Luigi Presicce termina questa lunga conversazione con una rivelazione – o per lo meno, a me sembra tale -: “Sono un artista del mezzogiorno d’Italia, mi piacciono le storie, i fatti raccontati a voce e tutto quello che é in odore di santità.”
In occasione della sua mostra personale, La bigiotteria della Terra, in corso fino al 11 marzo da Contemporary Cluster a Roma, Presicce ci racconta le opere prodotte negli ultimi tre anni. Gli abbiamo chiesto che importanza ha il linguaggio pittorico nella sua produzione, in relazione alle performance che ha realizzato nel corso di oltre vent’anni di lavoro. L’artista ci racconta le ragioni, le scelte e gli stimoli che lo hanno guidato nella realizzazione delle sue opere. Tra rivelazioni e racconti, scopriamo il suo amore per la pittura, l’autenticità e l’originalità di molti suoi lavori, oltre che scoprire le ragioni di esperienze come la Scuola di Santa Rosa.
“Devo ammettere che il mio essere sempre stato indipendente mi ha agevolato a considerare la mia libertà espressiva come qualcosa di naturale. In questi 25 anni di attività, senza parlare mai di carriera, ho toccato con mano diverse forme espressive con le quali ho trovato libero sfogo, a volte con il necessario sostegno a volte no.”
Elena Bordignon: La mostra che apre a Roma indaga gli ultimi tre anni della tua produzione pittorica. La pittura è sempre stata un linguaggio molto importante nella tua ricerca, per molti motivi. Mi puoi raccontare la stretta relazione che c’è tra la tua pratica performativa e quella pittorica?
Luigi Presicce: La “matrice” (per citare l’amico Jacopo Benassi) è lo sguardo pittorico, non potrei fare performance se non fossi visceralmente legato alla pittura (nella storia) e mi risulterebbe difficile dipingere se non sapessi che intorno a me c’è un fermento pittorico tangibile che non ho smesso mai di ammirare. Tuttavia non credo di potermi definire un performer che fa i quadri, né un pittore che fa le performance. I due linguaggi sono assolutamente differenti sia per quanto riguarda le finalità, sia per il modo di essere fruiti, che per le modalità di esecuzione, agli antipodi direi. Semplicemente, avendo praticità con molte cose, non escudo la possibilità di dialogare con più mezzi a mia disposizione. Se penso una performance per esempio metto in moto una macchina espressiva che coinvolge tutta una serie di “aiutanti”, mentre mettermi di fronte ad una tela esclude ogni tipo di contatto con chiunque, lasciandomi completamente solo fino al momento dell’esposizione del quadro (che non sempre avviene). Ancora diverso é invece se faccio delle sculture: per i bronzi realizzo i modelli che poi partono per la Fonderia per essere lavorati, mentre per le ceramiche invio le argille crude che vanno a finire nei forni di una Bottega. Mi piace pensare di essere libero di interpretare le mie esigenze sulla base unica della mia volontà, ma aldilà di questo é chiaro ormai che ogni risultato ha un suo modo specifico di essere ottenuto e il messaggio é più forte quando si indovina il mezzo con il quale andrebbe detto. Poi devo ammettere che il mio essere sempre stato indipendente mi ha agevolato a considerare la mia libertà espressiva come qualcosa di naturale. In questi 25 anni di attività, senza parlare mai di carriera, ho toccato con mano diverse forme espressive con le quali ho trovato libero sfogo, a volte con il necessario sostegno a volte no.
Come artista lavoro praticamente tutti i giorni, non sono di quelli che fanno “i progetti” e poi stanno in vacanza tutto il resto del tempo. Quello che un artista (del mio stampo) riesce a far vedere nelle esposizioni é sempre molto meno di quello che in effetti realizza. Non avendo poi rapporti continuativi con gallerie o istituzioni museali, tutto tende all’accumulo. Ho molti più metri quadrati di storage che di atelier.
Pensando ancora ai raffronti tra media, ricordo ancora la prima volta in cui Giacomo Guidi (diversi anni fa) mi chiamó per realizzare una performance nella sua galleria a Trastevere. Gli presentai un’idea in cui volevo ricreare “in superficie” una cerimonia di Agharta e paventavo la possibilità reale di portare in galleria degli elefanti (indiani, mi ricorda Giacomo). La cosa si sarebbe fatta se non fossero emerse delle problematiche più grandi di noi (non di natura ambientalista). Il punto però non è questo (che la performance non si sia fatta), quanto che oggi a distanza di anni lo stesso Giacomo Guidi mi inviti ancora a fare una mostra, questa volta di pittura e ceramiche, nel suo nuovo spazio. Questo vuol dire che lui crede nell’uomo, prima che nel mezzo o altre chiacchiere, e di questo non posso che esserne incredibilmente felice.
EB: Guardando la produzione pittorica dei tuoi esordi, cosa è cambiato rispetto alle ultime produzioni? In particolare quelle esposte in occasione della mostra La Bigiotteria della terra.
LP: In sostanza quando ho iniziato avevo vent’anni ed erano gli anni 90, ora ne ho quasi 50 e tutto intorno a me é completamente cambiato. La pittura rispecchia sempre (quasi meschinamente) chi la fa, gli eventi belli o brutti della vita cambiano radicalmente il modo di mettersi di fronte ad una tela bianca. Il tipo di pittura che facevo una volta, va considerata nel suo tempo, quando media come fotografia e video influenzavano per la maggiore chi dipingeva. Bisogna quindi necessariamente tenere presente il fascino che questa pittura, di stampo iperrealista, aveva su un pubblico che non conosceva internet e non immaginava neanche l’effetto dei social media… Ci si telefonava dalla cabina. Ora tutti sono in grado di produrre immagini e lo fanno continuamente tramite dei telefoni portatili; la pittura oggi invece può e deve avere il suo spazio, assolutamente staccato da questa bulimia del visibile.
Sulla rete ci sono milioni di pittori (dei giorni feriali) che compiono prodigi tecnici senza alcuno scopo se non quello di assecondare una virtù. Io avevo del talento quando ho iniziato, quello ci vuole, ma ora credo si sia trasformato in altro che non è saper dipingere alla perfezione un occhio con tutte le lumeggiature e le ciglia, una a una. È come se considerassimo gli acquerelli di Hitler delle opere d’arte, senza tenere minimamente conto del periodo storico in cui li ha realizzati. Erano si acquerelli magnifici, fatti con maestria, ma nel mondo c’erano già state le avanguardie! Di che vogliamo parlare, ancora di talento?
L’esposizione che presento ora é un riassunto di questi ultimi tre anni. Anni complessi in cui una pandemia ci ha costretti a chiuderci in casa, a non poter andare neanche ai funerali dei nostri parenti e amici, a smettere, come nel mio caso, di pensare qualsiasi opera che avesse a che fare con il contatto fisico, a scegliere di realizzare dei compianti “scomposti” (come a Master chef), così é accaduto per le Sedute di disegno dal vero con tableau vivant, che realizzavo durante la mostra al Mattatoio di Roma in piena zona rossa. Questo disagio assurdo ha favorito un ritorno “forzato” verso il mio primo amore che é sempre stato la pittura. Degli esordi, non ricordo nemmeno quelle che erano le mie necessità (25 anni fa), ora di sicuro ne ho altre, diverse, anche a livello tecnico ci sono molte nuove scoperte e soprattutto molte più libertà che non c’erano prima in Italia. Vedi per esempio il problema principe, quello di essere un pittore, poi il tabù della narrazione, il divieto di dipingere quadri scuri, oppure avere vent’anni quando gli “artisti giovani” ne avevano più di quaranta.
EB: Nella tua indagine sul mezzo pittorico, ti sei confrontato anche con un interessante progetto. Mi riferisco all’esperienza che hai condiviso con Francesco Lauretta: la Scuola di Santa Rosa. Quali sono le motivazioni che vi hanno spinto a creare questo progetto aperto a chiunque volesse cimentarsi con il disegno e la pittura?
LP: La Scuola di Santa Rosa nasce sei anni fa per il semplice desiderio, mio e di Francesco, di incontrarci una volta a settimana in una città come Firenze dove entrambi siamo forestieri. La scusa é stata quella di imitare gli americani che si mettono sul Lungarno a disegnare. Poi si è sparsa la voce e di martedì in martedì il numero degli avventori è aumentato sempre di più fino a farci capire che potevamo abusivamente colonizzare un bar e starcene seduti a chiacchierare, bere e fumare con il pretesto del disegno. Di fatto si chiama scuola, ma nessuno insegna niente a nessun altro, non si prenota, non si paga, non é necessario disegnare, né tanto meno saper disegnare, ma soprattutto nessuno viene giudicato. Il solo fatto che la scuola abbia funzionato anche a New York e attrae sempre molti “studenti” ogni volta che ci spostiamo fuori, ci fa pensare che come dice Andrea Salvino: la Scuola di Santa Rosa é sovversiva. Oppure come ha scritto di recente Antonio Grulli che sia una continua grande performance. Noi in tutta sincerità non ci poniamo il problema di avere un pubblico, né di assecondare l’ondata dell’arte sociale. La scuola è veramente aperta a tutti, ogni lunedì mettiamo un post sulla pagina Instagram comunicando il luogo e l’ora. Poi il martedì ci incamminiamo verso il bar prescelto e scopriamo che non siamo solo in due a voler condividere delle ore liete disegnando.
EB: Tornando alla mostra ospitata da Contemporary Cluster, mi spieghi il titolo? A cosa si riferisce La Bigiotteria della terra?
LP: Una mattina andando verso la stazione a prendere un treno, mi é capitato di passare attraverso un discorso ad alta voce di un senzatetto che declamava: “vivo nella bigiotteria della Terra…” Poi di leggere una frase di Marlene Dumas su un giornale: “sono una bionda artificiale” e ancora di leggere una dichiarazione di Lee “Scratch” Perry in cui affermava che “la tecnologia é una ladra”.
Tutto questo è profondamente correlato, non sono titoli che ho cercato, sono loro ad essere venuti da me e forse sarebbe giusto fare altre due esposizioni con gli altri due titoli, una trilogia insomma.
Sarebbe quanto mai inutile ora una spiegazione, é così evidente che ogni sillaba in più sarebbe di troppo.
EB: I dipinti che presenti sono tutti incentrati sulla figura umana. In questo caso una figura deformata, quasi favolistica, connotata da un lungo naso, zigomi sporgenti, un mento pronunciato, senza contare i colori spesso saturi e innaturali che definiscono le forme. C’è una particolare iconografica a cui fai riferimento? Da cosa hai tratto ispirazione?
LP: La figura o meglio il ritratto é sempre stato il mio campo d’azione, anche quando si trattava di evidenziare un personaggio storico in una performance. Quello che ancora oggi provo a dipingere é un ennesimo ritratto o un ritratto all’ennesima. Per fare questo, non nascondo di servirmi spesso di fotografie altrui o meglio autoscatti rubati. Mi interessa come l’essere umano si rappresenta con la volontà di apparire in una specie di vetrina pubblica virtuale, costruendo di fatto una sorta di diorama della nostra civiltà. Di queste scenette intime regalate a chiunque é sempre la posa ad attrarmi e negli ultimi dipinti questo si vede molto. È chiaro però che la cosa non si ferma mai alla struttura umana e basta, ma si trasforma in qualcosa che strizza l’occhio alla sensualità, di qualsiasi tipo, ricordo a tutti che anche un’arancia guarda lo spettatore, e questo sguardo è inesorabile e affilato.
Uno dei quadri del 2022 in mostra presenta tre figure girate di schiena, o meglio che mostrano palesemente il didietro (come i migliori quadri di Caravaggio), una al centro eretta e due ai lati a quattro zampe. Il titolo é Dall’Oracolo. Un uomo fuma una sigaretta mentre esce da un ambiente polveroso passando tra due sfingi di spalle. Tutti sorridono. Tutti guardano lo spettatore ipotetico, io stesso come autore mi sento turbato.
Nei ritratti del 2020 la figura era nuda, pelosa e immersa in una natura costruita intorno a lei. Questo lo si deve principalmente alla mia passione per l’iconografia dei Santi, in particolare quella dei santi pelosi: San Giovanni Battista, Sant’Onofrio e Santa Maria Maddalena. Il titolo comune a tutti questi dipinti era Homo Sapiens Sapiens, ma non aveva nulla a che fare con le teorie sull’Antropocene, né credo di aver mai fatto riferimento a tematiche gender di alcun tipo, anche se poi sia maschi che femmine avevano baffi o attributi abbastanza miscelati.
Come molti pittori attuali, della storia sono interessato alla figura come musa e a come questa può assumere pose o forme nuove, diverse da quelle delle modelle di un tempo, perché diverso è l’intento, ma anche perché il pudore nella storia ha avuto un’involuzione e ora la nudità ricorda quella dell’idillio e della naturalezza del giardino delle delizie (Gan Eden).
Racconti biblici a parte, anche la Teosofia ci ha portato a credere che il corpo potesse unirsi allo spirito attraverso le pratiche degli yogi e questo ha creato tutto un ventaglio di posture che prima non facevano parte del nostra limitata mobilità da occidentali. Questo, al di là se si praticano o meno gli insegnamenti orientali, ci ha fatto scoprire anche quello che invece alcune dottrine chiamano sviluppo (non ginnastica).
Allo stesso modo, ma in maniera diversa, i nostri occhi si sono abituati a vedere nello spettro cromatico quotidiano, alcuni colori che prima non esistevano. Certo era noto che Gauguin potesse dipingere di rosso un cavallo, ma non é di questo che sto parlando, quanto della scomparsa di un’ampia gamma di colori (oggi considerati tossici) e della comparsa di altri, come quelli fluo per esempio che sono entrati di forza nelle nostre vite, sulle strade prima (nella segnaletica) e nell’abbigliamento poi (vedi Walter Van Beirendonck). Sulla mia tavolozza queste cromie si sono semplicemente posizionate di fianco agli altri colori, non é il fluo il mio cavallo di battaglia, semmai lo uso solo per creare più luminosità, ma questo i pittori lo sanno già. Un altro aspetto da tenere in conto é come la fisionomia del volto stia cercando di cambiare per essere al passo con i tempi, e già Terry Gilliam diversi anni fa ci aveva visto lungo sulla chirurgia estetica (Brazil, 1985). Tenere il passo é già complicato, figuriamoci precorrere i tempi o cercare di fregare la morte. Quella arriva, rimane l’unica vera certezza di questo mondo.
Per quanto riguarda il favolistico nei miei ritratti, non credo ce ne sia, semmai appunto c’è il medesimo sentimento di poter cambiare i connotati a qualcosa che nella pittura è stato fermo e inviolato (se non attraverso la maschera) per secoli: il volto umano. Mi ripeterò, ma la pittura si serve di codici, questi codici sono tutto quello che i pittori riescono a rendere unico, vedi le inesattezze anatomiche di Alice Neel, l’aspetto fumettoso di Philip Guston, le mani e i piedi giganti di Louise Bonnet, la scompostezza delle figure di Dana Schultz, le palme che fumano di Keith Boadwee, gli arti disossati di Salman Toor, il picassismo che avanza inesorabile.
EB: Oltre ai dipinti la mostra si apre anche alla tua produzione di ceramica. In particolare fai riferimento alla scoperta delle ceramiche artistiche di Seminara. Mi vuoi parlare di questa tua scoperta e l’influenza che ha avuto nella tua produzione?
LP: Si, la mia é stata proprio una scoperta in effetti, ho conosciuto l’estate scorsa Gennaro Condurso il figlio del più noto Paolo che é venuto a mancare. Paolo Condurso (insignito col titolo di Cavaliere) dal suo piccolo laboratorio a Seminara (ai piedi dell’Aspromonte), divenne famoso sia per la sua bravura che per un incontro fortuito con Picasso. Non ero a conoscenza di questo incontro, é stato Gennaro a raccontarmelo, io ero andato lì per i Babbaluti: dei contenitori d’acqua a forma umana in uso tra chi lavorava nei campi. Erano strumenti comuni in ceramica abbelliti con facce barbute e braccia a far da maniglie.
Nel 2008 avevo realizzato una scultura di legno d’ulivo composta da una testa barbuta e dei piedi attaccati al collo (una sorta di grillo medievale, dormiente), mi affascinava come qualcuno avesse lavorato in questo modo, in maniera completamente naif, creando una vera e propria produzione di pezzi tutti unici e utilizzabili. Vedendo dal vivo i Babbaluti non mi ha sorpreso che Picasso abbia detto a Paolo Condurso che aveva le mani d’oro e che di lì a poco, lui stesso, si sia messo a lavorare la ceramica con i risultati eccezionali che tutti conosciamo.
I miei Babbaluti sono volti in ceramica che hanno le caratteristiche tipiche del mio lavoro pittorico (quei codici di cui sopra) come nasi e menti allungati, orecchie a forma di conchiglia, escrescenze coralline frontali e piedi che sembrano mani. Di fatto per ogni scultura ho realizzato tre pezzi ceramici che poi vanno assemblati insieme come se fosse una marionetta appesa a un filo.
Per cui si tratta di una testa e due piedi penzolanti. I tre pezzi sono stati smaltati in maniera tradizionale come mi ha insegnato Gennaro, schizzando di varie tonalità la superficie. Il mio é stato sempre un lavorare vicino alla tradizione, alle origini. Sono un artista del mezzogiorno d’Italia, mi piacciono le storie, i fatti raccontati a voce e tutto quello che é in odore di santità.