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Performing textile | La residenza Living Room a Cuneo – Intervista con Nicola Genovese e Agathe Rosa

Gli artisti tornano nelle botteghe. Grazie al progetto Living Room – curato da Andrea Lerda e promosso dall’associazione Art.ur di Cuneo – quattro artisti sono stati selezionati per dialogare con quattro realtà di Cuneo legato al mondo della moda e del tessuto. Dopo aver indagato il tema dell’architettura, le residenze di  Chiara Camoni, Nicola Genovese, […]

© Nicola Genovese

Gli artisti tornano nelle botteghe. Grazie al progetto Living Room – curato da Andrea Lerda e promosso dall’associazione Art.ur di Cuneo – quattro artisti sono stati selezionati per dialogare con quattro realtà di Cuneo legato al mondo della moda e del tessuto. Dopo aver indagato il tema dell’architettura, le residenze di  Chiara Camoni, Nicola Genovese, Daniel González e Agathe Rosa si sono sviluppate dentro a degli spazi produttivi: la storica Cappelleria Cerati della Famiglia Cerati; il negozio Pas de Mots di Rossella Campisi e la sua collega Karin Holzmann; la storica boutique Senza tamburi né trombette dello stilista Osvaldo Montalbano; il negozio Nicouture dalla sarta Nicoletta Giuliano. 
I temi indagati dagli artisti durante la residenza – che quest’anno prende il titolo di Performing textile – hanno origine dalle numerose simbologie legate al tessuto, considerato sia nella sua dimensione materica sia in quella concettuale. In occasione di questo nuovo appuntamento, che vedrà l’apertura al pubblico nelle giornate del 21-22-23 ottobre, abbiamo posto alcune domande agli artisti per capire come hanno vissuto questa residenza, come affrontano il tema e, non ultimo, come si sono relazionati con i luoghi che li hanno ospitati. 

Seguono alcune domande a Agathe Rosa, che ha dialogato con la Famiglia Cerati della storica Cappelleria Cerati e a Nicola Genovese che ha incontrato lo stilista Osvaldo Montalbano della storica boutique Senza tamburi né trombette. 

ATP: ATP: Quest’anno le residenze del progetto Living Room si svolgono in quattro realtà cuneesi legate al mondo della moda e del tessuto. Mi raccontate come vi siete relazionati a un materiale duttile e altamente simbolico come il tessuto?

Nicola Genovese: Il tessuto è uno dei materiali principali della mia pratica artistica. È essenzialmente un strumento per realizzare sculture soffici, un metodo usato fin dagli arbori della Fiber Art, nel dopoguerra, principalmente da artiste donne. Le sculture soffici mi danno la possibilità di lavorare sugli aspetti simbolici della mascolinità. In generale mi piace usare il tessuto, da quello glitter utilizzato per i costumi di carnevale a quello raffinato per l’alta moda, in combinazione con materiali come il metallo e la ceramica per creare tensioni inaspettate.

Agathe Rosa:  Ho sempre considerato ciò che fa confine (fra due elementi, due stati, visioni,..) come uno spazio in sé, un luogo di risonanza e di dialogo. Nel mio ultimo anno di Scuola di Architettura, mi sono resa conto che quello che mi interessava non era tanto costruire dei confini perenni, ma piuttosto le interazioni con le forze invisibili che c’erano dentro. Così ho iniziato a costruire delle strutture gonfiabili in tele traslucide che permettevano di osservare dall’interno il movimento del vento e l’evoluzione cromatica della luce naturale del luogo in cui s’installavano (Photonics, 2010-2013). Il muro, diventato duttile e sensibile, si era trasformato in un supporto di informazioni visibili, luogo di studio e di interazioni con l’inafferrabile. Poi ho proseguito questa ricerca con la realizzazione dell’installazione  «Ce qui pourrait-être» nel 2018 e che ha preso posto alla Galerie Zoème di Marsiglia, uno spazio dedicato alla fotografia e alla poesia. Lì, il tessuto mi ha permesso di ridisegnare lo spazio e di trasformarlo completamente. Il movimento degli spettatori sul pavimento di un mezzanino animava una forma di luce proiettata su un tessuto sospeso. L’intero spazio era diventato una superficie sensibile. Come una pellicola fotografica, potevamo osservare il meccanismo di apparizione di un’immagine, le sue primizie. Il tutto si accordava armoniosamente con un’installazione sonora realizzata da Clara de Asis. Nel 2020 ho realizzato «Être ciel», a seguito di una residenza alla Chartreuse di Villeneuve-Lez-Avignon. Questo abito fa eco alla tunica indossata dai monaci certosini – e cucito a mano – il suo motivo si ispira di un’incisione di Flammarion. Qui, il tessuto diventa supporto dell’immagine con tutta la sua simbologia e, una volta indossato, permette una trasfigurazione del nostro spazio intimo che si sposta insieme a noi. Diventiamo allora noi stessi spazio e luogo di interazione. Il tessuto è per me un medium fantastico con infinite potenzialità perché è sia contente che contenuto, simbolo e supporto d’immagine. È anche un mezzo che ha la possibilità di dispiegarsi su larga scala per un momento per poi ritirarsi e occupare poco spazio in seguito. Altro aspetto importante per la mia ricerca, il fatto che sia riutilizzabile.

ATP: Sei entrato lo stilista Osvaldo Montalbano della storica boutique Senza tamburi né trombette. Cosa ti ha affascinato del suo lavoro? C’è un aspetto della sua professione che hai riscontrato affine al tuo modo di lavorare? 
Nicola Genovese: Con Osvaldo ho avuto delle conversazioni molto interessanti dall`identità di genere fino al made in Italy. Ricordo in particolare una chiacchierata sulla differenza tra l’abito scultura scomodo o impossibile da indossare e l’abito scultoreo che resta abito. Osvaldo costruisce i suoi capi unici tenendo questo in mente. Per lui il tessuto è al servizio del corpo. Nel mio caso la scultura problematizza il corpo in modo più o meno diretto. Questo è stato il punto di partenza per lo sviluppo della performance che spiegherò più avanti.

Agathe Rosa – Oasi della Madonnina

ATP: Hai dialogato con la Famiglia Cerati della storica Cappelleria Cerati. Cosa ti ha affascinato del loro lavoro? C’è un aspetto della loro professione che hai riscontrato affine al tuo modo di lavorare?

Agathe Rosa: La famiglia Cerati è nel mondo del cappello da generazioni. E il luogo in cui lavorano è carico di storia: il negozio risale a 150 anni fa e tutti i mobili sono stati fatti su misura! Da allora non si è più mosso. È un patrimonio che la famiglia sostiene, protegge e promuove. C’è una vera trasmissione di conoscenze relativo al mestiere ma anche un modo particolare di guardare al mondo, alla società.  Il legame che l’architettura e lo spirito di un luogo mantengono con i suoi utenti mi ha affascinata. Spingere la porta di questo negozio permette di accedere letteralmente ad un’altra dimensione, un’altra epoca con tutto ciò che la costituisce. Ed è una volta immersi in questo spazio-tempo remoto che ci rendiamo conto del movimento e delle trasformazioni della realtà che si sono svolte all’esterno. Il luogo, eppure ripiegato su se stesso, interroga il mondo in tutta la sua grandezza. Il cappello diventa qui un legame simbolico tra due spazi con delle temporalità e dei linguaggi diversi . E ciò che trovo simile nel mio modo di lavorare è questo: dover guardare le cose e il mondo con un’altra attenzione. Accedendo al silenzio e al tempo lento diventa possibile di dissociare le cose, estrarre degli elementi che altrimenti non vedremmo in altre circostanza. L’opera fa in questo senso legame, scuote e interroga ciò che ci sembra acquisito, conforta alcune emozioni, chiarisce e apre con il suo accesso all’intimo.

ATP: Mi raccontate come avete vissuto questa esperienza e cosa avete deciso di realizzate per il progetto?

Nicola Genovese: NG: La residenza è stata una bella esperienza e la possibilità di sviluppare un progetto site-specific estremamente stimolante. Il lavoro che ho in mente è composto da due elementi. L’atelier di Osvaldo rimarrà chiuso per usare la parte esterna. Voglio appendere due lavori che contengono dei rilievi in tessuto che riprendono una decorazione medievale che si ritrova sul muro opposto dell’atelier. Ho sviluppato i motivi originali creando una figura grottesca. Userò le strutture lignee delle vetrate esterne come cornice. I tessuti faranno da fondale all performance che vuole essere una sorte di rituale di vestizione dove un ragazzo mi coprirà con frammenti di ferro da me realizzati che formeranno un’armatura che impedirà di muovermi. Alla fine canterò una canzone d’amore.
Mi interessa esplorare ancora una volta La  mascolinità come struttura culturale ma anche soprattutto come corpo potente e grottesco allo stesso tempo.

Agathe Rosa: Ogni spazio diventa «luogo» appena è vissuto. Possiede allora un’identità che gli è propria, somma di una stratificazione più o meno grande di emozioni, di ricordi e di eventi. Per me, e nel mio lavoro, ogni luogo ha qualcosa da dire. Sono molto attenta e le informazioni che ricevo diventano un substrato per la mia ricerca.
La Cappelleria Cerati si è dimostrata come un luogo dove il mondo si condensa, isolato e che chiamava al silenzio. Una volta fuori dal tempo, in questo spazio infinito possiamo guardare la vita che si anima e che si trasforma davanti a noi. Il tempo è stato sospeso per così tanto tempo che questo spazio è diventato un punto di osservazione del mondo.  Durante il mio soggiorno a Cuneo ho trovato un numero incalcolabile di piume sul pavimento: come se la natura volesse manifestarsi all’interno della città stessa. Come se gli uccelli dicessero: anche questa è casa nostra! Ho seguito questa pista e ho avuto la fortuna di andare ad osservare, in compagnia di un naturalista, gli uccelli dell’Oasi della Madonnina. Partiti all’alba, ho contemplato la vita risvegliarsi dalle capanne della riserva naturale: l’alba e i suoi colori, le traiettorie e i canti dei volatili. Ripiegati, protetti, in agguato, abbiamo avuto accesso al più vasto, all’infinito delle possibilità e a un’area che si trova appena prima della manifestazione.  Per me questa esperienza risuonava con quella vissuta alla Cappelleria. 
Con questo nuovo progetto «Ouverture – Choeur de l’aube n°1», ho deciso di chiudere le palpebre per aprire lo sguardo al luogo e trasmettere il suo carattere che è quello di collegarsi al più vasto e al territorio a cui appartiene. La mia proposta è di intervenire con un’installazione site-specific immersiva che permette di far entrare il mondo all’interno della Cappelleria. Per creare un dialogo tra questi due poli , la lingua comune è la luce e il tempo. 
Immersi nella penombra, una finestra luminosa che si affaccia su uno spazio colorato infinito sarà disegnata sul soffitto. Una superficie sensibile è sospesa sopra gli armadi che si riveste dei colori del cielo all’alba. Lo sguardo perso nel colore, posto in un intervallo di tempo illimitato e senza un riferimento spaziale netto, solo il canto degli uccelli diffuso a volume basso potrà collegarci a una qualsiasi scala: quella del ritmo della respirazione. 

Il martin pescatore trattiene tutti i riflessi del fiume?

Ci sono quelli momenti in cui tutto si ferma.
E l’aria si feltra, lo sguardo tace.
Il cuore prende allora parola e i colori sgorgano.
Non c’è più tempo in questo mondo: tutto diventa uno e poi tutto, di nuovo.
È così grande che nemmeno il canto di un uccello potrebbe coprirne la sua vastità.
Il cielo si ricopre d’oro come d’argento, può sparare alle viola o agli arancioni.
Ma non si saprà mai il segreto dei suoi ritmi.
Perché appartengono a colui che si chiama «possibile».

Agathe Rosa

Agathe Rosa – Disegno della Garzetta osservata