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I (never) explain #155 – Jacopo Belloni

L’Ostacoliere è una delle prime opere che realizzai fuori dal contesto Accademico e a cui sono ancora molto affezionato. È una performance in cui il protagonista, normalmente il sottoscritto, protetto da un ingombrante costume assemblato con toppe di gommapiuma, è in bilico su un ammasso di scale a libretto e cerca di compiere movimenti che […]

Elmetto alla savoiarda, ca. 1600 – ca. 1620, Museo Poldi Pezzoli, Milano

L’Ostacoliere è una delle prime opere che realizzai fuori dal contesto Accademico e a cui sono ancora molto affezionato. È una performance in cui il protagonista, normalmente il sottoscritto, protetto da un ingombrante costume assemblato con toppe di gommapiuma, è in bilico su un ammasso di scale a libretto e cerca di compiere movimenti che diventano sempre più azzardati. L’evento si conclude quando, a causa della stanchezza e/o dell’impaccio, il performer precipita fragorosamente a terra.
Questo lavoro mi è molto caro perché contiene in sé gli intenti e la poetica della ricerca artistica che sto portando avanti ancora oggi, e la riguardo ogni qualvolta abbia la sensazione che la mia pratica si stia allontanando dalle mie reali intenzioni. Penso che ogni artista abbia un’opera di questo tipo a cui ripensa con affetto e che gli ricorda un momento specifico della sua vita.

Quando la ideai stavo passando un periodo molto particolare. Da un anno avevo concluso il triennio all’Accademia e abitavo ancora a Milano. Cercavo di relazionarmi con il mondo dell’arte che faticavo a comprendere, guidato da logiche a me oscure in quel momento. Attorno vedevo persone molto determinate che realizzavano mostre ed i primi progetti importanti, mentre io a malapena trovavo il tempo per dedicarmi alla mia pratica. Presi coscienza del fatto che forse dovevo trovare un percorso parallelo alla carriera d’artista e decisi di iscrivermi ad una magistrale in Storia dell’Arte della Statale e, allo stesso tempo, ad un corso come attrezzista di scena al Teatro alla Scala, entrambe opzioni che, speravo, mi avrebbero potuto aiutare a trovare un’alternativa.
Alla Statale, invece che dai corsi di arte contemporanea, molto aridi e didattici, venni attratto dalle lezioni di storia medievale tenute dal Prof. Folco Vaglienti che aveva la capacità di porre in relazione l’attualità con un’epoca apparentemente oscura.

Durante il corso scoprii che, nei secoli precedenti, Milano era un polo d’avanguardia nella progettazione e produzione di attrezzatura bellica. Tra i suoi vicoli medievali venivano forgiate spade e alabarde che dettavano la moda guerresca in Europa, mentre il metallo veniva magistralmente assottigliato e curvato per modellare armature scintillanti, impenetrabili e altamente tecnologiche per l’epoca. Acidificazioni e incisioni decoravano la loro superficie, consegnando alle casate nobiliari ambrosiane le migliori corazze da parata sul mercato.

Milano – Museo Poldi Pezzoli – Armature Nella Sala D’armi Progettata Da Arnaldo Pomodoro

Iniziai a riflettere sul fatto che l’eredità di un’industria così importante per la città non fosse solo da ritrovare nei nomi antichi di alcune vie, ma avesse ipoteticamente impresso un segno tutt’ora visibile nei suoi rapporti sociali e nella sua produzione artistica contemporanea. Quella traccia insita nella perfezione formale, tagliente, incline ad una postura inattaccabile nella sfera emotiva, concettuale ed estetica che ritrovavo nelle opere e nei corpi, nelle gallerie e nelle relazioni sociali. Ognuno si forgiava la propria armatura, impermeabile e repulsiva per omettere le incertezze, le insicurezze giovanili e un sentimento di smarrimento che è legittimo provare durante le prime esperienze artistiche.

Mi dissi che anche io volevo una corazza, tracotante, vistosa, ma tragicamente goffa, più propensa ad avere falle e buchi che ad essere impermeabile al mondo esterno. Volevo un’armatura porosa.

Tornato nelle Marche dai miei iniziai a raccogliere scarti di gommapiuma di un’azienda di tappezzeria della zona, un materiale spesso usato come imbottitura per i costumi teatrali o modellato per i carri e le maschere di carnevale. Per tenere assieme i frammenti li cucii con del semplice spago, a mo’ di vere e proprie toppe, creando così le prime scaglie della corazza. Ora mi serviva un’impresa per usarla.

Precedentemente stavo già lavorando a tempo perso ad un video in cui cercavo di muovermi sopra un pericolante ammasso di scale. Mentre ero a casa dei miei avevo accatastato una vicina all’altra tutte quelle che avevo trovato nel magazzino di mio padre il quale, rappresentante di libri scolastici, le utilizzava per sistemare i volumi negli scaffali. Decisi di integrarvi l’armatura, con l’intento di proteggermi da una possibile caduta ma anche di provocarla a causa del suo impaccio. Inoltre, mi dissi che avrei aggiunto in futuro altra gommapiuma nei punti in cui si fossero aperte falle e lacerazioni. Con l’accumularsi dei successivi strati la corazza sarebbe diventata talmente ingombrante da diventare inutilizzabile, per raggiungere infine lo stadio di scultura inerte.

Prima versione del costume L’Ostacoliere, 2016
Frame del primo video de L’Ostacoliere, 2016

Mi accorsi subito che le scale non erano sufficienti, così feci un giro delle famiglie del paese per chiedere in prestito la loro e furono talmente gentili che, nel giro di mezza giornata, raccolsi tutto il materiale necessario. Azionai la camera, feci tre o quattro riprese e caddi altrettante volte senza fratturami nulla. Potevo ritenermi soddisfatto del risultato.

Nei mesi successivi ebbi la bella notizia che un mio ex professore dell’accademia, Roberto Casiraghi, a cui voglio tutt’ora molto bene, mi aveva nominato per una residenza post-diploma di tre mesi a Parigi chiamata Dena Foundation. Durante uno degli studio visit organizzati dalla fondazione mostrai il video de L’Ostacoliere a Vittoria Matarrese, allora direttrice del programma di arti performative del Palais de Tokyo, a cui piacque molto e che mi chiese se fossi interessato a trasformarlo in una performance da integrare in un festival all’interno dell’istituzione. Ovviamente dissi di si.

Da quel momento ho performato l’Ostacoliere in svariati contesti ed ancora oggi sono sempre molto felice di rimetterlo in scena, sebbene siano passati diversi anni dalla sua ideazione. Ovviamente non è detto che tutte le prime opere abbiano lo stesso destino. Ma, al di là del fatto che non vengano più̀ mostrate, che siano state dimenticate in qualche garage o cantina di zii e parenti o che non esistano più, bisognerebbe sempre volergli bene. Le prime opere racchiudono in sé le debolezze, le imperfezioni e anche le ingenuità dei primi passi come artista, oltre a tutto il potenziale della pratica futura.


E’ in corso da ADA Project a Roma, la mostra di Jacopo Belloni Mimema – Fino al 6 maggio, 2023

L’Ostacoliere, “Do D!sturb”, 2017, Palais de Tokyo, Parigi. Credits: Atelier Diptik
L’Ostacoliere, set per il documentario Pane Quotidiano di Bianca R. Schröder, Carlotta Scognamiglio e Simone N. Valente, Arcevia (AN) 2018. Credits: Simone N. Valente

Per leggere gli altri interventi di I (never) explain

I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.

Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi