (una corrente, un movimento, una sensibilità, una coscienza) capace di rispondere con l’arte, la tecnologia e la politica alle sfide che già si stagliano all’orizzonte dei nostri eventi: cambiamento climatico e intelligenza artificiale infatti – due fenomeni che fino a ieri erano intrappolati nelle pagine dei romanzi di fantascienza – negli ultimi mesi sono entrati a tutta velocità nella realtà e nella narrazione mainstream, spesso con effetti contraddittori come il greenwashing pubblicitario e l’ostracismo delle IA che sa tanto di luddismo di ritorno.   

SB+MZ: Future Fiction ha partecipato a un workshop di Solarpunk al Tufello, un quartiere di Roma. Ci racconteresti questa esperienza?

FV: L’associazione culturale “No Turismo” mi ha chiesto di portare i temi del solarpunk in un progetto unico e interessante che stavano sviluppando al quartiere del Tufello a Roma. Hanno chiamato botanici, architetti e artisti, tra cui grafici e scrittori di fantascienza, per scoprire quali piante selvatiche (le cosiddette piante infestanti) crescessero in città per stimolare un percorso di consapevolezza (contro il fenomeno della green-blindness per cui le piante scompaiono dalla nostra percezione e diventano uno sfondo sfocato senza identità), di conoscenza condivisa (per esempio cerchiando con un gessetto la locazione delle piante, indicando quali usi farne per poi condividerla online) e di miglioramento del territorio (creando reti sociali e di resilienza alla gentrificazione).
Un progetto che diventerà presto un libro e che inizierà a girare di città in città per diffondere buone pratiche e condividere esperienze al fine di riappropriarsi degli spazi urbani lasciati colpevolmente abbandonati dalla burocrazia e dai processi di gentrificazione. 

SB+MZ: Che cosa diresti ai nostalgici di Stanislav Lem per coinvolgerli nella visione che Future Fictions sta strutturando? 

FV: Che il presente è in continua trasformazione e che la filosofia viene spesso messa in discussione dalla realtà. Quando la realtà cambia a una velocità incredibile, cosa dovrebbe fare la filosofia? Oggi le questioni etiche e morali più impellenti derivano proprio dagli sviluppi dei Big Data, dai bias cognitivi inseriti (più o meno volontariamente ) negli algoritmi, dagli usi (più o meno regolati) dell’editing genetico, dall’anti-specismo e dalla ricerca di soluzioni interdisciplinari che fino a pochi anni fa erano appunto fantascienza (vedi ad esempio il “connettivismo”, termine coniato da un autore di fantascienza, Alfred Van Vogt, nel romanzo “Crociera nell’infinito” per indicare come discipline troppo specializzate non possono risolvere problemi complessi senza “connettersi” tra loro) e che invece oggi sono alla portata di chiunque abbia un accesso a ChatGPT.  

SB+MZ: Transumanesimo, postumanesimo, gender studies, Big Data, cybersecurity e altri mondi sono tra le linee guida che la Science Fiction ha intercettato per scrivere delle trasformazioni in atto. Come ti rapporti a questa complessità? Come scegli i tuoi autori, le tue autrici?

FV: Il lavoro di ricerca è partito dalle voci della cosiddetta “diaspora” – autrici e autori di fantascienza di seconda o terza generazione provenienti da Asia, Europa, Africa e America Latina – che scrivessero in lingua inglese. Poi piano piano, lo scouting si è espanso e, nel corso di sei, sette anni, si è venuta a formare una squadra di giovani traduttrici e traduttori che è diventata, di fatto, i miei occhi e le mie orecchie da tantissimi paesi diversi. Ad oggi traduciamo da 14 lingue e oltre 35 paesi e che io sappia non esiste nessun altro progetto al mondo simile a Future Fiction sulla fantascienza contemporanea. 
Tuttavia, ho un grande cruccio, se ci sono riuscito io, senza budget né sponsor o finanziamenti, mi risulta difficile capire come tanti editori molto più grandi di me non riescano ad abbandonare la dipendenza cronica dalla lingua inglese e sviluppare dei cataloghi un po’ più diversificati… Ma tant’è a volte mi sento solo in questa ricerca e mi piacerebbe che altri editor abbracciassero questa visione realmente inclusiva e volta alla valorizzazione di autrici e autori che nei loro rispettivi paesi (e parlo India, Brasile, Cina, Messico, Germania, Francia) sono veri e propri maestri del genere e che ovviamente non hanno nessun obbligo, né intenzione di scrivere in inglese.  

Liu Cixin
Stranimondi 2023

SB+MZ: Insegni fantascienza in una Università delle telecomunicazioni a Chongqing, in Cina. Da quando esistono accademie di fantascienza lì? Quali sono i temi più cari alla letteratura cinese oggi?

FV: La Cina rappresenta la novità più clamorosa nella fantascienza degli ultimi dieci anni in quanto l’affermazione di Liu Cixin (刘慈欣) e Hao Jinfang (郝景芳) ai premi Hugo 2015 e 2016 con “Il problema dei tre corpi” (三体), edito per Mondadori e “Pechino pieghevole”(北京折叠), pubblicato sulla rivista Robot nr. 79, ha riaffermato quanto si era perduto con il declino della fantascienza sovietica, e cioè che esistono altre narrazioni sul futuro, oltre a quella di lingua inglese e di cultura anglosassone. A mio avviso, una delle particolarità della fantascienza cinese sta proprio nel suo guardare contemporaneamente al passato e al futuro come elementi imprescindibili e fondativi del presente, le tre scansioni temporali si muovono quasi in sinergia (a volte in accordo, altre in opposizione) ma nelle storie che ho avuto modo di selezionare non c’è un atteggiamento univoco nei confronti del tempo (possono esserci certamente delle cesure che tuttavia producono comunque degli effetti nella loro negazione): rapporti intergenerazionali tra giovani e vecchi, un passato contadino, un presente urbano e un futuro ultratecnologico, il confucianesimo di un tempo e il capitalismo di oggi, sono tutti elementi lontani gli uni dagli altri che però s’intrecciano a formare un canovaccio “non-lineare”. Chen Qiufan, uno dei migliori scrittori della cosiddetta generazione “balinghou”, ovvero quegli autori nati dopo gli anni ’80, mi ha raccontato che la narrativa cinese predilige un andamento a “spaghetti” in cui il tempo non segue necessariamente una progressione a linea retta, come spesso succede in Occidente. 
Poiché in Cina si sta vivendo un’anteprima dei possibili domani che arriveranno in molte altre parti del mondo avanzato, il loro è un punto di vista estremamente favorevole per l’analisi e la riflessione sui macro-trend; parafrasando Han Song, autore di spicco nonché giornalista dell’agenzia di stampa Xinhua, “basta affacciarsi a una finestra delle tante metropoli cinesi per guardare direttamente il nostro domani.” E in effetti, ciò che si sta sperimentando in Cina è qualcosa che noi possiamo soltanto immaginare da una certa distanza (aggiungerei di sicurezza ma anche di arretratezza) tanto che, personalmente, considero la Cina attuale come un gigantesco esperimento di fantascienza di massa e, da scrittore, non può che rappresentare il luogo migliore dove andare a cercare gli elementi drammaturgici degli anni a venire, che si tratti di derive distopiche o utopiche.  
Uno di questi luoghi è appunto il Fishing Fortress Science Fiction Academy, gestito da Zhang Fan (il quale è anche il traduttore del mio romanzo “Livido” in cinese), dove vengono  organizzati corsi di scrittura e altre discipline orientate al futuro: ogni aspetto dell’accademia è quindi declinato in termini fantascientifici che si tratti di danza o di design musica, grafica,  moda, un vero e proprio “unicum” al mondo, o almeno io non ho mai sentito di nessun altro progetto del genere prima d’ora. E già stanno aprendo altre sedi, in altre università e altre regioni della Cina, da nord a sud; il Fishing Fortress ha già quattro sedi, con decine di insegnanti e migliaia di studenti, che rappresentano la prossima generazione di autori e di autrici di fantascienza cinese; l’investimento nel futuro non ha uguali al mondo e sono davvero orgoglioso di poter dare il mio contributo allo sviluppo di una visione di tale portata. 
Il corso che gestisco – il Future Fiction Workshop – si articola su quattro settimane di full-immersion durante il quale grandi autrici e autori di fantascienza cinese e internazionale vengono invitati a parlare dei loro romanzi, a tenere seminari, a svolgere esercitazioni in classe sugli elementi narrativi della fantascienza e in generale a condividere le proprie esperienze professionali. Quindi si passa alla fase di scrittura vera e propria e poi alla selezione delle storie migliori che, alla fine, andranno a concorrere a un premio nazionale di grande prestigio e valore economico (che consente di dedicarsi alla scrittura in maniera professionale). In questo modo si stimola la creatività, si formano competenze, si sviluppa una filiera industriale che si sta già saldando con il cinema e il gaming, e in ultima analisi si offre un servizio migliore alle lettrici e ai lettori di domani.  

SB+MZ: Ci daresti qualche consiglio di lettura per approfondire l’indo-futurismo? Quali “blocchi emergono dalle nebbie del futuro”?

FV: L’India è uno dei paesi più interessanti dal punto di vista della fantascienza, ho già menzionato il concetto di jugaad, che reputo fondamentale per capire come l’innovazione nativa riesca a declinarsi in maniera culturalmente rilevante nei diversi paesi, per cui direi che per esplorare l’incredibile mosaico di narrazioni indo-futuriste si potrebbe partire da due antologie di racconti “Avatar” – prima antologia di SF indiana mai pubblicata in Italia – e “Kalicalypse”, con storie dal subcontinente e autori da India, Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka. Inoltre, per chi volesse approfondire, segnalo l’autrice Vandana Singh, che lavora al MIT di Boston come fisica e scrive ottima fantascienza legata ai cambiamenti climatici e all’ingiustizia sociale: su Future Fiction abbiamo pubblicato la sua novella “Entanglement”. Per finire, il romanzo di Lavanya Lakshminarayan, “Analogico-Virtuale”, ambientato in una Bangalore del futuro prossimo dove l’antico sistema delle caste ha assunto una connotazione ancora più inquietante nel momento in cui si è fuso con il neoliberismo. 

SB+MZ: Sei a tua volta uno scrittore di science fiction, vero?

FV: Sì, ho lavorato all’IBM e poi in Lenovo fino al 2008. Quando la globalizzazione ha provveduto alla cancellazione del mio posto di lavoro, mi sono ritrovato di fronte a un bivio: lavorare nell’IT oppure tentare di fare un salto nel buio. Ho scelto di rischiare, consapevole del fatto che – per come è messa l’editoria italiana – ci sarebbero voluti molti anni per ottenere qualche risultato. Ho tirato la cinghia, ho investito nella mia trasformazione personale mediante un corso professionale in editoria, uno stage in una piccola casa editrice, e alcune collaborazioni in realtà indipendenti prima di mettere il naso fuori dal guscio e camminare con le mie gambe. Con la scrittura, invece, sono stato fortunato: dopo poco tempo dalla messa in mobilità dal lavoro, ho vinto il premio Urania con “e-Doll” nel 2009 e poi un secondo premio Urania con “Bloodbusters” nel 2015. Da allora, ho capito che il percorso era segnato. Con meno soldi ma più tempo per leggere e studiare, ho scritto altri romanzi, “Livido” e “I camminatori” (primo romanzo solarpunk italiano ed europeo). Adesso ho alcuni libri tradotti in inglese e in cinese e a breve anche in francese, spagnolo e tamil. È sempre dura, è sempre una battaglia vendere il prossimo romanzo venendo dalla fantascienza e dall’Italia, ma almeno so di non aver commesso l’errore di sopravvalutarmi.  

SB+MZ: Il 14 e 15 ottobre sarai a Milano per “Stranimondi”, una convention di fantascienza. Hai alcune anticipazioni che vorresti condividere con noi?

FV: Stranimondi è la manifestazione più importante d’Italia per la narrativa di fantascienza e il fantastico in generale dove s’incontrano circa 600-700 persone tra fan, scrittori, editor ed esperti del genere. In questa cornice di pubblico porteremo alcune novità interessanti: un’antologia di racconti di fantascienza cinese, “Il colibrì e la pagoda”, con autori classici e nuovi, di generazioni diverse, i balinghuo (nati dopo gli anni ’80) e i linglinghuo (i nostri millennials), poi una raccolta di storie provenienti dall’America Latina sul futurismo andino dal titolo “La rivolta degli oggetti” e un classico della narrativa di fantascienza sovietica, “Il venditore d’aria” di Aleksadr Beljaev, che già ai primi del ‘900 anticipava alcuni temi legati al cambiamento climatico e al rischio dello sfruttamento incondizionato delle risorse naturali.  

Il complesso verde solarpunk dei celebri Giardini sulla Baia di Singapore
Precious Okoyomon To See The Earth Before the End of the World, 2022 – 59th International Art Exhibition – La Biennale di Venezia, The Milk of Dreams. Photo © Roberto Marossi