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Max Mondini — Tributo per Alberto Garutti 2023

Premessa: Alberto non c’è più da oltre un mese… Un mese estremamente movimentato, nel quale è stato difficile capire cosa realmente era successo: Salutare un vero amico.In queste settimane sono riaffiorati ricordi, pensieri e vecchi discorsi, risolti e non, che mi fanno sentire ancora le carezze che Alberto sapeva darti. I suoi abbracci.Questo testo è […]

Premessa:

Alberto non c’è più da oltre un mese… Un mese estremamente movimentato, nel quale è stato difficile capire cosa realmente era successo: Salutare un vero amico.
In queste settimane sono riaffiorati ricordi, pensieri e vecchi discorsi, risolti e non, che mi fanno sentire ancora le carezze che Alberto sapeva darti. I suoi abbracci.
Questo testo è un estratto, tratto da un articolo pubblicato in passato, dove racconto un mio vecchio lavoro presentato proprio ad Alberto. In questi giorni l’ho riletto e ho risentito quell’energia strana che tutti abbiamo respirato stando con lui.
Tralasciate l’inevitabile autoreferenzialità (era stato scritto in prima persona), della quella mi scuso, ma non ho avuto il coraggio di rimetterci mano. Li dentro ci sono io, c’è Alberto e ci siamo Noi. Mi manchi caro amico…

Capitolo 1

Ricordo che era fine inverno. Non perché io abbia una particolare memoria storica degli avvenimenti della mia vita, ma perché questo lavoro è nato in un momento preciso della mia carriera scolastica.
In quel periodo ero iscritto al primo anno dell’Accademia d’Arte di Brera, a Milano, e frequentavo il corso di Pittura di Alberto Garutti, un grande artista e un famoso professore, il quale aveva lasciato un segno indelebile in un’intera generazione di artisti italiani negli ultimi 20 anni.
Avevo già rotto il ghiaccio con lui. Finalmente ero riuscito ad ingranare nel suo corso in cui non si insegnava nulla, ed era magnifico.
Quell’aula era uno spazio aperto, in cui uno studente era considerato un’artista ed al quale era richiesto di presentare un’opera che di tale livello da reggere il confronto con la Biennale di Venezia. La responsabilità era altissima e il tutto si svolgeva in un’aula vuota, con il povero malcapitato che doveva installare il suo lavoro nello spazio bianco ed attendere il responso degli stanti. Inutile dire che la tensione era sempre alle stelle, non tanto per Alberto, che pur essendo sempre molto lucido, diretto e crudo, era una persona dalla grande umanità, ma per il giudizio degli altri artisti presenti, i quali erano già passati sotto le grinfie di quella assemblea giudicante e non vedevano l’ora di poter esprimere tutta la loro malcelata insofferenza su di te. Quest’opera nasce da lì, da quel contesto. Da quel mondo che era una fonte inesauribile di ossigeno per chi come me veniva da una sonnacchiosa e statica città di provincia, famelico di nuovi orizzonti.
Bastò una frase.
“Quest’opera non funziona, ma tu farai dei bei lavori.”
Quel giudizio, così netto e lucido ma allo stesso tempo caldo, era stata la pietra tombale che Alberto aveva messo sul mio lavoro precedentemente mostrato in aula. Le argomentazioni nate in quel contesto vertevano sul fatto che, nel mio operare, io ero ancora troppo legato alla “pancia” delle cose, mentre la mia parte concettuale era ancora acerba. Il mio lavoro risentiva di questo.
Eppure sono sempre stato bravo a pensare, analizzare, argomentare e studiare. Ma allora perché non riuscivo? Perché ero ancora così fragile? Nella classe ero uno di quelli che svettava quando c’era da distruggere il lavoro di un altro e non davo mai tregua fino a quando la discussione non metteva in luce i lati da me considerati fondamentali. Tutta quella sagacia dove spariva nel mio lavoro?
Fu quella domanda a farmi capire il grande gesto di generosità al quale stavo assistendo, giorno dopo giorno, lezione dopo lezione.
Alberto utilizzava la sua esperienza non per umiliarti (secondo me eravamo bravissimi a farlo da soli) ma per trasmettere una visione, una prospettiva su te stesso e sul tuo lavoro , migliorando non attraverso escamotage o scorciatoie, ma utilizzando la tua crescita emotiva. ” tu puoi essere una persona spregevole, non mi importa, ma nella tua opera non puoi mentire”.
Già ecco cosa mancava: la Verità. Un lavoro che fosse davvero sentito, davvero il frutto di una necessità, il quale ti appartenesse ma che allo stesso tempo appartenesse a chiunque.
Un atto.
Tornando a casa capii che quel lavoro doveva partire dalla testa, da un pensiero che a sua volta doveva generare una spinta emotiva finalizzata a cristallizzare il tutto in un’opera. Le emozioni libere erano poca cosa. Bisognava andare in profondità e non scalfire la superficie delle cose.
Furono settimane di inattività quelle che seguirono… stavo continuamente a pensare a cosa volessi davvero dire con il mio lavoro. Non producevo nulla, ma riflettevo e basta, non accontentandomi mai delle soluzioni che trovavo, sempre parziali e inesatte.
Era frustrante per me non trovare quella verità che stavo cercando.
Verità, oggi mi sembra assurdo cercarne, ma allora ero assetato di quelle risposte. Avevo troppe domande che mi stavo trascinando dietro da anni.
Intanto leggevo 1984 in quel periodo. Non so se anche questo abbia influenzato la mia visione, ma ero certo che dovevo trovare una piccola soluzione a un piccolo problema se volevo iniziare a costruire una scala che mi consentisse di uscire da quel buco nero di congetture che mi stavo creando.
Poi capii… Trovai più verità nelle mie false soluzioni, nelle mie bugie, piuttosto che bugie nelle mie verità. Bastò una piccola ricerca su internet e un video su YouTube per creare l’opera…

Capitolo 2

Ecco, ci risiamo… Ansia, l’adrenalina che sale, la sensazione di aver fatto una cazzata… la voglia di scappare e non presentare il lavoro. Insomma il solito inizio di giornata che precede l’apertura di una mostra o la presentazione di un progetto. Almeno questo era quello che provavo allora: un misto di angoscia ed euforia shakerati assieme.
Arrivai come sempre molto presto in Accademia. All’epoca vivevo ancora a Parma e dovevo intraprendere un viaggio di quasi 3 ore per raggiungere Milano per frequentare i corsi. Inevitabilmente arrivavo sempre prima degli altri, non per un mio eccesso di puntualità, ma per carenza di treni su quella tratta, il che mi costringeva a partire all’alba per arrivare in tempo alle lezioni della mattina.
In questo caso però l’ora di anticipo mi dava tutto il tempo di completare il mio piano.
Ovviamente avevo fatto qualche prova a casa… Avevo prima armeggiato con un vecchio lucchetto trovato in un cassetto e poi con la serratura di una piccola cassetta di sicurezza rossa, simile a quelle utilizzate nelle fiere per custodire i soldi. Il risultati erano stati incoraggianti.
Mi ero costruito anche gli attrezzi del mestiere… Due piccoli pezzettini di fil di ferro, piegati all’occorrenza per fare leva ed allineare i dentelli della serratura, erano egregiamente serviti al mio scopo.
Il mio nemico quel giorno sarebbe stato un cassetto della cattedra dell’Aula 1… e forse le migliaia di domande che ancora mi frullavano in testa e cercavano inesorabilmente di trovare una risposta.
La tensione saliva. Non sapevo se la mia piccola preparazione domestica sarebbe giunta ad aiutarmi nel momento decisivo o se quella serratura si sarebbe rivelata inviolabile, almeno per me.
Entrato nella stanza mi diressi subito sul mio obiettivo. Accesi la luce e iniziai ad armeggiare con i fili di ferro.La serratura non si muoveva… Poco male, ero da solo e nessuno sapeva che il mio esperimento stava fallendo, quindi non mi arresi e continuai a provare, non volevo fallire. Non volevo mettermi nella condizione di sentirmi ancora una volta non all’altezza. un Incapace.
Con questi pensieri che mi frullavano nel cervello aprii finalmente (non so ancora come) la serratura, che fece uno strano rumore e si sfilò letteralmente dal cilindro che la conteneva… Avevo aperto il cassetto ma forse avevo rotto il meccanismo di chiusura. Oggi penso se questo dettaglio è realmente importante, ma all’epoca fù un fatto che mi colpì molto e mi colpì ancora di più la mia reazione: Non ci pensai.
Ero troppo immerso nei miei pensieri per interrogarmi se quello potesse essere un problema.
Dovevo iniziare l’allestimento e pensare all’opera. Avrei affrontato tutto questo dopo.
Iniziai quindi a spingere la cattedra verso il centro della stanza, spostandola dalla sua normale posizione a fianco dell’entrata e dandole un ruolo da protagonista. Aprii il cassetto, posizionai i miei attrezzi da scasso sopra una pila di documenti e fogli con gli orari delle lezioni, simboli della mia riuscita e scattai qualche fotografia per fissare la scena.
Mancava ancora mezz’ora all’inizio della lezione… ed ero solo.
Vigeva un regolamento imposto da Alberto per presentare i lavori nella sua aula:
Primo: dovevano essere sempre già allestiti al suo arrivo.
Secondo: lo spazio doveva essere perfetto e privo di qualunque distrazione o oggetto lasciato lì per caso Terzo: dovevi accompagnare la tua creazione con un testo scritto da te che doveva sintetizzare il pensiero dell’opera.
Ho ancora quel testo, stampato su fogli a4 e lasciato vicino alla porta d’entrata.
Insomma c’era tutto. Tutto quello che potevo controllare, tranne la reazione del “pubblico” a quella mia azione.
Piano piano iniziarono ad arrivare i primi colleghi….qualcuno aveva l’aria allarmata e interrogativa, vedendo la cattedra al centro della stanza e niente alla parete retrostante. Altri sogghignavano beffardi mentre prendevano posto, gustandosi già la scena che da lì a breve sarebbe iniziata.
Per ultimo, come sempre, arrivò Alberto.
Non si scompose minimamente nel non trovare la sua cattedra al posto consueto e si diresse immediatamente a passo svelto verso il centro della stanza, dove io attendevo l’inizio di tutto.
Non mi salutò neppure, prese il foglio che io gli porsi e con il suo sguardo glaciale (lui ha sempre parlato con gli occhi anche quando non voleva. Non ho mai più rivisto occhi così) e si mise a leggere a voce alta in piedi, di fianco a me.
Appena finito buttò uno sguardo dentro al cassetto, andò con il suo solito passo svelto verso un angolo, recuperò uno sgabello e con questo in mano ritornò al centro della stanza e si sedette.
Una domanda: “Cosa mi dice questo lavoro che già non so?”
Risposi: “Nulla, ma serviva a me per capire qualcosa che ancora non sapevo di poter fare.”
Ci furono attimi di silenzio, qualche brusio e qualche risatina. Poi intervenne un ragazzo del terzo anno, di quelli “bravi” ed arroganti allo stesso tempo, che già si sentivano pronti per le grandi gallerie e musei: “Allora a noi cosa importa di vedere un lavoro che è un discorso tra te e te? Che cosa vedo? Nulla. Che cosa mi dici? Nulla. Questo lavoro non esiste”.
Mi aveva fatto una domanda e si era dato da solo la risposta. Alberto annuiva.
Intervennero anche altre persone, tutti molto dubitativi nei confronti della mia opera e per nulla “parsimoniosi” di commenti negativi.
Io ribattevo, difendevo la mia posizione e forse facevo l’errore di svelare troppo del mistero che spesso circondava le opere esposte in quell’aula. Quella regola non scritta furba e subdola che mirava a trasformare il discorso in una cortina di fumo piuttosto che in una rivelazione.
Io sono sempre stato molto ingenuo in questo. Volevo capire, non farmi abbindolare da belle parole. Di quelle ne trovavo quante volevo nei libri o in alcuni articoli sulle riviste d’arte.
Ma la presenza di Alberto mi metteva sempre più frustrazione. Era lì a fianco a me fermo e non proferiva parola.
Poi intervenne, prendendo la parola. Con due frasi distrusse verbalmente quel poco che restava del lavoro e mi disse: “Questa è stata una prova per te, non per noi. Ma da qui non puoi fare altro che salire. Non è un bel lavoro, ma è un lavoro necessario… anche se questo ancora non basta a noi, pubblico dell’arte.”
In quel momento capii che era tutto vero. Ero talmente immerso nel pensiero, nella mia necessità, che avevo dato per scontato che la soluzione a un mio problema, seppur fittizio, fosse di qualche interesse anche per gli altri presenti. Presi coscienza del fatto che i problemi sono una cosa da affrontare in solitudine e che l’arte deve essere un risultato aperto di quel percorso, non una soluzione, ma un attivatore. Questo è vero ancora oggi per me.
Ma lo spettacolo doveva continuare. 5 minuti per rimettere la cattedra al suo posto e passare al lavoro di un altro ragazzo. […]

Ricordo…

Se c’è qualcosa che ho riscoperto, rileggendo questo testo dopo molto tempo, è stato il ricordo di una bella chiacchierata fatta con Alberto nel suo studio.
Il discorso verteva sul constatare che si è sempre molto più rigidi a vent’anni, piuttosto che a trenta, quaranta o cinquanta… Mi metteva in guardia: “Guai se così non fosse! Vorrebbe dire aver smesso di vivere sopravvivere a se stessi, senza essere cresciuti. Bisogna essere felici e cercare la propria felicità”
Sono felice ed appagato oggi e non tornerei mai ai miei vent’anni, stanne certo!
Tuttavia, certe sere, baratterei una parte dei miei “domani” per poter vivere ancora qualche ora in un “ieri” assieme a te.


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