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I (never) explain #153 – Pesce Khete

Ammetto di aver ripensato più volte a questo testo. Ne esistono varie versioni, con altrettante correzioni. Ogni riga ha subito mutamenti di ogni tipo, grafici e di senso. Ad un certo punto, cominciava ad essere chiaro che prima di prendere la forma di un testo di senso compiuto, la pagina si era trasformata in un […]

Pesce Khete, Untitled, 2022, 180×401 cm, oilstick, oil paint, acrylic, graphite, charcoal, soft pastels,linseed oil, argan oil, silicone and mashing taoe on cotton papar

Ammetto di aver ripensato più volte a questo testo. Ne esistono varie versioni, con altrettante correzioni. Ogni riga ha subito mutamenti di ogni tipo, grafici e di senso. Ad un certo punto, cominciava ad essere chiaro che prima di prendere la forma di un testo di senso compiuto, la pagina si era trasformata in un processo aperto, in un dialogo personale.

Giunto per così dire ad una certa maturità, per lo meno anagrafica, mi rendo conto di come sia arrivato a trattare ogni attività quotidiana allo stesso modo in cui mi relaziono alla pratica del disegno. Non più solamente la fotografia quindi, o la musica, si annodano e vivono di finalità parallele e più ampie, ma anche la scrittura, l’ordinare una stanza, il prepararsi una cena. L’arte si apre ad un’intenzionalità altra che finisce per plagiare l’autore.
Non seguendo più in prevalenza una sequenza di eventi logici o utilitaristici, i tempi si sono dilatati, le direzioni intrecciate. Il più delle volte, mi ritrovo a procedere per passaggi apparentemente incoerenti che sembrano nascere dallo scontro tra le possibilità del momento e una gradazione di divieti personali e culturali. La “correzione” è divenuta prassi, tornare più volte su un singolo lavoro è possibile. Paradossale, nel momento in cui per anni una delle poche ricorrenze era la necessità di procedere dall’alto verso il basso, accettando che l’errore venisse bilanciato e valorizzato dall’aggiunta di elementi successivi.
Anche in questo momento lascio di continuo in sospeso una locuzione scritta male, rinviando la correzione. Ogni frase determina la forma di una riga che potrei comunque ritrattare più avanti, se lo volessi. 
Avverto persino una certa soddisfazione nell’inciampare nella tastiera, aspettando che le parole sbilenche si sottolineano di rosso. È l’origine di una foga che mi porta a concludere un grande lavoro su carta, che passa attraverso una sorta di accoglienza del tedio.

Ricordo vagamente di aver letto di qualcuno (o forse ero io) che smetteva di lavorare quando sentiva di avere in pugno il momento, di essere entrato in completa sintonia con quanto stava per fare. O meglio, quando aveva in mano la sensazione di essere finito in quella zona calda in cui si prevedono le azioni necessarie per completare al meglio un lavoro. Riprendendolo il giorno successivo, ci si può riappropriare della dimensione dell’incertezza, ristabilire uno scontro ad armi impari, cercando l’affanno necessario al raggiungimento di risultati non prevedibili o controllabili.

Da qualche tempo il mio studio si è riempito di disegni interrotti allo stadio iniziale. Lavori di medie dimensioni che hanno deciso di concludersi sin dal principio. Oggetti che hanno mantenuto una purezza completa, ostinatamente conclusi nel loro essere ontologicamente “inizi”. Immagini dalla realizzazione felice, che si rifiutano di sorreggere il peso di una eventuale impalcatura successiva, di essere ausiliarie.
Nutro un certo rispetto nei confronti di questo piccolo esercito semplice in continua crescita, ed accolgo i nuovi arrivati come fossero testimoni di resistenza. Un modo di alleggerire il peso di alcune aspettative su me stesso. Lavori falsamente affermativi perché incorporano in loro stessi una risoluzione del conflitto, scevri da critiche dal momento che non hanno avuto modo di ripiegarsi su sé stessi, anche solo per mancanza di tempo.
Ho preso l’abitudine di fotografarli sempre a fine giornata prima di tornare a casa, e sono sempre più convinto della necessità, prima o poi, di farne una mostra.

Nel gennaio del 2022, tre lavori appartenenti a questo gruppo eterogeneo hanno cominciato a comunicare segretamente tra loro. Appoggiati in luoghi distanti ma non troppo dello studio, i tre fogli suggerivano una connessione segreta, un dialogo in grado di arrivare, unendosi, a formulare un discorso più profondo, inizialmente inarrivabile alla mia mente.
Ho così la sensazione che il lavoro sia stato concepito da un fratello evoluto, capace di abbracciare la complessità e ricomporla in un registro di natura superiore.
Ancora oggi, mi ritrovo spesso a guardare con sospetto un disegno che solo un paio giorni prima sembrava terminato.
Ultimamente poi, ho la sensazione che l’unico modo per frenare la tentazione di rimetterci le mani all’infinito sia quello di tornare ad apprezzare un lavoro come frutto irripetibile di un dato momento, necessario quanto parziale.

Studio di Pesce Khete
Pesce Khete – dettaglio

Ha collaborato Simona Squadrito*
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I (never) explain – ideato da Elena Bordignon – è uno spazio che ATPdiary dedica ai racconti più o meno lunghi degli artisti e nasce con l’intento di chiedere loro di scegliere una sola opera – recente o molto indietro del tempo – da raccontare. Una rubrica pensata per dare risalto a tutti gli aspetti di un singolo lavoro, dalla sua origine al processo creativo, alla sua realizzazione.

Hanno contribuito alla rubrica Zoe De Luca, Simona Squadrito e Irene Sofia Comi