L’immagine generata da un software, l’immagine soft, digitale, algoritmica, computazionale, operativa, non umana, in rete, non è più un elemento solido e finito, bensì mutevole, legato a processi che si intersecano con le rimediazioni tecnologiche attuali e non. ‘Augmented Images’ è il titolo di questa rubrica di Sara Benaglia e Mauro Zanchi dedicata alle immagini che, a torto o a ragione, sono escrescenza di un fotografico zombie, che risponde dalla sua vita ultraterrena. Il nome della rubrica è nato davanti a un caffè con Elisa Medde, nel paese natale di Andrea Zanzotto.
Sara Benaglia / Mauro Zanchi: In occasione del ventesimo compleanno del tuo progetto Cookie Portrait (2002-2022), lo hai ripresentato in una installazione sul sito della OPR Gallery. Molto prima che i cookies venissero regolati dalla GDPR hai iniziato questo lavoro in cui identità online, privacy e capitalismo della sorveglianza si intrecciano in modo apparentemente irreversibile. Sostanzialmente la tua installazione genera un file di testo, un “Cookie Portrait”, che viene inviato alla persona che ha visitato il progetto online. Questo ritratto comprende sistema operativo in uso, indicazione sul tipo di device da cui è stato effettuato l’accesso, indirizzo IP, browser, e altri dati tra cui lo statement del progetto e un numero sequenziale. Nella cultura umanistica le immagini sono sempre state interpretate attraverso la rappresentazione. Ma i tuoi ritratti seguono una logica diversa, in cui la “realtà” è definita attraverso altri codici e segni.
Ci puoi parlare di questo scacco e di che cosa può essere per te un’immagine oggi?
Carlo Zanni: Ho sempre voluto installare un lavoro sul sito di una galleria, ringrazio OPR per avermi dato questa possibilità, perché non si tratta soltanto di aggiungere un link a un comunicato stampa.
Al tempo il mio statement era semplicemente “dipingo paesaggi e programmo ritratti”. Volevo provare a indagare la moltitudine di identità temporanee digitali che potevano essere attivate grazie al web. Provare a ritrarre una persona non tanto nel suo aspetto fisico ma piuttosto rintracciando frammenti della sua mutevole personalità online; e ottenendo immagini performative instabili che sono più simboliche e concettuali che realistiche, e che invitano lo spettatore a guardare oltre la superficie e a scoprire significati più profondi.
Cookie Portrait fa parte di una serie di lavori che riunii sotto il nome di “New New Portraits” ispirato dal titolo del libro di Michael Lewis “The New New Thing”.
Sotto questo nome possono essere compresi anche una serie di ritratti fotografici online in bianco e nero, più o meno dello stesso periodo, dove la persona ritratta serviva solo da “ospite zombie” per le immagini che inserivo nelle loro pupille: decine di pixel colorati e cliccabili che venivano periodicamente aggiornati, mostrando nuovi colori e nuove immagini al loro interno.
Questi pixel colorati infatti non erano pixel statici, ma immagini prese dal web in tempo reale, interrogando Google con parole chiave decise dalla persona ritratta, e/o dagli utenti online, e ridimensionate a 1×1 pixel. Cliccando sui pixel che formavano le pupille si aprivano delle finestre con le immagini ingrandite e in continuo cambiamento.
Anni fa ti avrei risposto che un’immagine poteva anche essere un indirizzo IP, o una password di un servizio online. Oggi dopo anni di “lavaggio retinico” da social e l’avvento di AI di ogni tipo, poco rimane del mondo che non sia un’immagine. Che non nasca come immagine. Anche il dolore nasce prima come immagine.
SB / MZ: Hunp1ng (2018) è una serie di sculture in argilla dal sapore militaresco, pensate per nascondere la webcam di un computer invece del solito scotch, per proteggere la nostra privacy, le nostre anime (il che sembra riprendere la credenza secondo cui quando veniamo fotografat* la nostra anima viene intrappolata in un’altra dimensione o ne viene prelevato un frammento a ogni scatto). Come è nato questo progetto?
CZ: La privacy è forse oggi la cosa più vicina al concetto di anima. La privacy è diventata un concetto sfuggente, mistico-religioso. Ci si chiede che senso abbia ancora, ma è bene ricordare le parole di Edward Snowden: “Sostenere che non ti interessa il diritto alla privacy perché non hai nulla da nascondere non è diverso dal dire che non ti interessa la libertà di parola perché non hai niente da dire”.
Le dimensioni, la fragilità e la forma simile a un bunker militare di Hunp1ng ricordano la natura stessa della privacy che oggigiorno richiede uno sforzo per essere preservata e una strategia per essere difesa.
È un lavoro nato in seguito a un insieme di sensazioni che si sono stratificate negli anni, se dovessi riassumere direi sicuramente la paranoia di poter essere ripresi a nostra insaputa tramite la webcam apparentemente spenta del computer e lo scandalo Cambridge Analytica, quando si è tornato (o iniziato) a parlare di privacy soprattutto legata ai social nella comunicazione di massa.
“Privacy” un tema che ritorna di tanto intanto nei miei lavori. Cookie Portrait, 2002; Self Portrait With Dog, 2008; Hunp1ng, 2018. Hunp1ng, tradotto come “vaso dell’anima”, è un tipo di urna funeraria che si trova spesso nelle tombe della dinastia Han e in particolare dei periodi delle Sei Dinastie della prima Cina imperiale.
Veniva deposta in una tomba insieme a cibi e bevande, sperando che l’anima del defunto tornasse a risiedere nell’urna, entrando attraverso delle feritoie che sembrano condurre direttamente nella scultura/urna.
Allo stesso modo, Hunp1ng (creato per essere inserito su un iMac del 2011) oscura la webcam del computer e protegge la tua privacy: la tua anima può essere al sicuro e può “tornare a risiedere nell’urna”. È un’opera multisensoriale che si fruisce con occhi, naso (l’incenso che brucia nella camera superiore) e bocca (il piccolo elemento edibile nella camera inferiore).
SB + MZ: Cosa rappresenta ora per te la riproduzione del reale, nell’era delle macchine tecnologiche dotate di intelligenza artificiale sempre più sofisticata?
CZ: Siamo all’inizio di una nuova era dove immagini, parole, suoni e voci, saranno creati per i più svariati motivi da AI sotto steroidi anabolizzanti alimentate da distese di computer quantici. Presto ci chiederemo se quel selfie apparso come un fantasma online l’abbiamo veramente scattato noi, se siamo mai stati in quel dato posto, se abbiamo mai detto quelle parole.
Dovremo imparare a difenderci dalle migliaia di noi stessi. Bot zombie che vivranno di vita propria.
Come autore non sono interessato a riprodurre il reale quanto ad indagarlo. A testarne chiavi poetico-interpretative. Non mi sento (e non credo che l’arte in generale lo sia), in competizione con nessuna tecnologia. Con nessun meme merdoso, o video virale da miliardi di click, con immagini fotorealistiche generate da sofisticate AI senzienti, o con l’ultima tecnologia che sarà sempre più intelligente e brava di me. Il mio lavoro, il mio intento non è essere bravo, non è essere intelligente. Non uso mai il cervello. Se lo usi sei finito.
SB / MZ: ZANNI (Ẓ)(2018) è una criptovaluta a cui hai dato il tuo nome. Nel progetto c’è l’idea che tu come artista e il prezzo collassiate all’interno dello stesso oggetto etereo, per poter entrare in uno scambio commerciale. Questa idea di un mercato che al suo apice contratta dei sé numerici è un dramma che hai sviluppato in più atti. Come è articolato il progetto?
CZ: È una trilogia incompiuta che celebra il mio rapporto con i soldi e l’arte. Volevo fare un’opera che iniziasse e finisse con una transazione, numeri che danzano goffi su uno schermo.
La moneta: identità, prezzo e opera; una chat automatica per il vanto tra collezionisti della moneta stessa, dove il vero successo si misura a colpi di perdite rilevanti a breve termine; e una traccia audio asmr che recita il codice di programmazione della moneta, trasformando di fatto una formula matematica che gestisce il ciclo vitale di una moneta, in una rilassante “scossa” cranio spinale.
SB / MZ: Come ti rapporti con l’attuale mondo delle immagini aumentate, delle fotografie digitali mediate dalla cultura computazionale e di Rete?
CZ: Parecchi anni fa parlavo con John Simon Jr. nel suo studio a New York. Lui fece questo lavoro, Every Icon, nel 1996, un programma che esplora ogni possibile combinazione di pixel bianchi e neri in una griglia 32×32. In quegli anni, 32×32 pixel era il formato standard delle icone del desktop, quelle che io dipingevo o usavo come base per dei micro ritratti.
Lui scrive a proposito del proprio lavoro: “Può una macchina produrre ogni possibile immagine? Secondo Every Icon la risposta è sì, ma il processo richiede più tempo dell’età dell’universo. Ho scritto Every Icon perché volevo scoprire immagini che non potevo immaginare. Ho pensato che i computer potessero essere addestrati a trovare queste nuove immagini. Ciò che Every Icon chiarisce abbondantemente è che il calcolo non risolverà il problema di decidere quali immagini sono belle e interessanti. Quel lavoro appartiene ancora agli umani”. — fonte —
Parlavamo che la stessa idea sarebbe potuta essere applicata a un’immagine a colori e anche a un filmato. Producendo tutte le immagini e i film immaginabili (ma anche testi, composizioni audio….)
Una macchina infinitamente potente che possa avvicinarsi a questo incredibile risultato. AI e computer quantici vanno in questa direzione, non solo, elimineranno in partenza qualsiasi rumore: immagini prive di senso, errori, noise, monocromi. Selezioneranno alla fonte il materiale adatto ad avere un impatto sulla società attuale, su di te, con affinamenti al nanosecondo.
In quest’ottica per me l’idea stessa di immagine ha perso interesse e potenzialità. O quanto meno, è il mio modo di relazionarmi, cerco, per quanto impossibile, di non prestarci troppa attenzione, provo a non dare alle immagini priorità nella mia vita.
SB / MZ: Nel 2017 hai scritto il libro Art in the Age of the Cloud. Se l’arte che realizzi è un file, cosa vendi? Come lo vendi? A quanto lo vendi? Ma soprattutto: che cosa pensi di quel fenomeno magmatico che è la crypto-art?
CZ: L’NFT è semplicemente un sistema di vendita. Ma dalla narrazione che ne è stata fatta sembrava fosse un medium, come la pittura. Se vuoi vendere una JPEG puoi farlo in molti modi. È più una scelta politica, come ti poni nei confronti di quello che fai, e come il metodo di vendita impatta sulla natura dell’opera e sulla sua circolazione.
Chi percepisce “un’estetica” della cryptoarte lo fa perché la mole di persone che disegnano “bene” secondo canoni estetici accettati e digeriti che si è riversata sui vari marketplaces è enorme .
Per fare solo un esempio Deviant art che è una comunità di illustratori, ma non solo, ha circa 61 milioni di iscritti con 360 milioni di immagini caricate. Se una frazione fa NFT la percezione del mondo NFT che hai è che sia simile alla comunità di Deviant art. E se i mass media, ma anche alcuni addetti ai lavori improvvisati esperti di “art digitale”, fanno passare l’idea che la “nuova arte” sono gli NFT, il danno è fatto.
SB / MZ: Il mercato dell’arte accoglierà definitivamente gli NFT?
CZ: Il mercato dell’arte è sempre stato molto scettico nell’attribuire prezzi alti a opere la cui scarsità non può essere dimostrata fisicamente. Con la blockchain, al momento, certifichi la legittima proprietà di un file, ma il file verso cui punta il token rimane sempre pubblico. Nel digitale non c’è differenza tra originale e copia. E questo basta a minare la certezza della scarsità reale.
La Videoarte, nonostante sia nata su supporti analogici, ha sofferto di questa problematica fin dall’inizio, nonostante alcuni visionari tentativi di provare vie alternative, come ad esempio nel caso di “Castelli / Sonnabend Videotapes and Films”. Soprattutto dopo l’avvento del digitale, i video d’arte non si vendono bene quanto si potrebbe pensare; quando vendono, i prezzi sono più bassi rispetto a opere più tradizionali come i dipinti, e non vengono portati all’asta molto spesso (di nuovo, con modesti risultati di aggiudicazione).Questo accade perché il mondo dell’arte non si è mai avvicinato alla Videoarte come avrebbe dovuto. La Videoarte viene solitamente venduta in una piccola tiratura di 5-7 copie, come se fosse un oggetto fisico. Invece potrebbe essere venduta e distribuita come un normale DVD per visione privata, e a prezzi molto superiori con una licenza che ne gestisce i diritti associati (diritti di rivendita, d’uso, di show, crediti di produzione…).
Quello che vedo accadere con gli NFT, tranne alcuni casi, è molto simile: è un altro tentativo di creare una gabbia attorno a un media nato per replicarsi e disseminarsi.
SB / MZ: Come siamo arrivati fin qui?
CZ: Questo capitolo è iniziato fuori dal mercato dell’arte, nel regno del collezionismo, e poi è stato certificato da Christie’s. Quello che è successo, la vendita di Beeple intendo, è qualcosa di straordinario, ha un significato storico. È auto-rivelatore.
Mentre la narrativa principale afferma che ci sono (stati?) centinaia di collezionisti che spendono milioni di dollari in JPEGs satiriche e vernacolari sotto forma di NFT, la realtà è diversa. Nessuno sta davvero scambiando centinaia di migliaia di FIAT con Ether per acquistare cryptokitties o milioni per acquistare Beeples. Questi presunti collezionisti fanno parte di un gruppo di persone del settore tech/fintech che si sono lanciate molto presto nelle criptovalute, accumulando enormi quantità di denaro virtuale quando il mining era economico e nessuno prestava attenzione. Questo è il motivo per cui l’asta di Christie’s ha fatto circa 42.329.453 ETH in totale, e non $ 69 milioni di dollari. Si potrebbe pensare che sia lo stesso, ma non lo è.
Ovviamente, come affermato da David Gerard, alcuni possessori di cryptokitties sono solo “possessori annoiati di ether […] di cui avevano troppo per incassare facilmente”. Ma i vincitori dell’asta dell’opera di Beeple sono imprenditori di Crypto DeFi con un progetto in mente. Così come Justin Sun, fondatore del protocollo/blockchain TRON, che ha perso all’asta il pezzo di Beeple per una manciata di secondi. Al lavoro, in quella singola asta, per quel singolo lavoro, c’era una forza economica di quasi 80.000 ETH.
È chiaro che gli acquirenti di Beeple hanno tentato uno schema Pump and Dump per far volare il loro token B20 (una criptovaluta coniata da loro) ed essere adottato dalle masse. Da un certo punto di vista, è tutto fatto alla luce del sole. Il mecato dell’arte, storicamente, non ha fatto una cosa simile per aumentare i prezzi delle opere di un artista? Ma quello che mi colpisce è il tipo di storia che ci viene raccontata. — fonte —
Twobadour Paanar di Metapurse (uno dei due acquirenti) ha dichiarato in una intervista: “[…], la vendita di 69 milioni è culturalmente molto significativa, perché in un colpo solo, ha ribaltato molte nozioni sull’”arte alta”, su chi può essere un tastemaker in questo mondo, su cosa sia l’arte. Tradizionalmente, l’arte digitale, per molto tempo, non è stata affatto considerata arte. — fonte —
Twobadour Paanar parla da esperto critico d’arte. Può farlo? Ovviamente, tutti glielo abbiamo permesso. Arte, artista, arte digitale: che significato hanno queste parole? E soprattutto, a chi importa ancora di queste parole? Ma come siamo arrivati fin qui?
Fammi tornare indietro per un secondo. La nostra società sta crescendo su piattaforme basate sulla cosidetta FOMO (Fear Of Missing Out) come Facebook, Twitter, Instagram e simili. Queste piattaforme non hanno memoria storica, sono state progettate per impedire l’organizzazione del pensiero e la ricerca delle attività passate; sono state progettate per facilitare la pubblicazione e interferire con la lettura (o impedirla).
Siamo una società che non ha sviluppato alcun senso critico perché questo richiede tempo, anni, uno sforzo enorme e la capacità di ascoltare; e questo non paga al giorno d’oggi. Così facendo, siamo diventati una società che ama o odia tutto e tutti; dove ognuno ha il diritto di fare e di dire tutto perché la posta in gioco è stata risucchiata nella polarizzazione infantile (e dall’intercambiabilità, perché non c’è memoria) di un sì o di un no.
Le fake news non sono solo propaganda, sono notizie fatte da tutti per tutti. I meme è arte fatta da tutti per tutti. Tutto è uguale, tutto deve essere semplicistico e veloce. Gli speculatori di criptovalute stanno solo capitalizzando il risultato di una società basata su notizie false e cultura dei meme, e stanno sfruttando ciò che noi – come società – abbiamo mostrato loro: il valore culturale è sempre determinato dal suo prezzo.
Quando parli in nome dell’arte, colpisci le persone nei loro cuori, perché collegano inconsciamente l’arte all’idea di libertà, espressione di sé, e creatività. Tutti vogliono essere liberi e liberi di esprimersi. Così qualunque cosa tu faccia è arte, e l’abbiamo acquistata per 69 milioni, quindi ora compra i nostri token e conia i tuoi NFT.
Ovviamente, l’involucro artistico è una falsa pista, ma parla di come l’arte e la cultura siano state spremute e prosciugate riducendosi a un sì o un no, una sciocchezza, o un raccapricciante parcheggio logistico di un porto franco. Quando unisci i due, ottieni un successo internazionale.
Ma qui al lavoro non c’è alcuna ideologia. Per parafrasare Groucho Marx, questi turbo crypto capitalisti ci hanno mostrato i loro principi, e quando non ci piaceranno più, ne avranno altri.
SB / MZ: Nel 2008 la camera di Google ti fotografa mentre porti a spasso il tuo cane nei pressi del tuo studio. Quest’immagine ti ha ricordato l’opera futurista Dinamismo di un cane al guinzaglio (1912) di Giacomo Balla, e in qualche modo hai fatto ritornare la distribuzione temporale di un soggetto ignaro (la Time Machine di Street View) all’interno di un contesto discreto che è quello della pittura, per quanto non da te eseguita ma commissionata inviando una JPEG. Che controllo abbiamo sulla costruzione del nostro sé e che ruolo hanno le immagini digitali in questo?
CZ: È un lavoro che parla di questo. Della frizione tra la nostra identità e quello che la tecnologia decide per noi. Quello che la tecnologia ci fa diventare agli occhi degli altri, e di ritorno, di noi stessi. “L’enfer c’est les autres” come ha scritto Sartre.
Nel 2008 Google Street View aveva di fatto aperto un grande dibattito sulla privacy e su come le nuove tecnologie stavano iniziando ad interferire “visibilmente” sulla nostra quotidianità. In alcune nazioni il servizio di Google era stato bloccato e in Germania è ancora pressoché assente.
In questo lavoro il mio controllo è stato solo nel ribattezzarlo self-portrait, ribaltando di fatto un ritratto imposto, nell’idea di uno creato da me, anticipando le attività di autorappresentazione digitale, e la loro impercettibile perdita di controllo, che hanno iniziato a ridefinire il reale da lì a poco.
Avremo sempre meno controllo, per questo credo sia necessaria una forma di educazione, soprattutto per le nuove generazioni. Essere consapevoli è fondamentale. Ma per diventare veramente consapevoli ci vuole tempo e studio.
Stiamo vedendo ora l’impatto devastante che hanno avuto i social. La gente prova a disintossicarsi ma non ci riesce. Questo è niente rispetto a quello che ci aspetta.
SB / MZ: The Possible Ties Between Illness and Success (2006) è un esempio di quello che hai chiamato DATA cinema, ovvero un filmato renderizzato dal server che ogni giorno mostra i cambiamenti dovuti ad alcuni dati recuperati da Internet. Quali sono questi dati? Come sono gestiti nel film, se di film possiamo ancora parlare?
CZ: È un micro film a tutti gli effetti, nel mio intento non c’era l’idea di stravolgere l’impianto narrativo ma di tentare di mantenere il più possibile un’unità narrativa classica e per certi versi già vista e digerita.
Il cortometraggio vede un uomo sdraiato a letto, la sua pelle ricoperta da decine di macchie la cui quantità e posizione dipendono dal numero di utenti – e dal loro paese di origine – che hanno visitato il sito web che ospitava il lavoro. Quando il progetto era online non c’era modo di guardare il film senza visitarne il sito web. In questo modo il pubblico aggiungeva la sua presenza sul corpo dell’attore sotto forma di macchie della pelle, contribuendo alla diffusione della malattia.
Più pubblico, più successo, più macchie. Il server aggiungeva man mano i dati dei visitatori del giorno prima fino a fine mese e poi ricominciava da zero.
Questo progetto accenna alle relazioni tra le forme di malattia maniaco-depressive e il successo in generale e parla anche del difficile equilibrio tra privacy e presenza pubblica che in quest’epoca di esposizione continua è diventato una negoziazione quotidiana.
SB / MZ: Per vendere The Possible Ties Between Illness and Success (2006) avevi installato i film in un iPod. È ancora funzionale? Come ti relazioni all’archeologia mediale, all’invecchiamento precoce dei lavori strettamente legati alla tecnologia?
CZ: Sì, avevo usato un iPod anche se era irriconoscibile perché inserito in un apparato scultoreo. La scelta che avevo fatto al tempo teneva conto dell’invecchiamento precoce, l’alternativa (da capire, date le dimensioni ridotte) sarebbe stato un hardware di produzione propria. Entrambe le soluzioni hanno vantaggi e svantaggi. In linea teorica, quando si può, oggi sono per non utilizzare nessun hardware, o comunque non vincolare l’opera a un hardware specifico se visibile.
Al tempo l’iPod mi sembrava una scelta accettabile perché ne sono stati prodotti milioni e se ne trovano ancora in vendita. Per quanto riguarda l’invecchiamento dei lavori che usano tecnologie, è una caratteristica che hanno un po’ tutti i miei lavori online. Che hanno un po’ tutti i progetti online. Devi accettarlo.
So già in partenza che i lavori smetteranno di funzionare, è molto frustrante, ma nella mia testa è altrettanto bello vedere questi lavori autogenerarsi, filtrare il mondo, nutrirsi della nostra vita recuperando dati di terze parti in giro per il web. Anche se per poco tempo. È la mia versione dell’interattività, che solitamente non prevede una interazione via click sul lavoro, ma un’interazione tramite la propria vita.
Ho sempre pensato ai miei progetti online come a delle “birth machines”, dei sistemi, delle performances basate sul codice che davano vita al lavoro che si trasformava nel tempo. Una volta lanciati online questi lavori producono migliaia di immagini alle volte salvati in database, alle volte perse per sempre. Migliaia di immagini o versioni di un’opera che non ho mai visto neanche io.
E come tutto inizia e finisce, nasce e muore. Di tanto in tanto riesco a resuscitare qualche progetto, con qualche cambiamento, e litri di filler.
SB / MZ: Average Shoveler (2004) è un gioco online, commissionato da Rhizome.org nel 2004, in cui continua a nevicare. Un giocatore deve mantenere la strada pulita da innumerevoli fiocchi di neve, a ciascuno dei quali è associata un’immagine presa in tempo reale da canali di notizie. La sfida tra videogioco e immagine fotografica è netta in questo progetto. Chi ha vinto?
CZ: Volevo che alla base del lavoro, a livello estetico, fosse chiara la dicotomia tra finzione e informazione, tra l’estetica 8-bit e le immagini fotorealistiche prese da canali di news. Sei immerso in un videogioco ma “giochi” con la realtà. Vince sempre la realtà, le immagini fotografiche che ti sommergono nonostante i tentativi di spalare. Ma era anche un modo per sollecitarci tutti a spalare il nostro vialetto, la nostra via personale in questo mare magnum di notizie e immagini, piuttosto che riceverle passivamente.
Era un lavoro pre-facebook, ma già in quel periodo mi sembrava si iniziasse a sentire forte e chiara un certa pressione, quotidiana e costante, dei media online, dai quali difficilmente riusciamo ad affrancarci.
SB + MZ: Uno dei tuoi primi progetti è stato DTP ICONS PAINTINGS (2000), una serie pressoché smisurata di dipinti di icone desktop e loghi software* (tra cui Napster, Bear Share, Photoshop, Java, Explorer, Red Hat Linux, Adobe) del tempo incentrata sull’interfaccia grafica utente (GUI). Oggi quali loghi rappresenteresti? E se nel 2000 ti riferivi a questo lavoro in termini di paesaggio, potresti vedere in esso una costruzione temporale oggi?
CZ: Hai ragione sul fatto che il mio progetto DTP ICONS PAINTINGS, iniziato intorno al 2000, si concentrava sull’interfaccia utente grafica (GUI) e sul modo in cui stava rivoluzionando il modo in cui interagiamo con i computer e accediamo alle informazioni. Ero interessato a esplorare come queste icone e loghi, come Napster, Bear Share, Photoshop, Java, Explorer, Red Hat Linux e Adobe, stessero contribuendo ai rapidi cambiamenti nel nostro mondo e modellando la nostra società.
Come hai sottolineato, le icone del desktop e gli sfondi che ho dipinto anche in questa serie fungono da mappa digitale per l’utente e possono essere visti come una forma di genoma sociale. Ero interessato a visualizzare e archiviare questi elementi su tela come a un modo per documentare e riflettere sull’impatto che stavano avendo sulla nostra vita quotidiana.
Per quanto riguarda il mio approccio artistico, ho scelto di dipingere queste icone e loghi così come i nostri occhi li vedono sullo schermo, piuttosto che copiarli pixel per pixel così come sono programmati. Questa scelta è stata estetica, ma riguarda anche il concetto di percezione e il modo in cui la nostra esperienza (al tempo) desktop filtra e rispecchia il mondo che ci circonda.
Per quanto riguarda la tua domanda su quali icone del desktop, loghi software o app del telefono rappresenterei e disegnerei oggi, probabilmente includerei quelli che sono attualmente popolari e ampiamente utilizzati, come Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft (eh? ma vaffanculo chatGPT ). Queste aziende e i loro prodotti sono diventati parte integrante della nostra vita quotidiana e hanno un impatto significativo sul modo in cui interagiamo e accediamo alle informazioni.
In termini di costruzione temporale del mio progetto DTP ICONS PAINTINGS, credo che abbia ancora rilevanza oggi in quanto documenta un momento specifico nel tempo e i progressi tecnologici che stavano avvenendo allora. Il panorama della tecnologia continua ad evolversi, ma l’impatto della GUI e il modo in cui ha cambiato il modo in cui interagiamo con i computer e accediamo alle informazioni rimane rilevante oggi.
SB / MZ: Come funziona WTC memorial (2001)? Sai che la maggior parte delle immagini fotografiche che abbiamo dell’11 settembre sono state registrate con pellicola analogica?
CZ: È un instant-work fatto all’indomani della caduta delle torri gemelle. Lavoravo con le “immagini non caircate” già da un po’, ne avevo fatti anche il soggetto di una serie di quadri che fanno parte del primissimo ciclo. WTC memorial sono due semplici immagini rettangolari al centro dello schermo, con una piccola icona della “broken image” che cambia forma e dimensione a seconda del browser che utilizzi per visualizzare la pagina. Con Chrome ad esempio ora si vedono due piccole icone spezzate che raffigurano un paesaggio, mentre con Safari c’è un punto interrogativo al centro di ogni rettangolo. Ognuno ne può percepire il senso come meglio crede.
Non ci avevo mai pensato ma ha senso perché non c’erano ancora né macchine professionali digitali, né smartphones con fotocamera.
SB / MZ: Tra la visione precostituita (ereditata) e quella appresa (nel tempo), tra ricostruzioni della realtà attraverso abitudini del pensiero o azioni di routine e la attuale massiccia presenza delle tecnologie e delle elaborazioni macchiniche, come ti rapporti con il complesso mondo delle immagini fluide?
CZ: Abbiamo fatto esercizio con fake news, con cloni digitali autoalimentati per puro vanto; con immagini generate da algoritmi per essere lette da altri algoritmi. Trainings, trackings, oscene registrazioni in larga scala. ECHELON come Montauk: an eight-hour sci-fi horror epic.
Con l’AI pronta ad invadere i mercati rionali, dopo decenni di avvicinamento siamo al punto finale dell’abbraccio mortale tra finzione e informazione. The Little Review, era una rivista di arte e letteratura fondata nel 1914, il cui sottotitolo recitava: “a magazine of the arts making no compromise with the public taste”. Oggigiorno è ancora fondamentale non scendere a compromessi con il nostro gusto personale.
SB / MZ: Dopo tutto quello che abbiamo evocato in questa intervista, come possiamo ricalibrare il visivo alla luce del cambio di statuto delle immagini?
CZ: Nell’impossibilità di sapere cosa ci troviamo davanti, chi sta scrivendo, chi sta parlando, credo sia necessario ricalibrare noi stessi: in un normale computer tutto è descritto da lunghe sequenze di 0 e 1, fondamentalmente acceso e spento. Lo è o non lo è. Vedi o non vedi, sei o non lo sei.
Questo ha influenzato la nostra mente al punto che inconsciamente siamo sempre alla ricerca di un sì o un no. Pensa a questo modello come a una candela. Ma il futuro dei computer sono i computer quantici: una lampadina, che non è esattamente solo una candela più grande. Funziona in modo diverso.
Nei QBits, i bit quantistici, 0 e 1 possono esistere contemporaneamente in qualcosa chiamato superposition, esistono cioè in una combinazione di 0 e 1, una specie di limbo. Ad esempio possono esistere con il 20% di probabilità di essere 0 e l’80% di essere 1: ciò significa che il loro stato, la loro identità, è su uno spettro.
Dobbiamo sforzarci di essere la moneta per aria che gira, e non semplicemente testa o croce. Questo può renderci meno alienante il nuovo mondo alle porte. Accept & Decline
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Carlo Zanni, Gennaio 2023